Ideologia della crescita e corona-virus

1) Premessa

 In macroeconomia si distingue crescita da sviluppo, ma enfatizzando l’attenzione sulla prima e trascurando il secondo, quasi che i macroeconomisti ritenessero la crescita di loro competenza, mentre lo sviluppo riservato ai sociologi. Questo atteggiamento si potrebbe collegare alle definizioni: crescita è aumento dei beni materiali e dei servizi, sviluppo è miglioramento della qualità della vita. È vero, invece, che l’enfatizzazione della crescita spinge verso l’ideologia della stessa e la sua separatezza, mentre, in realtà, dovrebbe trattarsi di endiadi o delle due facce della stessa moneta.

Peraltro, l’ideologia della crescita trascina con sé, quasi fosse una conseguenza, l’ideologia del PIL, almeno nella forma e contenuti oggi comunemente intesi.

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La differenza tra economia teorica ed economia pratica è che la prima ammette che ci si possa sedere su una baionetta, la seconda no. La baionetta è una metafora e sottintende il “punto di equilibrio”, che è una mera astrazione inventata per poter pensare e visualizzare una curva geometrica, sulla quale segnare un punto ideale o virtuale che rimanda ai piatti di una bilancia che restano fermi e paralleli perché equiponderali. In natura non esiste: senza dinamismo non ci sarebbe evoluzione e, ragionando in termini filosofico-teologici, forse nemmeno l’universo, ponendo fine all’insolubile dilemma “perché esiste qualcosa e non il nulla?”, comunque non esisterebbe il progresso.

In economia il punto di equilibrio è solo un’ipotesi astratta: nella realtà o si cresce o si decresce e ciò a prescindere dai cicli economici. Ma fatta questa constatazione, non si dà risposta a due domande: perché si cresce o decresce e se sia meglio l’una o l’altra. Dire “si dà risposta” potrebbe essere un errore, perché, soprattutto in economia, ove il principio di causalità è dominante, le cause sono sempre più o meno numerose e spesso non individuabili, il che implica che, possibilmente, si devono cercare molte risposte e questo giustifica la professione di economista e il profluvio di cattedre universitarie, con il vantaggio di creare occupazione intellettuale e rischio di moltiplicare le risposte non appropriate. Questa non è una considerazione che auspica l’abolizione, ma il contenimento e soprattutto la non proliferazione delle specializzazioni, che sono l’opposto della reductio ad unum, cioè la perdita della visione complessiva e interdisciplinare delle branche.

Ci sono poi in economia, come d’altra parte avviene in natura, frequenti rapporti biunivoci tra causa ed effetto, ingarbugliando ancor più la matassa.

Supponiamo, ma non dico che sia una ipotesi sicuramente fondata, che la spinta alla crescita venga da un incremento demografico: crescono le bocche da sfamare e, quindi, bisogna darsi da fare per aumentare le risorse o, meglio, il modo di sfruttare quelle esistenti o quelle in precedenza create dall’attività umana (per esempio: l’informatica) e con questo accenno svicoliamo da ogni riferimento maltusiano, però abbiamo posto un’ipotesi realistica e dato una risposta convincente alla prima domanda:  perché si cresce? Da qui una facile generalizzazione che è entrata nell’ideologia umana, una specie di premessa antropologica a tutto, che si traduce in un giudizio, diventato preconcetto: crescere è bene, decrescere è male, giudizio diventato così classico che più nessuno si sofferma a esaminare le motivazioni, come un libro diventato così classico da meritare di essere lasciato a impolverare su uno scaffale e, quindi, ignorato.

