La conoscenza è un monastero e, impiegando l’immagine manzoniana del miracolo delle noci (Cap. III dei Promessi sposi), potremmo dire con fra Galdino: «… perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi». Cioè: la conoscenza personale attinge acqua dal sapere comune e la restituisce arricchita per la conoscenza collettiva. Il progresso trova spinta in un circuito di conoscenza collettiva e conoscenza personale, ma la conoscenza collettiva deve sempre passare al singolo attraverso un giudizio individuale di conoscenza e accettazione. Però, questa è una constatazione, non una definizione, peraltro assai difficile, perché, se riferita all’uomo e non come sosterrebbero etologi animalisti estesa anche agli animali in genere, bisogna almeno riconoscere che la conoscenza è un fenomeno dinamico. I filosofi si sono appropriati del fenomeno della conoscenza, ma ultimamente subiscono la concorrenza dei neuro scienziati, che però si fanno prendere la mano e finiscono per esaurirlo in questioni cellulari e cerebrali. Sono dispute e come ci ricorda Benedetto Croce: «è comune lamento che le dispute siano vane».

Consideriamo, allora, alcuni passaggi fondamentali relativi alla conoscenza.

1)    Possiamo iniziare con la domanda: “solo i filosofi hanno diritto di parlare i conoscenza?”. No: a) da sempre, anche l’uomo comune, che abbia voglia di porsi domande e in particolare: “che cos’è la conoscenza?”; b) ancor meno oggi che vede l’aggressiva avanzata orgogliosa delle scienze. Ecco perché chiunque ha il diritto-dovere di parlare di conoscenza senza il filtro sacerdotale del filosofo. Nessuno può dimenticare che la filosofia è la disciplina dei perché e non delle risposte, che spettano alla scienza e alle religioni. Ma anche il filosofo deve rinunciare a esclusive, se non vuol subire il rimprovero di Amleto ad Orazio: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia», anche perché non mi chiamo Orazio, (Atto I, scena V), seppur si debba intendere che per Shakespeare le cose in cielo e in terra devono essere conosciute.

2)      Tutti i concetti, anzi: tutte le discipline, sono storicizzabili e, soprattutto in economia, concetti e insegnamenti possono venire solo dall’analisi della storia dei fatti economici. La storia della conoscenza è in un certo senso la storia dell’umanità e ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è che l’uomo vuole conoscere mentre gli altri animali (per esempio il più evoluto: lo scimpanzé) quel poco che conoscono è per mero istinto di sopravvivenza, checché ne pensino e dicano gli etologi. Quindi a monte della conoscenza c’è la volontà di conoscere, che non è mera osservazione o deduzione, ma percorso verso la causa dei fenomeni e qui c’è già una mia idea di “conoscenza”;

3)      Quando penso alla “conoscenza”, mi viene istintivo parafrasare il Sant’Agostino delle Confessiones, libro XI, dove il filosofo si interroga sul tempo: “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più”. Ma non è una vera parafrasi, perché Agostino si interroga più propriamente sulla “conoscenza del tempo” e se la conoscenza del tempo è dinamica, a maggior ragione lo è la conoscenza in sé, perché volta al continuo arricchimento, anche se la si intendesse solo come conoscenza personale. Inoltre Agostino si pone la domanda: cosa c’era prima del tempo? Che per gli astrofisici è: cosa c’era prima del Big Bang?

a)      Perché nell’Olimpo greco è posto Cronos all’apice del principio triadico assieme a Rhea e a Zeus? (vedi Zellini, “Numero e logos”, pag. 123). E Crono non è anche il tempo?

b)      Nell’Apocalisse non esiste solo il cronos, ma anche il kairos.

