CONFLITTO DI INTERESSI DELL’AMMINISTRATORE: conferma o revirement della giurisprudenza della Suprema Corte?

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PREMESSA Con la sentenza 4 aprile 1998, n. 3483, la Corte di cassazione ha risolto un caso di amministratori ritenuti in conflitto di interessi e ha confermato due principi, da cui il Massimario ha riassunto due massime. La fattispecie è la seguente: amministratori di una società proprietaria di azienda tipografica eseguivano un contratto di affitto di azienda con altra società, di cui pure erano amministratori, a condizioni economiche ritenute vantaggiose per l’affittuaria e dannose per l’affittante, poi dichiarata fallita. Uno degli amministratori ha, inoltre, accampato esenzioni di responsabilità per aver assunto funzioni solo formali nell’ambito di un consiglio, in cui operavano amministratori con deleghe di fatto. La Corte suprema ha dato due precise risposte: a) « …dal dettato e dalla ratio dell’art. 2391 cod. civ. emerge in modo univoco che ai fini della sussistenza della responsabilità degli amministratori per la loro partecipazione ad una delibera riguardante un’operazione in conflitto d’interessi con la società è sufficiente che l’operazione presenti un’utilità per la controparte nella quale costoro abbiano interesse, sicché risultano del tutto irrilevanti le ragioni e le scelte gestionali che abbiano indotto gli stessi amministratori a compierle. In altri termini , in presenza del conflitto di interessi la fonte della responsabilità è costituita dal compimento dell’azione in se e per se considerata dalla sua illegittimità conseguente all’essere stata consumata in violazione di precisi canoni di comportamento degli amministratori generali e specifici, e dalla dannosità della scelta gestionale, senza che nessun rilievo assuma il merito della scelta gestionale. » Si osserva innanzi tutto che: ai) dalla ratio dell’art. 2391 del cod.civ. non emerge affatto il principio che ne desume la Corte, se non altro perché la norma non dà alcuna definizione di “conflitto d’interessi”, concetto costruito, senza ancora aver raggiunto consolidata stabilità, da dottrina e giurisprudenza; aii) nella seconda parte, la Corte considera il danno per la società come elemento eziologico della responsabilità, non il vantaggio dell’altro. Il dualismo danno-vantaggio è ben chiarito in un passo precedente, in cui la Corte ha rilevato che: « dalle risultanze processuali si evinceva che la stessa [operazione] si era risolta in un pregiudizio per la società affittante, e con il connesso vantaggio della società affittuaria nella quale gli amministratori della prima avevano un interesse », ma è evidente che il vantaggio dell’affittuaria si poneva in rapporto di mera connessione, nel senso di atto economico a somma zero: il danno per uno corrisponde al vantaggio della controparte; ove il danno è la causa e il vantaggio è solo l’effetto. Non viceversa. Questa deve essere ritenuta una condizione essenziale. Infatti, i rapporti tra due società, in comunanza di amministratori, possono realizzare tre diversi obiettivi: – vantaggi per entrambe le società; – svantaggi per entrambe; – danno per una e vantaggio per l’altra. La fattispecie rientra in quest’ultimo caso, che, a mio avviso, è anche l’unico che integra il conflitto di interessi. Lo dice la parola stessa: conflitto significa contrasto, urto, combattimento, contrapposizione, non comunanza, sia essa positiva o negativa. b) la diligenza, vista come dovere dell’amministratore, è ragguagliata a quella del mandatario e compenetra il dovere di vigilanza sull’andamento generale della gestione e l’obbligo di non agire in contrasto di interessi della società. Precisa la Corte: « Detti obblighi, poi competono non solo all’organo collegiale, ma anche a ciascun componente del consiglio, la cui condotta perciò, ai fini della sussistenza della responsabilità per i relativi inadempimenti deve essere considerata solo singolarmente. Ne deriva, innanzi tutto, che non è concepito né la figura dell’amministratore c.d. formale, nel senso che non si occupa di fatto della gestione sociale o di tutti i suoi vari aspetti…; né, conseguentemente, l’esenzione della sua responsabilità per le violazioni commesse dagli altri amministratori. » Per la Corte l’attenuazione della responsabilità può aversi solo con l’attribuzione formale di competenze specifiche attraverso l’istituto della delega, in presenza di complessità di gestione. Quest’ultima affermazione non offre problemi di interpretazione, né di connessione tra sentenza e massima; perciò, in questa nota ci si occupa solo della prima, rilevando che la sentenza non è di quelle che possono risultare atipiche , ma ha il merito di stimolare riflessioni, che, per chiarezza espositiva, possono essere classificate in risposte a tre domande: 1. che cos’è una sentenza di legittimità? 