La legge finanziaria 2007, con il corredo dei suoi decreti delegati, in primis il D.L. 223/2006, modificato dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248, ha imposto lo scorporo del valore delle aree da quello del fabbricato, quando risultano in bilancio con valore unico. La norma ha due punti di riferimento:

l’ipotesi che il valore del terreno su cui insiste il fabbricato non possa entrare nel piano di ammortamento. In proposito la foga di requisizione del Fisco proponente non trova giustificazioni sul piano logico, perché il terreno, una volta incorporato forma un bene unico e inscindibile con la parte muraria, a meno di tornare all’era delle palafitte; ma non ne trova nemmeno sul piano economico, perché non è vero che il terreno, una volta edificato, sia suscettibile di dare un reddito fondiario autonomo, dato che la sua funzione è quella di fare da punto di appoggio alla parte edilizia. Negarlo sarebbe come disconoscere la legge di Archimede;

il principio IAS, una ridicola e ipocrita tesi anglosassone, contiene lo stesso principio di scissione. Però, almeno, lo applica solo a immobili di proprietà da “cielo a terra”, non solo, ma tiene conto anche delle spese di rimessa in pristino dell’area, il che comporta, in molti casi, un annullamento del suo valore e, quindi, una conferma del valore di bilancio dell’intero fabbricato, perché, azzerando per compensazione di costo e spese per rimessa in pristino dell’area, il valore di bilancio finisce per essere attribuito interamente alla parte muraria. Il principio IAS non si pone il problema del contributo del terreno alla formazione del reddito di esercizio e, quindi, della correlazione implicita a esso, ma, non bisogna mai dimenticare che i principi anglosassoni sono ideologicamente asserviti ai mercati dei capitali e principalmente alle borse, nei cui listini tendono a scaricare il massimo valore possibile, anche se il principio della prudenza è sostituito da quello di amplificazione della oscillazione delle quotazioni. Ma il Fisco italiano, con la improvvida norma in questione, ha varcato persino i limiti dei principi IAS. La conferma che la norma è stata spinta da una ideologia fiscale meramente vessatoria la si constata anche nella Circolare 19 gennaio 2007, n. 1/E, e non poteva diversamente, perché, ormai estensore delle norme e interprete delle stesse sono lo stesso soggetto: l’Agenzia delle Entrate, che, alla fine, interpreta se stessa. L’Agenzia è diventata autoreferenziale, con buona pace dei principi su cui dovrebbe fondarsi la democrazia.

Scrive il circolarista della 1/E che nella determinazione del valore del fabbricato ai fini dello scorporo di quello dell’area devono essere tolti i costi «costituiti dalle spese per interventi di manutenzione, riparazione, ammodernamento, trasformazione e ampliamento che siano state portate a incremento del costo dei fabbricati strumentali, sostenute successivamente all’acquisto o alla costruzione». Escluso l’ampliamento, che anche civilisticamente dovrebbe essere stato capitalizzato, le altre categorie sono quelle previste dall’art. 102, comma 6, del Tuir 917/1986. Ma già l’aver messo l’ampliamento in una categoria unica con gli altri tipi di spese, può essere criticabile. In fatto, un ampliamento è un quid novi, che si aggiunge a un preesistente con cui ha uniformità di categoria, ma senza confusione. L’esempio più classico è una nuova costruzione che amplia un fabbricato industriale preesistente. Come risultato finale si ha una struttura muraria unica “alla vista”, ma catastalmente, che è ciò che conta, si può avere un immobile identificato e censito autonomamente e costituito dall’ampliamento. La reductio ad unum, come ha fatto la sopra riportata Circolare 1/E del 19 gennaio 2007, non pare una operazione corretta, proprio ai fini dello scorporo del valore delle aree dai fabbricati.

Sul punto della capitalizzazione delle spese, si deve ricordare che nel nostro Paese si sono confrontati due indirizzi operativi da parte delle imprese:

adattare, a costo di alcune forzature, il bilancio civilistico a quello fiscale, soprattutto sull’assunto che, se la norma fiscale si adegua a una determinazione meccanicistica (5% del costo complessivo dei beni materiali), una logica economica ci deve pur essere. Chi ha seguito questa soluzione ha cercato di far rientrare le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione nel 5%, che consente l’addebito integrale (o almeno fino a capienza) al conto economico dell’esercizio di sostenimento, talché non esistono più residui e, quando esistono, se ne perde sia l’evidenza formale sia la traccia. Ma anche chi ha dovuto procedere a una capitalizzazione della parte eccedente il 5% ha poi costituito una categoria autonoma, non più riconducibile all’immobile e con ammortamento in un quinquennio;

seguire una via civilistica e autonoma da quella fiscale e capitalizzare dette spese nel conto dell’immobile. In taluni casi anche sulla spinta dell’esigenza di ottenere un alleggerimento del conto economico, già compromesso da risultati di perdita. Conseguentemente, ci possono essere casi in cui la capitalizzazione è avvenuta con forzatura dei “principi contabili”, quando la spesa non è di per sé atta a produrre utilità di lungo periodo, qual è la durata dell’ammortamento dell’immobile.