4)      Nel libro biblico della Genesi, attribuito a Mosè si leggono i versetti: 2,16: «Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”». Ma, se ci fermiamo a questi, si ha un Dio che vieta all’uomo che ha creato a sua immagine e somiglianza di sviluppare la conoscenza. La soluzione del dubbio si ha nel versetto della tentazione di Satana, che dice alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhio e diventereste come Dio» ove si comprende che, cedendo a Satana, non è la conoscenza in sé che Dio vieta se al versetto 2.18 diede all’uomo il potere di dare il nome, cioè classificare: uccelli e bestie, il che implica una conoscenza biologica. Invece, Dio condanna la pretesa che si strumentalizzi la conoscenza per la scalata a “potente come Dio”. Da qui il peccato originale, che non è peccato di conoscenza, ma peccato di orgoglio. A parte questa fondamentale precisazione, è bene considerare che Mosè era cresciuto in Egitto e scriveva in caratteri geroglifici triconcettuali. Dal testo originario vi fu una prima traduzione in caratteri fenici e solo più tardi in caratteri aramaico-caldei e successivamente in lingua ebraica, che, come è noto, è scritta senza le vocali, che sono lasciate al parlante con massima flessibilità fonico-espressiva, tanto più se l’impostazione è liturgica. San Girolamo ne operò la traduzione dall’ebraico al latino. Ma il significato originario di conoscenza del testo biblico dei tempi di Mosè sarà stato fedelmente riprodotto? Vero è che la “conoscenza” della Genesi è tradotta in latino con il termine “scientia”. Ma è traduzione corretta? Non è importante, se si considera che il peccato originale è di orgoglio e non di conoscenza, cioè della strumentalizzazione della conoscenza, che non è un sapere. La conferma della natura del peccato di Adamo ed Eva la troviamo alla nota 2.17 , pag. 38, della Bibbia di Gerusalemme, a commento della “conoscenza del bene e del male”: «questa conoscenza è un privilegio che Dio si riserva e che l’uomo usurperà con il peccato. Non è dunque né l’onniscienza, che l’uomo decaduto non possiede, né il discernimento morale, che l’uomo innocente aveva già e che Dio non può rifiutare alla sua creatura ragionevole. È, invece, la facoltà di decidere da se stessi ciò che è bene e male, e di agire di conseguenza: una rivendicazione di autonomia morale con la quale l’uomo rinnega il suo stato di creatura. Il primo peccato è stato un attentato alla sovranità di dio, una colpa di orgoglio». Adamo ed Eva hanno sperimentato che la conoscenza è sofferenza. Lo dice anche Benedetto Croce in “Logica, come scienza del concetto puro”: «Chi accresce conoscenza, accresce dolore»;

5)      Mosè scrive circa 1500 anni prima di Cristo, Socrate mille anni e più dopo Mosè e noi sappiamo che la cultura greca è rimasta distante dai testi biblici. Però Socrate, che non ha scritto nulla perché era un predicatore stradale e lo conosciamo solo attraverso i suoi discepoli e Platone in particolare, ci lascia in eredità tanti insegnamenti tra i quali primeggia il: “Io so di non sapere”, mettendo in evidenza che, invece, gli altri non sanno di non sapere, cioè non hanno consapevolezza della loro mancanza di conoscenza;

6)      che la conoscenza sia una premessa indispensabile lo ricaviamo dal Vangelo di Giovanni, che in 8,31, scrive: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui:  «Se rimarrete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»; in altre parole: “la libertà viene dalla libertà, ma questa implica la sua preventiva conoscenza;

7)      uno dei più famosi brocardi medievali, tuttora valido, è iura novit curia, cioè il tribunale conosce le leggi e quindi non c’è bisogno di allegarne i testi alle citazioni, perché la parte che afferma un suo diritto in giudizio deve, invece, dare la prova dei fatti, perché facta sunt probanda. Il  concetto ruota intorno al verbo novit, da nosco, che, però, in latino classico non è “conoscere”, ma “imparare a conoscere”, quindi con un significato dinamico di accrescimento continuo della conoscenza;

8)      Dante nel XXVI canto dell’Inferno scrive due endecasillabi tra i più famosi. Ulisse arringa i suoi marinai: «Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e conoscenza». Per Dante la conoscenza è un viaggio verso l’ignoto per scoprire il “non ancora noto” e anche a costo della vita. Si potrebbe dire che per Dante la conoscenza è tale solo se è rischio. Il nostro sommo poeta pensa all’adrenalina pura. Si noti anche che Dante non condanna all’inferno Ulisse perché ha deciso di spingersi oltre i confini della conoscenza del suo tempo, ma perché “consigliere fraudolento”; quindi l’ansia di conoscenza, la curiositas è salva;