Tutto è crescita e si potrebbe dire che esiste la condanna a crescere, perché crescere è bene, in analogia al biblico comando: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Genesi, 1,28). Ricordiamo che, diversamente dal Corano, scritto da Maometto sotto dettatura di Allah, la Bibbia riporta il pensiero, ispirato, dei profeti e il Pentateuco, in cui è compresa la  Genesi, è attribuita a Mosè e l’invito “moltiplicatevi” deve essere contestualizzato e storicamente spiegato, perché un conto è un pianeta Terra ancora da abitare e altro conto è un piccolo globo stipato di oltre 7 miliardi di individui, che, secondo i dati esposti dallo storico Carlo Maria Cipolla in Uomini, tecniche, economie, Milano, 1966, pag. 104: «poco prima dell’inizio della Rivoluzione Industriale, verso il 1750 d.C., la popolazione mondiale deve essersi aggirata tra i 650 e gli 850 milioni di individui, dei quali, con ogni probabilità, l’ottanta per cento era concentrato nell’Eurasia».

La constatazione di una iniziale crescita moderata che, a partire dalla metà del XVII secolo diventa esponenziale, trascina con sé il problema del tempo, poiché senza tempo non si riesce a pensare nemmeno la crescita: affinché l’acqua non si sparga e disperda occorre un contenitore continuamente dilatabile e in espansione. È il tempo, che dà forma e dimensione alla crescita, ma ne determina anche i limiti, comunque necessariamente proiettata al futuro, cioè alla crescita del tempo. Ora, osserviamo che, se la crescita più o meno accelerata è un continuum si perviene a una constatazione che esso è indeterminato, cioè: la condanna a crescere è per sempre? Sembrerebbe di sì, almeno per coerenza con il concetto stesso di crescita.

Se ci chiediamo, sul piano etico, perché la crescita è bene, ci possiamo attendere più risposte, ma una viene abilmente nascosta: conviene a qualcuno o a molti, se non a tutti quegli esseri che vivono oggi e hanno necessità di sopravvivere o accumulare ricchezza come strumento di potere e di autoesaltazione, fino a diventare una necessità di adrenalina.

Tutto deve crescere in economia: l’occupazione, il giro di affari, il reddito periodico, il capitale, la borsa, il Pil, il welfare, ecc. con la conseguenza che i pubblici poteri e la burocrazia devono crescere e pure l’ingerenza dello stato con limitazioni delle libertà individuali e collettive. Tutto è solo crescita, con la conseguenza che se la crescita-bene comprende anche dei mali (esternalità) si è propensi a giustificarli come necessità naturale o consequenziale, pur di salvare l’etichetta del bene.

Facciamo una digressione (solo apparente): secondo certa teoria marxiana si afferma che non l’uomo ha inventato il badile, ma il badile ha inventato l’uomo, metafora eccessiva, che, però, illumina la derivazione dal determinismo e dal materialismo. Questo assunto è da rifiutare, perché l’uomo è pur sempre l’attore dell’economia con la sua attività, anche se bisognerebbe distinguere tra uomo singolo e collettività umana, ma questo è un altro complicatissimo problema, da cui siamo qui costretti a prescindere. Allora, se la crescita non è un destino predeterminato, implica che l’economia può anche decrescere e che non esiste una inappellabile “condanna alla crescita” e, prescindendo dall’astratto punto di equilibrio, che si può ragionare in termini di decrescita, se non altro come divertissement o esercitazione astratta mentale.

Ma non è sempre una astrazione, come dimostra un esempio, forse non del tutto calzante del tipo: la borsa cresce e tutti guadagnano, ma ci sono esperti che guadagnano ancor più quando la borsa cala e non causalmente ma costantemente, il che dimostra che la crescita non è un assoluto e che il tempo non è collegato solo alla crescita, ma anche alla decrescita. Viene in mente la storiella del pellegrino che bussa alla porta del convento e frate portinaio informa frate cuciniere della necessità di aggiungere acqua alla minestra, che risulterà di conseguenza meno calorica per tutti gli affamati del refettorio; se poi bussano molti pellegrini la broda sarà cibo apparente. Questo è un concetto maltusiano, ma serve a mettere in discussione l’assioma della crescita a tutti i costi. La realtà umana è il regno del relativo e niente è assoluto. Gli astrofisici hanno teorizzato, ma anche provato, che l’universo è in continua espansione, ma anche che tutto può finire in una implosione. Sembra una applicazione del principio economico di mancanza di un punto di equilibrio: o si cresce o si cala e “chi si ferma è perduto”, che è uno slogan applicativo del principio di “andare avanti”, come si è ritenuto erroneamente in America con il mito del more and more! Da qui la domanda: chi, invece, retrocede è ancor più perduto di chi si ferma? La risposta viene da una precisazione: bisogna distinguere tra crescita collettiva e crescita individuale, o, detto in altri termini, crescita del Pil generale o del Pil pro-capite e ciò a prescindere dalla distribuzione o dalla concentrazione della ricchezza e del reddito, che è un altro gravoso e complicatissimo problema.