È evidente che nel caso 2) quelle spese vanno tolte dal valore dell’immobile, con conseguente riduzione del valore dell’area non ammortizzabile, ma è anche vero che, se poi per la determinazione del residuo da ammortizzare, il valore di tali spese va reincluso nel valore del residuo da ammortizzare per un minimo di logica (Circ. 1/E, § 7.5, esempio n. 4), allora è altrettanto evidente che gli imprenditori che hanno seguito l’indirizzo sub 1) si trovano avvantaggiati quanto meno per la maggior semplicità di calcolo, ammesso che l’ammortamento residuo sulle spese incrementative non vada perduto, data l’oscurità della Circolare citata, proprio sul punto dove si legge che, nel caso di coincidenza del fondo di ammortamento dell’immobile industriale, già al netto della quota di fondo relativa alle spese incrementative con il valore dell’immobile stesso depurato del valore dell’area e delle spese incrementative: «nessuna quota di ammortamento sarebbe fiscalmente deducibile, posto che il valore del fabbricato risulta già completamente ammortizzato». Secondo logica elementare, se si sostiene, come sembra scontato, che accessorium sequitur principale, allora, se non si può più procedere all’ammortamento del fabbricato perché “già completamente ammortizzato”, anche le spese capitalizzate non dovrebbero più essere ammortizzabili. La conclusione sarebbe aberrante, seppur per superarla si debba comunque trascurare la logica [1]. Ma, se si ritenesse valida la conclusione che l’ammortamento residuo è fiscalmente perduto, allora il danno per chi ha capitalizzato tali spese sarebbe evidente e rilevante.

Questa osservazione non vale comunque per l’ampliamento, che impone, per sua natura, una capitalizzazione civilistica inevitabile.

Si deve anche considerare che, nel caso di superamento della soglia del 5% di cui all’art. 102, comma 6, TUIR 917/1986, le norme tuttora in vigore non vietano di continuare a costituire la categoria autonoma di spese da ammortizzare nei cinque esercizi successivi, come non vietano l’ammortamento nel caso di capitalizzazione delle nuove spese sostenute e patrimonializzate dopo l’entrata in vigore del D.L. 2 ottobre 2006, n. 262.

Ma è opportuno anche un altro richiamo: il trattamento, ai fini dell’ammortamento, delle spese capitalizzate e di quelle che si capitalizzeranno in futuro. Sul problema è stata pubblicata a suo tempo la chiara norma ADC n. 129, confermata dalle successive Circolari ministeriali 16 marzo 2005, n. 10/E e 31 maggio 2005, n. 27/E, secondo cui le spese incrementative si aggiungono al valore del bene in corso di ammortamento, maggiorandone la base di calcolo e mantenendo ferma l’aliquota del piano di ammortamento; non, quindi, creando cespiti autonomi con un loro proprio periodo di ammortamento.

Sicché, il consiglio di scaricare subito il massimo possibile nei costi di esercizio resta valido.

La citata circolare 1/E del 2007 esprime un esempio del tipo:

– valore dell’immobile ante scorporo 1.000

– spese incrementative 200

– fondo ammortamento 500

– di cui per immobile 450

– di cui per spese incrementative 50

 

I calcoli sarebbero i seguenti:

 

1.000 valore in bilancio dell’intero immobile

-200 spese incrementative

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800 x 30% = 240 valore riconosciuto all’area

-240

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560 valore riconosciuto alla parte muraria senza le spese incrementative

-450 fondo di ammortamento della parte muraria escluse le spese incrementative

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110 valore residuo da ammortizzare per la parte muraria

+150 valore delle spese incrementative da ammortizzare

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260 costo residuo da ammortizzare

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La volontà del legislatore, confermata dalla Circolare 1/E del 2007 e rappresentata nell’esempio sopra esposto, riduce il residuo costo da ammortizzare della parte muraria e in molti casi, soprattutto per immobili di più vecchia data, l’azzera. Sul processo di ammortamento residuo l’Agenzia delle entrate applica le Circolari 10/E e 27/E sopra richiamate.

