Il debito pubblico italiano è un fenomeno diventato incontrollabile fino a incrudire in una ipertrofia, nonostante i niet del ministro Tremonti ai postulanti colleghi di governo. Il male, cronicizzato da anni con folle politica di sperperi pubblici, può essere curato solo con la chirurgia, pena un’inappellabile condanna dell’Italia a camminare sulla via della virtù e del buon senso da parte della Ue.

Sul debito pub­blico, da anni e soprattutto per la penna di economisti della prima repubblica, anche ministri o parlamentari di alto rango [1], l’inchiostro si è sprecato in sofisticate elabora­zioni di dottrina e in memento, che, detenendo i predicatori tutte le leve del potere, do­vevano ritenersi rivolti a se stessi. Ma i governanti han preferito la terapia dell’alcolizzato, che ogni giorno si propone di smettere “domani”, con l’aggravante che a ubriacarsi è stato soprattutto il popolo italiano, complice di aver gradito, da una parte: fruire degli sperperi, e dall’altra: finanziare, con la sottoscrizione dei titoli pubblici, gli scriteriati disavanzi di bilancio. La condizione di ebbrezza permanente è stata possi­bile finché: a) si è potuto applicare il concetto di François Melon, che nel ‘700 scriveva che le passività di una nazione sono i debiti dovuti dalla tasca destra a quella sini­stra [2]; b) il tasso d’inflazione prima e il crollo dei tassi d’interessi per effetto della crisi del 2008 hanno pagato ampiamente gli interessi sul debito; c) la fi­nanza italiana, nonostante adesioni all’Euro, è rimasta incantata a trastullarsi con i suoi balocchi da “prima repubblica”. L’internazionalizzazione della finanza e la globalizzazione dei mercati hanno cambiato tutti i meccanismi al punto che la scienza economica è in parte da ri­scrivere [3]. Si scopre ora che il re è nudo e il minimo che si possa fare è trovargli su­bito almeno un paio di mutande. Ma con la decenza non si fa terapia. Occorre una cura radicale e graduale per non ammazzare il malato, ma soprattutto è bene non dare troppo ascolto a superesperti interessati, perché quando un fenomeno sfugge alla loro scienza economico-fiscale, c’è ancora la speranza che la saggezza ed il buon senso, di cui do­vrebbe alimentarsi la politica, possano suggerire utili soluzioni. E il primo consiglio è di elencare le cose che non si debbono fare, come, per esempio, il consolidamento del debito pubblico, dimenticando che gli italiani degli anni anteriori alla seconda guerra mondiale, che avevano creduto nel futuro del regime, si sono trovati nel dopoguerra con i titoli irredimibili ridotti a carta straccia. Ogni analisi sul bilancio pubblico deve partire dalla constatazione della sua dimensione. Il debito veleggia verso i 1.900 miliardi di euro, quasi il 120% del Pil, il doppio del co­efficiente di Maastricht. Ora che la politica monetaria è fatta a Francoforte non è più praticabile una terapia basata sull’inflazione nazionale. Alla Bce, che salvaguarda il tetto del 2% della crescita dei prezzi in tutta l’area comunitaria  sanno benissimo che l’inflazione è una polveriera con miccia corta e la deflagrazione colpirebbe soprattutto le categorie più deboli. Inoltre il ricorso all’inflazione per pagare il debito pubblico è insen­sato se, come nel caso Italia, la massa dei titoli non è a lunga durata [4]. Alle singole e rotative scadenze lo Stato fallirebbe il rinnovo, a meno di offrire condizioni superiori all’inflazione; come dire che la terapia aggraverebbe il male, anziché curarlo. Inoltre bi­sognerebbe aver portato in pareggio il bilancio statale e non aver bisogno di debito sup­pletivo per finanziare nuovo disavanzo. Né può essere una terapia il consolidamento, perché già è in atto. Il debito pubblico italiano, dato il suo valore, ha già consolidato se stesso. Keynes, che, diversamente dai suoi epigoni, aveva il senso dell’umorismo, scriveva:   “se devi ad una banca mille sterline, hai un problema, ma se gliene devi un milione, il problema ce l’ha lei“. Le banche lo sanno e quando si accorgono di avere scheletri li chiudono negli armadi e senza chiasso si affidano alla saggezza e al buon senso, cioè al tempo, che è buon me­dico per il malato e per il medico stesso. Per questo, alla fine, riescono a navigare anche nelle tempeste. I responsabili della nostra economia nazionale debbono procedere nello stesso modo e come scrive Manzoni [5]: Adelante, Pedro, si puedes! Unica terapia: fruga­lità per tutti e per anni a venire; abbandono dell’illusione del free lunch [6]; un solo e sudato pasto al giorno condito con un pizzico di humor, che non va confuso con la bou­tade. In termini più tecnici: un incremento del tasso di crescita del Pil, ottenuto anche con recupero di efficienza della pubblica amministrazione, e un crescente avanzo pri­mario del bilancio statale, derivante da aumento delle entrate tributarie (non aumentando la pressione fiscale già insostenibile, ma con razionalizzazione dei tributi) e da riduzione delle spese. Gli interessi per il servizio del debito caleranno per conseguenza, perché sono l’effetto, non la causa.  La virtù, anche se costretta, alla fine, paga… il debito.


[1] Penso a L. Spaventa, già ministro del bilancio, a V. Visco, etc..

[2] ricordato da L. Spaventa, Debito pubblico e pressione fiscale, in “Moneta e Credito”, 1988, n. 161, pag. 6.

[3] S. Lombardini, Dentro la crisi, all’Est, all’Ovest, in Italia, recensione in “Studi e Informazioni”, n. 1/93, pag. 143.

[4] A Graziani, La spirale del debito pubblico, Bologna, 1988, pag. 13

[5] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XIII.

[6] G. Compagna, Martino:  ” va subito bloccata l’incidenza della spesa sul Pil  “, in “Il Sole-24 ORE”, 18.3.94.