Divagare  su pensiero e azione

 Amo i sostantivi, che identificano oggetti e soggetti come fossero disegni inanimati su un foglio di carta, qualità e staticità cioè concetto, ma amo ancor più i verbi che esprimono movimento, dinamismo, azione, volontà e, quindi, divenire e ricerca della libertà.

Così, per esempio, invece di “pensiero di pensiero” scrivo “pensare di pensare”, espressione in cui mi trovo meglio.

Per spiegare a me stesso le differenze, le esamino separatamente.

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A) Pensiero di pensiero.

 L’espressione nasce con Aristotele in un quadro esclusivamente teologico.

Scrive il filosofo in “Metafisica”, 1074b 15 1075a 10:

 «… Se, dunque, l’Intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero… E così come l’intelligenza umana – l’intelligenza, almeno, che non pensa dei composti – si comporta in qualche momento (infatti, essa non ha il suo bene in questa o quella parte, ma ha il suo bene supremo in ciò che è un tutto indivisibile, il quale è qualcosa di diverso dalle parti): ebbene, in questo stesso modo si comporta anche l’Intelligenza divina, pensando sé medesima per tutta l’eternità».

 Per Aristotele Dio è la “causa prima” e, come tale, è pensiero di pensiero, cioè non può pensare che se stesso, in senso unico e attuale, infatti, se pensasse qualcosa di esterno a se stesso sarebbe incompleto e imperfetto, il che sarebbe contraddittorio e, quindi, impossibile. Il pensiero è di pensiero, se sussiste questa unicità e immediatezza, cioè contestualità, per cui il pensiero, non trovando riferimenti fuori di se stesso, si sviluppa unicamente in se stesso, ciò che descrive una possibilità esclusiva della divinità. Se fosse possibile applicare a Dio il linguaggio umano, si potrebbe sostenere che Dio è autocoscienza: Aristotele non lo dice, perché il suo linguaggio non consente il concetto, almeno in via diretta e immediata, ma il suo ragionamento lo contiene, pur se si deve sottolineare che Dio non ha bisogno di coscienza, che implica uno svolgimento di auto giudizio: l’immediatezza del pensiero divino non ha bisogno di transiti intermedi. Si può anche considerare, per inciso, che il Dio di Aristotele coincide con il nostro, il che spiega molti sviluppi del pensiero filosofico di Tommaso d’Aquino.

 Se facciamo un salto di oltre duemiladuecento anni, che non sono certo vuoti sul punto, ci ritroviamo con il filosofo Giovanni Gentile, che nella evoluzione del suo pensiero verso l’attualismo, individua, con il concetto di autoctisi, una immediatezza e contestualità tra pensiero e azione, che assorbe l’attività di “pensiero di pensiero”, solo che, invece di riferirla a Dio, verso il quale è tutt’altro che indifferente, la concentra sull’uomo per le premesse fondamentalmente idealistiche e spiritualistiche del suo pensiero. Si veda in proposito la pag. 8 dell’ultimo messaggio gentiliano in “Genesi e struttura della società”: «… In verità, ogni tentativo di assegnare un divario tra pensiero e azione s’ispira al desiderio di sottrarre il pensiero alla responsabilità dell’azione non si sa quale necessità che, gabellata per logica, si crede erroneamente suscettibile di libertà …». Che è come dire che, se non c’è divario tra pensiero e azione, l’immediatezza diviene immedesimazione e in ciò si risolve per compenetrazione e contestualità ogni tentativo di “pensiero di pensiero”, che non è negato, ma incluso. Diversamente da T.W. Adorno, in “Terminologia teologica”, vol. I, pag. 210, che collega il problema del “pensiero di pensiero” a una espressione linguistica, mentre per Gentile si tratta di un più profondo esito finale di un’attività spirituale. Scrive Adorno: «Se vi ricordate di quella determinazione della filosofia antichissima, che risale ad Aristotele, secondo cui essa è nohsiz  nohsevz pensiero di pensiero e quindi necessariamente autoriflessione del pensiero, o almeno contiene tale autoriflessione, in questo caso potete chiaramente capire come il linguaggio vi svolga  una funzione fondamentale».

  B) Pensare di pensare

 Il significato teologico di Aristotele, l’autoctisi di Gentile e l’afferenza linguistica di Adorno del “pensiero di pensiero”, cadono, se vi sostituiamo l’espressione di “pensare di pensare”, che nel suo naturale dinamismo implica un sequenza temporale del tipo “Io mi propongo, mi impongo, decido di pensare, che non ammette il contrario “decido di non pensare”, il che sarebbe una tautologia, perché “voler non pensare” è già un pensare. Comunque non è un gioco linguistico, perché, seppur spesso il pensare è attività ingovernabile e istintiva, la decisione di pensare o di ammettere il suo rifiuto, esige uno stacco temporale ancorché minimo e impercettibile, che, in un certo senso, è un divenire del pensare. Il pensare porta in sé, come corredo naturale, una volontà, che è cammino verso la libertà. L’espressione “pensiero di pensiero” non è un equivalente, perché – e qui ha ragione Aristotele – essendo uno status divino è fuori del tempo. Nemmeno c’è autoctisi in senso gentiliano, perché l’azione segue anche inavvertitamente, è conseguenza di una decisione temporalmente staccata.

 Un’ultima osservazione:

Michelangelo riuscì a riprodurre l’enigma ineffabile del pensare nella statua che rappresenta Lorenzo de’ Medici duca di Urbino nelle Cappelle Medicee di Firenze e che a me pare esprima la metafisica dell’uomo pensante.