9)      Nietzsche, in Al di là del bene e del male”, scrive l’aforisma: «Oggi, cinque o sei cervelli cominciano a rendersi conto che anche la fisica è solo un’interpretazione e una sistematizzazione del mondo e non una spiegazione del mondo». Questa affermazione relativizza la scienza e, portata alle sue estreme conseguenze, ci fa dire che, se l’uomo pretende di far diventare scienza ogni conoscenza, dimentica che la conoscenza è solo un modo per interpretare e non può avere un valore assoluto. Secondo me e per chi crede nell’aldilà, noi conosceremo solo dopo la morte, perché per conoscere in assoluto bisogna porsi fuori dal tempo e stare nell’eternità. È il tempo che relativizza la conoscenza.

10)   Allora:

a)      alla domanda che cos’è la conoscenza ho già dato una anticipazione. Più analiticamente la conoscenza è come una spirale cioè un filo di Arianna che si svolge intorno alla superficie di un cono e che può essere una partenza dall’apice (cono rovesciato) per allargarsi sempre più in un processo dinamico e induttivo (faccio tanti tentativi, cioè cerchi di spirale). In altri termini la conoscenza è un percorso ermeneutico cioè di lettura e interpretazione dei fatti; oppure cono diritto, perché parto dall’apice per allargarmi sempre più verso la base, applicando ciò che è noto con un processo deduttivo, come nel caso del giudizio: la legge preesiste alla sentenza. Sono i fatti che contano e saperli leggere e correttamente interpretare è il compito di colui che vuol conseguire conoscenza. Il contrario di Hegel, che in un momento di boria (ne ebbe tanti) sostenne che “se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti”, affermazione quanto meno stupida. I collegamenti tra conoscenza e circolo ermeneutico sono pluridirezionali: dopo Heidegger e Gadamer, ma fondamentalmente sono caratterizzati dall’analogia. Pensiamo all’ermeneutica come circolo: se leggo più volte lo stesso libro, ogni volta trovo qualcosa di nuovo rispetto alla volta precedente, eppure il libro è sempre lo stesso e ciò vale per lo stesso autore. Da qui si ricava un concetto fondamentale: la conoscenza è uno sviluppo dinamico: domani conoscerò più cose di oggi, perché la conoscenza è un itinerario. In una poesia Antonio Machado scrive questi versi intensi e meravigliosi: “Caminante no hai camino/el camino se hace a l’andar” (Viandante, non c’è la via, la via si fa con l’andare).

b)      La conoscenza è un temporaneo accumulo di informazioni:

i)        temporaneo, perché dinamico e mutevole. È noto il rammarico: “Non si conosce mai una persona abbastanza”, quando, pur dopo una serie di informazioni, si constata con delusione, di aver commesso un errore di giudizio;

ii)       accumulo, perché solo dopo almeno dopo il conseguimento di una serie di informazioni, si può dire di avere una conseguenza, seppur temporanea. Infatti, le informazioni sono la base per costruire una conoscenza. La prudenza ci suggerisce di diffidare dai cosiddetti giudizi “a naso”, come chi sostiene che “mi basta un’occhiata per conoscere una persona”.

c)       La conoscenza può riguardare: fatti, fenomeni, persone esterne; ma anche l’interiorità. Conoscere se stessi dovrebbe essere una preoccupazione costante del soggetto, perché solo così si possono evitare errori di comportamento e apportare le dovute autovalutazioni e autocorrezioni. Dovrebbe essere il primo dei doveri. Se un soggetto ama le bevande alcooliche, deve sapere auto controllarsi se non vuol cadere preda dell’etilismo. Il senso dell’esortazione, che secondo me è anche un ammonimento, sul frontone dell’ingresso del tempio di Apollo a Delfi è chiaro: “Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli Dei“. È anche utilizzata la versione abbreviata in latino con “Nosce te ipsum”. Questa constatazione ci rinvia direttamente a Socrate e al suo fondamentale e giustamente orgoglioso concetto “Io so di non sapere”, contrapposto implicitamente alla constatazione che gli altri “nemmeno sanno di non sapere”.