Ora, prescindendo dalla insoddisfacente definizione e dal contenuto del Pil, che è un grosso paniere che non include tutte le componenti economiche: se il Pil cresce, ma ancor più crescono gli affamati, è evidente che la quota spettante ad ognuno diminuisce, coeteris paribus. Questa constatazione pone l’obbligo di una scelta iniziale e cioè, la domanda: ragioniamo in termini di Pil totale e di Pil pro-capite? È chiaro che se si tratta di Pil totale, allora vale la teoria neoclassica che lega la crescita all’aumento della popolazione soprattutto se si persevera nei discutibili metodi contabili attuali di rilevazione del PIL, se, invece, si tratta di Pil pro-capite la crescita, potrebbe (il condizionale è d’obbligo) dipendere, tra l’altro, dalla diminuzione della popolazione. Il singolo pensa alla propria fetta di torta, meno a quanto pesa l’intera torta!

 

2) Il bene o il male della decrescita

 

È stata fatta l’ipotesi, nell’ambito della teoria neoclassica (rovesciata) di una diminuzione della popolazione all’inizio di una certa catena causale. Si deve anche porre la premessa che l’avanzamento della scienza e della tecnologia sono in gran parte fenomeni esogeni all’economia, mentre per solo una piccola parte possono essere indotte o stimolate da una esigenza di sviluppo endogene all’economia. Se si pone l’ulteriore ipotesi di dare preminenza al Pil pro-capite rispetto a quello totale, si può considerare che una diminuzione della popolazione potrebbe non essere un male, ma questa considerazione va corredata da altre considerazioni.

Innanzi tutto ricordiamo che il PIL totale è un valore assoluto, cioè il flusso di beni e di servizi registrato in un anno, che, se paragonato al valore dell’anno precedente, può consentire il giudizio di una crescita o una decrescita in atto, nel qual caso è pur sempre un paragone tra valori assoluti. Se il giudizio che si ricava è importante, più importante è il PIL pro-capite, che è un valore relativo, perché designa quanto di quel flusso è mediamente disponibile per ogni soggetto. Anche questo può essere paragonato all’omologo valore del periodo precedente o a una serie storica e fornire una indicazione dell’andamento del benessere economico (si noti: solo economico) di ogni singolo soggetto. Tra il valore assoluto e quello relativo è più importante il secondo, se non altro perché è correlato con la dinamica demografica.

In secondo luogo e passando dalle definizioni generali alle cause della dinamica, si deve osservare l’elemento temporale che può essere di limitato periodo oppure strutturale.  Nel primo caso si può collegare la dinamica del PIL al ciclo economico, che è di natura ondulatoria e può essere un fenomeno fisiologico, perché l’economia può svilupparsi intorno a una retta ma oscillando intorno ad essa: a un ciclo in ascesa ne sussegue uno in discesa e viceversa. Se si osserva l’inclinazione o orientamento della retta, che trascina il ciclo, si può parlare di direzione strutturale dell’andamento economico.