2. quali possono essere i rapporti tra una sentenza di Cassazione e il pensiero giuridico della Corte? 3. quali dovrebbero essere i rapporti tra la sentenza e la massima? Per ogni domanda si proporranno risposte e la constatazione di adeguatezza a esse della sentenza n. 3483. 1. Che cos’è una sentenza di legittimità? Come ogni sentenza, di qualsiasi ordine e grado, anche quella di legittimità ha lo scopo di risolvere solo il caso sottoposto. Non è questione di grado, ma solo di oggetto. La struttura logica è quella del sillogismo apodittico : esiste una norma (caso astratto); esiste un fatto concreto, che ha generato la domanda di giustizia (fatto); esiste un operatore di giustizia (monocratico o collegiale), che ha il compito di verificare l’adeguatezza o l’adattabilità del secondo al primo, seguendo certe regole stabilite da un codice di rito; questi formula, infine, (P.Q.M.) la risposta . Il percorso fino al suo sbocco finale (la sentenza) potrebbe essere tacciato di semplicismo da parte di giudici, che hanno un concetto troppo elevato del proprio lavoro. È umano. L’autoreferenzialità, per chi è preposto a dare risposte ai crescenti bisogni collettivi di giustizia, può essere una condizione psicologica per assolvere il defatigante impegno quotidiano di soddisfare domande. Importante è conservare un certo senso di relativismo del proprio lavoro e non porsi lo scopo di “rivoltare la società come un calzino”, finalità in auge non solo in campo penale, ma applicata anche al diritto societario, estratto, in alcune sue parti, dall’ideologia dei sociologi del diritto dal suo ambito naturale del diritto privato e incluso nell’alveo pubblico per meglio strumentalizzarlo a fini più ampi di quelli posti dal legislatore . Basti pensare, per esempio, all’art. 2621 cod. civ. Si ha un bel ricordare che il giudice è soggetto solo alla legge, che la giurisprudenza è solo fonte indiretta del diritto e che della dottrina è persino vietato citare gli autori . Un tempo si insisteva sulla distinzione tra ordinamenti di civil law e tradizione germano-romanistica, per concludere poi che la giurisprudenza non era vincolante in nessuno dei due . Il problema non è nella sentenza, ma nell’ideologia di chi la stende, che può anche abilmente nascondersi o autogiustificarsi in nuovi schemi ermeneutici del tipo: interpretazione evolutiva , più arrogante di quella dogmatica, oppure ricorrendo a non dichiarate argomentazioni di tipo consequenzialista . Basti pensare, per rimanere nell’esempio, alla evoluzione dell’interpretazione dell’avverbio “fraudolentemente” dell’art. 2621, cod. civ. e parallelamente allo stesso avverbio nell’art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408 sull’elusione fiscale . La constatazione non è una critica al lodevole sforzo del giudice di risolvere casi attuali, dovendo applicare norme invecchiate, che altri poteri istituzionali hanno trascurato di adeguare a modificati bisogni della società. Contro il giusto pretesto di non cadere nel summus ius summa iniuria, talvolta applicato dal giudice per dare interpretazioni “di manica larga” in più settori del diritto, si osserva un crescente rigorismo giurisprudenziale in quello societario, secondo l’ideologia che alla svalutazione del crimine contro la persona faccia da contrasto la criminalizzazi