d)      La nostra conoscenza è comunque imperfetta, come sottolinea San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (cap. 13, 9-12): «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto».

e)      La conoscenza è qualcosa di diverso dall’informazione e la distinzione tra le due è essenziale. Conoscenza è una forma di sapere che implica una mente in grado di possederla: un soggetto in grado di assorbire le informazioni in una esperienza personale, cioè di metabolizzarle, è uti singuli, mentre l’informazione può essere di tutti in senso oggettivo. Se non vogliamo cadere nell’innatismo dobbiamo dire che l’informazione è condizione necessaria alla conoscenza, ma “non sufficiente”, alla sufficienza deve pensarci il giudizio personale. Quindi tra informazione (una enciclopedia) e conoscenza esiste un rapporto di interrelazione; ma si può dire di più: la conoscenza conseguita a partire dall’informazione può venire esteriorizzata e diventa informazione per gli altri, i quali a loro volta la elaborano e la trasformano in informazione per gli altri. È un processo di empatia con gli altri e altre generazioni e questo è il cammino della storia e se non esteriorizzata diventa empatia con me stesso e, se conoscenza positiva, è il progresso. Ma, se c’è regresso? Che accade quando si rompe il circuito informazione-conoscenza? Pensiamo alle invasioni barbariche dopo la caduta dell’impero romano. I barbari distrussero molte informazioni e fu una caduta della conoscenza (fortuna che i monaci benedettini salvarono un patrimonio culturale, che consentì, dopo l’onda dell’orda, la ripresa della conoscenza); pensiamo al califfo Omar davanti alla biblioteca di Alessandria, che diede l’ordine di distruggere perché se quel che sta in un libro non c’è nel Corano non serve e se nel Corano c’è già non serve comunque; pensiamo ai roghi di libri e di opere d’arte ordinati da quell’invasato di Savonarola; pensiamo al film “Farenheit 451“. Chi brucia libri brucia informazioni e impedisce la conoscenza. Pensiamo al più grande libro scritto da mente umana: “La Divina Commedia”: che cosa rappresenta quel viaggio di tre giorni dall’Inferno al Paradiso, se non il cammino che porta alla conoscenza?

f)       Se conoscenza è solo informazione, allora cadiamo nell’empirismo tanto caro agli inglesi da Hobbes a Hume e ai nostri giorni. Ma, se è così, la conoscenza non serve, basta la constatazione a posteriori, con il rischio che senza conoscenza non c’è nemmeno scientia.

g)      A che serve la conoscenza? A tale domanda si può rispondere parafrasando Aristotele: “La conoscenza non serve a niente perché non è serva di nessuno”.

h)      E qual è il fine della conoscenza? É la ricerca della verità; non la raggiungeremo, perché è come un asintoto all’asse: ci si avvicina ma non si riesce mai a toccarlo, però vale la pena di provarci.

i)        E’ trasmissibile la conoscenza? Per il filosofo Giovanni Gentile, che identificò la filosofia con la pedagogia, la conoscenza, a ben determinate condizioni, è trasmissibile. Secondo me non lo è, almeno se si accetta la distinzione tra informazione e conoscenza. Allora, la conoscenza è conquista personale, che parte dall’informazione e passa attraverso il pensiero critico del soggetto, o meglio dell’individuo, e si trasforma in conoscenza, che resta una conquista personale, incedibile. La più ricorrente ed evidente applicazione pratica del problema della conoscenza dovrebbe essere il processo di giustizia, che ha per fine la “conoscenza della verità. La condanna di un sospettato-incolpato deve avere come presupposto la ricerca della verità, che è un percorso di conoscenza dei fatti e la loro omologazione alla legge. Si tratta del sillogismo che è a base dell’esito del processo: assoluzione o condanna. L’assoluzione per “insufficienza di prove” è ammissione di non aver conseguito la conoscenza della verità dei fatti.