Sono le cause determinanti dell’inclinazione che interessano di più l’analisi economica. Per la teoria neoclassica l’inclinazione è legata all’andamento delle popolazione: se aumenta, si ha crescita; se diminuisce, si ha decrescita e ciò è dovuto all’attenzione al valore assoluto del PIL piuttosto che a quello relativo. Osserviamo che il PIL assoluto può crescere, ma il PIL pro-capite diminuire, per esempio: quando il prodotto interno aumenta men che proporzionalmente alla popolazione. Ci si chiede se diminuire la popolazione (le coppie fanno meno figli) può essere un tipo di soluzione del problema, se l’obiettivo posto è la crescita del PIL pro-capite. Potrebbe essere, solo in astratto, una soluzione, soprattutto se si aggiunge il fenomeno delle esternalità, che aumentano con la crescita della popolazione: più uomini, più braccia (lavoratori) e produzione, più bocche da sfamare (consumatori) e così via in una catena di cause e concause, di effetti diretti e collaterali, che, alla fine l’economia non è più in grado di gestire, lasciando campo alle ideologie e alla sociologia.

Si consideri, invece, che più che la popolazione attiva, attualmente conta la tecnologia o, meglio: l’uso e lo sfruttamento della tecnologia.

Il concetto che dovrebbe prevalere e, invece, è piuttosto trascurato, riguarda il limite; cioè, c’è un limite alla crescita incondizionata, al more and more, varcando il quale si può entrare in una spirale negativa. L’uomo corre il rischio di fare la fine dei lemming. Solo per fare un esempio: che accadrebbe quando si fosse estratta l’ultima goccia di petrolio? Qui non c’entra il catastrofismo, ma la concreta previsione di un probabile realtà futura. Ma, a prescindere dalla sola disponibilità di risorse e beni materiali, il concetto di limite suggerisce attenzione alle esternalità, senza bisogno di scivolare nell’ecologismo e nell’ambientalismo, che volgono verso l’ideologia politica. Il fatto è che l’uomo è necessariamente consumatore e, quindi, inquinatore. Gli ottimisti sono convinti che scienza e tecnica trovino sempre soluzioni a tutto. Ma, se si guarda alla storia anche recente, si constata che, nonostante scienza e tecnica siano cresciute, le esternalità sono cresciute di più.

Da qui la domanda: è più importante la crescita o lo sviluppo? La vita è sicuramente importante, ma è la qualità che conta e questa non si misura con il PIL, che, tra l’altro, si è dimostrato inadeguato persino per la crescita. Per dimostrarlo si pensi a una paese, o a un’economia, in cui le madri lavorino percependo un emolumento e corrispondendo un salario alla colf. I due emolumenti entrano entrambi nel calcolo del PIL. Se le madri restano a casa a custodire i figli, realizzando in molti casi un più stabile equilibrio familiare, il valore delle prestazioni materne non entra in alcun calcolo. Nel primo caso il PIL aumenta, rispetto al secondo, che in questo non cresce anche se lo sviluppo, che riguarda la miglior qualità della vita della famiglia, può, in molti casi, decisamente migliorare.

 

3) Conclusioni

 

Qui non si propongono conclusioni, che implicherebbero giudizi di valore sulla validità del concetto di crescita, quasi che fosse auspicabile una decrescita. Si vuol solo sensibilizzare sulle carenze dei metodi di rilevazione del PIL impiegati dai contabili macroeconomici e sulla disattenzione sul concetto di sviluppo, di ben maggior difficoltà di rilevazione e di impossibilità alla riunione in un dato di sintesi di tutte le sue componenti, alcune delle quali nemmeno quantificabili, ma esistenti e di grande importanza.

Però si deve osservare che, nonostante crescita e sviluppo siano realtà inconfondibili, esistono evidenti collegamenti tra i due concetti economici e sociali. Il vero progresso si ha quando la crescita aiuta a migliorare lo sviluppo, che resta il vero obiettivo. Ne abbiamo prova nel biennio 2019-2020 con l’incontenibile pandemia da Covid-19, sperando in un arresto forzato da vaccini o naturale per esaurimento della forza del virus come avvenne per passate pestilenze. Intanto, il tasso di crescita mondiale dell’economia ha dovuto registrare un calo significativo se non addirittura un regresso. Ovvio e consequenziale che anche lo sviluppo abbia avuto un andamento parallelo negativo. Il collegamento è solo per i numeri statistici mondiali, che possono nascondere un fenomeno perverso: pochi diventano sempre più ricchi e la moltitudine sempre più povera, contro il concetto di sviluppo che implica anche equità distributiva.