Non si è mai sentito che in una sala corse dell’ippica si scommetta sulle performance di un cavallo per quando, abbandonati gli ippodromi, diventerà uno stallone. Il bookmaker ci spiegherebbe che in quel luogo si prende in considerazione solo il tempo strettamente necessario per una sola corsa, meno di un overnight. Pare una spiegazione ragionevole, anche perché il mondo delle scommesse ippiche non è frequentato da veterinari o cavallari. La borsa americana e al suo seguito quelle del resto del mondo non sono niente di diverso e lo stesso mondo dei future è da interpretare di conseguenza. D’altra parte questo riferimento temporale al solo oggi fuggente è coerente con una società che, dopo aver abbreviato il tempo, lo ha anche vanificato nel suo profondo significato. La fedeltà a un prodotto si è molto attenuata, perché ogni acquisto è frutto di un’asta istantanea: si compra ciò che costa meno, forse anche perché essendo tutto di qualità standard, cioè eguale, non esiste più il senso del diverso. Persino il gusto, forse il più sofisticato e raffinato dei cinque sensi, è ridotto al minimo: un hot dog è uguale dal Minnesota alla Florida e il successo di Mac Donald’s, che dagli Stati Uniti sta colonizzando la Terra, si spiega con il fatto che un bigMac ha lo stesso sapore in ogni angolo del mondo. Tutto si riduce, alla fine, a ingurgitare un certo numero di calorie. L’avvenire del transgenico ci riserva anche questo. Ora noi speriamo, senza l’aiuto di Bertinotti, nemico dei Mac Donald’s per necessità politica e mancanza di argomenti migliori, che l’Europa si ricordi di avere un qualche migliaio d’anni di storia da difendere in più di quella del signor Giorgio Dollaro Washington. Ma è speranza vana, perché Bruxelles, in fatto di burocrazia è peggio di Roma e in fatto di imperialismo pretende di essere già una specie di caput mundi. È un mondo che realizza il programma di Henry Fodi, l’uomo che mise gli americani su quattro ruote: “scegliete un modello T del colore che più vi piace, purché sia nero”. La borsa dei titoli, tradizionali o telematici, azionari o obbligazionari, principali o derivati, non può che essere l’esasperazione di questa realtà socio-economica. Ne abbiamo avuto una prova il 27 ottobre, quando è venuta la notizia che l’economia USA sta rallentando, pare con soddisfazione di Greenspan, miope d’occhi, ma non di cervello, che da tempo sta cercando di pilotare il dollaro su un atterraggio morbido, temendo brusche e incontrollabili cadute, conseguenti a un flessione dei tassi di crescita, che sarebbero anche fisiologiche, perché non si può vivere costantemente sulla vetta di una montagna a meno di togliere il picco e ridurla a un altopiano, cosa che non sembra ancora riuscita a nessuno. Greenspan, diversamente dai suoi pretenziosi emuli italiani, che sono fermi alla navigazione a vista, è un economista serio e fermo, che, dovendo navigare in alto mare, non si sogna certo di ridurre la forza delle onde, ma si dota di strumenti adatti. Il suo cruccio principale, di cui peraltro parla poco, è l’enorme deficit della bilancia commerciale, cresciuto anche per effetto della forza del dollaro. Il risparmio americano è al minimo, sempre perché gli americani hanno ridotto il senso del tempo, ma non si preoccupano più di tanto, perché, finché il dollaro resta forte il mondo risparmia per gli Stati Uniti e se diventa debole il mondo si dovrà bere i prodotti americani. L’effetto finale non cambia: gli Stati Uniti vivono anche a spalle del mondo, il quale a sua volta vive a spalle degli Stati Uniti per altri servizi internazionali, pax americana compresa. Coerente con tutto questo, conosciuti i dati periodici del rallentamento, gli “analisti” americani hanno decretato che, rebus sic stantibus, il Greenspan non avrà più motivi per alzare i tassi di interesse e così hanno fatto schizzare verso l’alto il listino di Wall Street. A prima vista sembra un pensiero irrazionale perché il valore di un’azione dovrebbe essere attribuito più in funzione di quel che può rendere in futuro, soprattutto medio tempore e, infatti, qualche volta è vero: basta che una società del telematico chiuda un trimestre in utile notevole, ma preveda per il futuro un “minor tasso di crescita”, che subito è il tonfo clamoroso. Però, che un rallentamento dell’economia costituisca motivo di euforia borsistica sembra una follia. Sembra ma non lo è, se si considera che il tempo gli States non lo misurano più con il calendario ma con l’orologio, che di ore ne dà solo dodici. Dove sta l’errore? Sappiamo benissimo che la vita, a partire dal linguaggio, è fatta di simboli e di convenzioni e basta mettersi d’accordo prima sulle regole del gioco e tutto si spiega. L’errore lo fanno coloro che continuano a considerare la borsa un riferimento per l’attribuzione di valori economici, fino a dedurne criteri di valutazioni per stime e perizie aziendali. Si convincano di essere fuori strada e tutto va a posto. Il cavallo che corre è un animale diverso dallo stesso che aspetterà nel suo box la cavalla storna.