j)        È inutile ai fini della conoscenza, lo spirito pratico? Scrive Benedetto Croce nella Logica: «Che lo spirito pratica porga nuove conoscenze, inconseguibili dallo spirito conoscitivo è da negare con risolutezza: lo spirito pratico è tale, appunto perché non conoscitivo, e, in fatto di conoscenza, del tutto sterile». A parte l’abuso del concetto di “spirito”, tipico dell’idealismo anche italiano, non ritengo di condividere l’asserzione crociana, perché senza lo stimolo che viene dalla pratica (spirito pratico) mancherebbe la spinta a conseguire una maggiore o migliore conoscenza (spirito conoscitivo).

k)      Ha senso  sollecitare di “conoscere la conoscenza”? Colui che vuole indagare sulla conoscenza svolge un’attività di “conoscere la conoscenza”. Non è un gioco di parole o degli specchi, ma un pensiero riflettente, è un pensiero di pensiero, è una coscienza, una consapevolezza della coscienza; è un rimando al socratico “io so di non sapere”. Questa attività indaga sulle origini, sulle cause della conoscenza, sul perché conosciamo; potremmo dire che è una “ontologia della conoscenza”.

***

Ora possiamo chiederci, riguardo all’economia, qual è il collegamento tra storia e conoscenza? Se si vuole che lo storico non sia un mero cronista, per il quale valga solo l’informazione, allora non c’è nemmeno “la storia”, ma, se lo storico vuol essere un “conoscitore dei fatti”, allora deve acquisire la conoscenza dai fenomeni economici, non dalle formule matematiche astratte, dai modelli, che hanno ridotto gli economisti a matematici. L’economia è figlia della filosofia non della matematica né della geometria. Queste offrono solo strumenti metodologici, formali e di rappresentazione di sintesi. Sono strumenti di grande utilità. Faccio un esempio: noi osserviamo un grafico e scopriamo certi andamenti, ma per la conoscenza dobbiamo risalire alle cause che stanno fuori dal grafico. Se il grafico o una curva o una tabella statistica, mi danno numeri, cioè informazioni, e si tratta per esempio di andamenti dei corsi di borsa; non basta, perché devo poi analizzare le cause. Prendiamo le singole storie delle grandi crisi: la bolla dei tulipani nel 1600 in Olanda, la crisi del ’29 negli Stati Uniti, del 1987, la bolla edilizia del 2007. Se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo indagare oltre l’informazione.

Conclusione:

La conoscenza è relativa e perciò è mutevole ed è auspicabile che sia progressiva. Ecco che cosa intendevo con la metafora della spirale intorno a un cono: è una continua marcia di avvicinamento. La conoscenza è anche incerta, ma è soprattutto coscienza e con Socrate, ci ripetiamo orgogliosamente seppur umilmente di appartenere alla categoria di coloro che: “sanno di non sapere” e ricordiamoci anche di Cartesio e del suo “cogito ergo sum“, che poi è una derivazione di Sant’Agostino: “si fallor, ergo sum“, se sbaglio esisto, ma se sbaglio consapevolmente è perché conosco l’alternativa della verità e così conosco di fallire.

Un’ulteriore considerazione: la sapienza non è pariordinata alla conoscenza, ma una sua conseguenza: prima conosciamo e solo dopo possiamo dire di sapere. La conoscenza non è un concetto astratto e onnicomprensivo del singolo individuo: noi conosciamo cose e fenomeni singoli ed è solo quando coordiniamo e armonizziamo un complesso di conoscenze, possiamo dire di avere sapienza. Invece, appare difforme in Paolo nella prima lettera ai Corinzi, 12-8,  ove le due (conoscenza e sapienza) appaiono disgiunte come due diversi carismi dello Spirito:  «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito…… a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza… a un altro, invece, per mezzo dello stesso Spirito il linguaggio di scienza…».

La mia definizione conclusiva potrebbe essere così proposta: «La conoscenza è l’effetto di una informazione filtrata e metabolizzata dal pensiero».