Che significava “pa” per i nostri antichi?[[1]] Così essi intendevano: “colui che procura il pane”, da qui “padre” con tutti i suoi derivati da “padrone” fino a “potere” e “patria”, il “luogo dove sta colui che ti dà il pane”, il nutrimento, ma anche che protegge e aiuta. Le due parole, padre e pane, si sono caricate, nei secoli, di significati trascendenti e religiosi. Si pensi, per “padre”, a ‘ Iovis pater‘ derivato da Iuppiter, cioè Yup-piter, per i romani, al “Dio padre” della Trinità cristiana, al pita(r) del sanscrito con collegamenti al semitico.

Non si tratta di curiosità meramente etimologiche, perché la conoscenza della storia e dell’evoluzione delle parole ci porta direttamente alle radici, anche se la  superficialità, la fretta, il relativismo dei tempi attuali, sono rinunzia alla comprensione del presente. La constatazione della radice “pa” e dei suoi derivati può stimolare, tra le altre, tre osservazioni:

a) nell’antichità,“almeno dagli accadi e fino a Cristo”, la figura del padre assume significati di natura sociologica e giuridica. Sopratutto in ambiente ebraico-semitico, “padre” è capo di un clan, di una famiglia, il cui significato è pervenuto fino a noi, per il tramite del latino “pater familias”, che oltre all’auctoritas è investito anche di potestas con le conseguenti responsabilità. Si pensi a Mosè, profeta e legislatore, che nelle Tavole della Legge, riporta il IV Comandamento: “Onora il padre e la madre”, a garanzia di un dovere di obbedienza insito nel rendere onore. Il concetto è però risalente rispetto al XIV secolo, l’epoca di Mosè, e si attesta nell’area medio orientale, in particolare mesopotamica, che è il crogiolo in cui è bollita l’origine della civiltà occidentale. La figura del “padre” è dominante in tutta la vita, le azioni, i miracoli, la crocifissione e la resurrezione del Messia. Si ricorda che nel Vangelo di Luca, 11,1, alla richiesta di un discepolo: «Signore, insegnaci a pregare…» il Cristo risponde: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano…», che mette in particolare rilievo il rapporto tra padre e pane, nel significato pregnante della parola sanscrita “pa”. Anche l’apostolo Paolo affronta il problema del rapporto interfamiliare del padre e nella “Lettera agli Efesini”, 5,21, (anche Colossesi, 3,18)  raccomanda ai neocristiani di Efeso: «Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie…», in cui trova conferma un’idea patriarcale e maschilista, motivata da preoccupazioni di ordine giuridico e sociale, ma essere “capo” comporta anche il dovere: «E voi, mariti, amate le vostre mogli»,  in cui è evidente che l’amore cancella rapporti gerarchici e, a seguire, Paolo ripete, in 6,1, il IV Comandamento della Tavola mosaica: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto». Nel Vangelo di Luca, 15,11, è anche riportata la parabola del “Figlio prodigo”, che esalta la figura del padre misericordioso, felice di aver ritrovato un figlio che credeva perduto per sempre e che, per il ritorno, ordina festeggiamenti per una gioia collettiva del clan. Si devono anche ricordare, fuori dell’ambito ebraico precristiano, due rappresentazioni poetiche particolarmente toccanti. Ettore, il vero eroe dell’Iliade, prima della battaglia che lo vedrà soccombere nel confronto con Achille, saluta la moglie Andromaca, teneramente amata, e il figlio Astianatte, in cui vede la continuazione della sua virtù guerriera,  e rivolto a “Giove pietoso” prega: «Deh! Fate … che dica talun “Non fu si forte il padre”, da ritenere come una delle più profonde preghiere dell’umanità, espressione di una generosità paterna, che supera ogni rapporto sociale e riporta il primato di un istintivo ius sanguinis preminente sull’orgoglio del capo. Alla tenerezza di Omero fa riscontro, in un rapporto non più da padre a figlio, ma da figlio a padre, la sublime poesia di Virgilio, quando esalta la figura di Enea, che si carica sulle spalle il padre Anchise, per allontanarsi da Troia in fiamme;

b) la preghiera del “Padre nostro” come l’ha insegnata Gesù, nella versione dell’Evangelista Luca, ha contenuti risalenti all’epoca precristiana. Ci si chiede: pregava Maria madre di Gesù? La risposta non può che essere certamente positiva. E a chi si rivolgeva l’ “ancella del Signore” ? Ovviamente al suo Signore e, come tutte le madri, certamente insegnava a Gesù le sue preghiere ebraiche. Si può ipotizzare, con fondamento, che Gesù, insegnando ai discepoli la preghiera del “padre nostro” abbia mutuato alcune parti delle preghiere di Maria, contenute anche nel Qaddish sinagogale e nello Shemaneh Eshreh. Il che non deve stupire, perché Cristo stesso, come riporta l’Evangelista Matteo, 5,17, ha avvertito: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento». La preghiera del Padre Nostro può rientrare in questo disegno salvifico;

c) i punti precedenti stimolano anche la domanda: quando il Cristo insegna la preghiera del Padre Nostro, a quale pane si riferisce? Evidentemente al pane materiale, al “pa” della tradizione semitico-sanscrita, cioè al cibo per sfamare, a ciò che serve al sostentamento quotidiano, che ha come base alimentare il pane. Ma, solo questo? Non vi si può vedere un’anticipazione e un collegamento strettissimo con la istituzione dell’Eucarestia, in cui il Cristo dell’Ultima Cena si identifica e personifica? Ancora Luca, in 22,19, ricorda il gesto finale: “Poi preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi». Il “pa” degli antichi ha trovato la sua esaltazione e compimento nel miracolo eucaristico.

 


[[1]] Si veda: “ilDialogo” del 10 ottobre 2001- articolo: PA.