Si ricorda che, seguendo la procedura dell’Agenzia, il valore dell’immobile, depurato dal valore convenzionale dell’area e dalle spese incrementative, confrontato con il correlativo fondo di ammortamento le spese incrementative e il valore convenzionale attribuito all’area, si possono ottenere tre diversi valori, secondo la durata del processo di ammortamento già decorsa:

nullo. L’oscurità della Circolare 1/E sul punto è già stata prima rilevata e alimenta persino il dubbio che il residuo ammortamento sulle spese incrementative vada perduto;

negativo. La circolare 1/E del 2007 non affronta il problema e non si esprime sulla sua compensazione con l’eventuale valore residuo da ammortizzare delle spese incrementative, fenomeno che può accadere per immobili entrati in ammortamento in data risalente e ormai giunto alle ultime quote. Riprendendo l’esempio:

valore immobile 1.000

spese incrementative 200

fondo ammortamento 650

– di cui per immobile 600

– di cui per spese incrementative 50

I calcoli diventerebbero i seguenti:

 

1.000 valore in bilancio dell’intero immobile

-200 spese incrementative

­­­­­­­­——-

800 x 30% = 240 valore riconosciuto all’area

-240

——-

560 valore riconosciuto alla parte muraria senza le spese incrementative

-600 fondo di ammortamento della parte muraria escluse le spese

——-

-40 ammortamento negativo

 

Come si nota, se il fondo di ammortamento riferibile alla parte muraria, per effetto della nuova normativa, fosse 600, si avrebbe un’eccedenza negativa di 40 rispetto al valore riconosciuto di 560 alla parte muraria senza le spese incrementative. Si devono fare in proposito due osservazioni preliminari: a) il legislatore e il circolarista hanno scisso le spese incrementative e il relativo fondo in parti separate; b) il fondo di ammortamento della parte muraria è stato ricalcolato, per imposizione di una nuova regola, ma il fondo accumulato è stato determinato nei vari anni secondo regole tributarie legittimamente applicate, talché il saldo negativo risultante è solo un effetto attuale di natura meramente formale e non sostanziale, poiché sul piano logico non può esistere un fondo di ammortamento negativo, a meno di errori contabili, che sono fuori dall’ipotesi qui considerata. Dalle due premesse risulta che il saldo negativo non può essere imputato al residuo ammortizzabile delle spese incrementative, ma non può nemmeno essere richiesto in tassazione diretta da parte dell’Agenzia delle entrate, perché non si tratta di componente di reddito fiscale, ma di mero ricalcolo virtuale. Pertanto l’eventuale saldo negativo è assimilabile al saldo zero.

positivo.

Si prenda in considerazione il caso c) e si ipotizzi che il processo di ammortamento secondo il piano in atto al momento di entrata in vigore del D.L. 262/2006 preveda il completamento nel 2008. Poiché le Circolari 10/E e 27/E, oltre alla norma ADC 129, mantengono ferma l’aliquota del piano, si deve ritenere che l’ammortamento residuo delle spese incrementative si completi comunque nel 2008. Inoltre, se nel 2007 si sostenessero spese incrementative, il loro ammortamento dovrebbe esaurirsi nel 2008, per il principio di accessorietà all’ammortamento dell’immobile. Come si può notare, la scelta del mantenimento dell’aliquota del piano può aumentare la durata di ammortamento. Se, invece, questa fosse stata mantenuta si sarebbe dovuto modificare l’aliquota dell’ammortamento, ma questa non è stata la scelta del circolarista della n. 10/E del 16 marzo 2005, § 4.3.

Si può ora riprendere il problema iniziale alla luce della normativa sullo scorporo dell’area, relativamente alla convenienza fiscale di capitalizzare le spese incrementative a integrazione del valore dell’immobile oppure a scaricarle in conto economico a sensi dell’art. 102, comma 6, TUIR, salvo riprendere la quota eccedente nella categoria speciale da ammortizzare nei cinque esercizi successivi al loro sostenimento e purché il grado di elasticità della norma civilistica lo consenta.

È evidente, senza bisogno di tanti calcoli, che è conveniente capitalizzare le spese quando, permettendolo l’elasticità della norma civilistica, la durata del residuo ammortizzabile è più breve (meno di cinque esercizi successivi a quello di sostenimento della spesa) rispetto alla durata prevista dall’art. 102, comma 6, TUIR 917.

 

Pietro Bonazza

 


[1] Si vedano, per la tesi che le spese incrementative restano comunque ammortizzabili: Bollettino Tributario, n. 2/2007, pag. 143, articolo di G. Verna e Guida Contabilità & Bilancio, 2006 n. 22, pag. 57, articolo di M. Cristoforoni.