one dei comportamenti economici, quasi che il portafoglio sia diventato più importante della vita. Invece, bisognerebbe evitare di forzare arbitrariamente almeno i limiti posti dal canone di interpretazione grammaticale dell’art. 12 delle Preleggi. Quindi, ogni sentenza è risposta di un giudice a una specifica domanda, secondo schemi consolidati. Il resto è statistica. Questo vale anche per la sentenza di legittimità, la cui autorevolezza non deve dipendere dal grado, ma dai contenuti. In effetti ogni sentenza trascina due giudizi: quello emesso dal giudice sulla fattispecie e quello espresso dal mondo del diritto sul giudice sentenziante. Senza il primo, che deve avere svolgimenti di pensiero giuridico dinamico, non si ha amministrazione di giustizia, senza il secondo non si ha progresso del diritto. Entrambi, essendo giudizi di valore, devono rispondere a principi di scienza giuridica e di coscienza morale. Ma è senz’altro migliore l’affermazione di Tullio Ascarelli, secondo cui: « L’attività dell’interprete è più opera di saggezza, che opera di scienza; è alla saggezza, più che alla scienza, che noi dobbiamo riportare il diritto . Se questi principi sono ancora validi, dobbiamo chiederci come si pone la sentenza n. 3483. Bisogna subito distinguere tra lo svolgimento della sentenza nelle sue due parti: motivazione e decisione e la sua massima. Se si prescinde, per il momento dalla seconda, si può constatare che l’estensore non si è posto particolari finalità e nemmeno pare influenzato da preconcetti ideologici. Qui il giudice ha semplicemente svolto il suo dovere di soddisfare una domanda di giustizia, secondo uno schema tradizionale, cassando, con rinvio, il precedente giudizio della Corte di appello. Pare di capire che il giudice di legittimità sa che deve risolvere altre migliaia di casi e non può perdere tempo in ragionamenti troppo articolati o ricercatezze espositive e stilistiche; quindi affronta il caso in modo sbrigativo, forse proprio perché non intende modificare principi consolidati e non deve sforzarsi di dimostrare la validità di una novità che non intende proporre. Per paragone, si potrebbe constatare che è il contrario dello stile impiegato nella famosa sentenza della Corte di cassazione 25 ottobre 1989, n. 4373 . Però, rispetto a questa, persino abbondante per erudizione e pregevole per stile e chiarezza , la sentenza n. 3483 risulta poco chiara e lo dimostra il fatto che il massimante è stato tratto in inganno, come si vedrà. Nella sentenza, richiamato l’art. 2391 cod. civ., dopo l’affermazione: «… è sufficiente che l’operazione presenti un’utilità per la controparte… », si legge una seconda proposizione, che apre con la locuzione “In altri termini”, con evidente valore di “cioè”. Si osserva che in una sentenza non si dovrebbero mai trovare congiunzioni come “cioè”, “ossia”, “vale a dire”, “in altri termini”, ecc. Innanzi tutto, perché, se si è chiari una volta (prima proposizione), non c’è bisogno di esserlo due volte (seconda proposizione in funzione di spiegazione della prima). Un proverbio inglese sentenzia che da un uomo che impiega cinque parole per dire ciò che può essere espresso con quattro, ci si deve aspettare di tutto . Inoltre, perché anche i buoni grammatici italiani hanno sempre sconsigliato, fino al Sessantotto, i pleonasmi. Poi, dilagò la moda « dell’ansia di spiegare e di spiegarsi che è sinonimo di disponibilità al dialogo » e a forza di dialogare ci si capisce sempre meno. Infatti, la congiunzione criticata, rispetto all’originario latino id est, meramente esplicativo, ha dovuto assumere anche il diverso significato correttivo o integrativo di quello espresso nella proposizione precedente. Allora, perché scrivere una frase e di seguito sentire la necessità di integrarla? Non si può scrivere tutto correttamente una sola volta? Ma, se la scelta di chi scrive è dire e correggere, la scelta di chi legge è obbligata: vale la seconda delle due proposizioni; quella che, integrando, stabilizza. Questo è il caso della sentenza n. 3483, perché nella prima frase si legge che « è sufficiente che l’operazione presenti un’utilità per la controparte », mentre in quella che segue a “in altri termini” è previsto, come prima condizione, il danno per la società, che ha deliberato l’operazione. È questo il principio giurisprudenziale che vale nella sentenza e che consolida i precedenti. Inoltre, si deve anche osservare che il P.M. è stato di parere parzialmente difforme, ancorché non risulti su quale punto della sentenza. La domanda posta come titolo di questo paragrafo potrebbe essere sostituita dall’altra: come dovrebbe essere una sentenza di legittimità? La risposta più convincente l’ha data il Primo Presidente Ferdinando Zucconi Galli Fonseca nella sua “Introduzione” all’assemblea generale della Corte di cassazione del 23 aprile 1999 , che meriterebbe una lettura non solo degli addetti, ma di ogni cittadino non avulso dalla polis, in cui pretende di vivere con comodità. Il Presidente, senza nulla nascondere e con espressioni chiare e immediate, fa una diagnosi dello stato della Suprema Corte e indica concrete terapie, dando anche una lezione di stile, che potrebbe essere un modello per una apprezzabile sentenza. In effetti, quell’ “Introduzione” è una sentenza “sulla” Suprema Corte. 2. Quali possono essere i rapporti tra una sentenza di Cassazione e il pensiero giuridico della corte? La giurisprudenza, per la sua stessa natura era tenuta, almeno fino a qualche tempo fa, in grande considerazione come produttrice di analisi e principi giuridici. Se vogliamo riferirci alle due scuole di interpretazione più seguite, si può ritenere, non senza semplicismo e approssimazione, che il giudice di merito è più orientato all’ermeneutica, mentre quello di legittimità al dogmatismo. Il passare del tempo e l’accumulo di pronunzie su una casistica vastissima ha consentito la sedimentazione, presso la Corte, di un enorme giacimento, scavando nel quale, si può dire che si trova tutto. In questo quadro la singola sentenza può porsi nei confronti dell’esperienza precedente come: a) inizio su un primo caso; sempre meno frequente, proprio per l’esistenza del cumulo ormai enorme; b) innovazione rispetto a principi consolidati in precedenti sentenze; c) conferma e adeguamento a principi sedimentati: la grande maggioranza delle sentenze. Negli ultimi tempi è diventata frequente l’innovazione, soprattutto nel diritto penale e in quello societario, non senza qualche ricerca dell’eclatante e del rivoluzionario, con il supporto della grande stampa, pronta a fare da cassa di risonanza, spesso distorta per malizia ideologica o per incapacità di cogliere i contenuti giuridici. Abbiamo letto un po’ di tutto, con sconfinamento dalla legittimità al merito . Si potrebbe dire, seppur con qualche esagerazione, che parte della giurisprudenza è straripata dalle riviste specializzate alla grossolanità della stampa quotidiana, la cui utilità potrebbe essere almeno quella di far conoscere ai parlamentari, i cosiddetti membri dell’organo legislativo, spesso ignari delle evoluzioni della società reale, ciò che sta accadendo nel terzo potere dello stato (terzo solo per seguire la sequenza della carta costituzionale, non certo per importanza in relazione al potere). Dalla necessità di aggiornamento si è passati all’ideologia del rinnovamento, spesso nascosta dietro argomentazioni “consequenzialiste”, peraltro non dichiarate . Ma è molto pericoloso rinnovare la società a suon di processi o di sentenze. Dobbiamo chiederci come si pone la sentenza n. 3483 in rapporto alla tradizione della Corte. Se si prescinde, per il momento, dalla massima, si può constatare che l’estensore non si è discostato dalla tradizione. Una sentenza di tipo c), secondo la triade sopra esposta. Non si notano modificazioni di principi consolidati. È pacifico e condivisibile, anche per solo buon senso, che l’amministratore versa nella situazione conflittuale dell’art. 2391 cod. civ., allorché pone in atto comportame
nti che generano un danno alla società amministrata, allo scopo di recare un vantaggio a sé o ad altri. I principi sono sostanzialmente due: · non deve trattarsi del compimento di un atto di gestione, che possa volgersi con esito non positivo a posteriori, perché ogni processo produttivo reca in sé una carica di incertezza e ris hio, che sono il cuore dell’atto economico. L’atto deve essere, ovviamente, al di fuori della mera sorte o manifestamente imprudente (art. 217, n. 2, L.F.), sanzionato dall’art. 224 L.F. Deve rispondere alle caratteristiche di una scelta realizzata con la diligenza del “buon padre di famiglia” (se non fosse pericoloso creare nuove categorie, sarebbe più opportuno dire del “buon mandatario”), che, nonostante la sistematica demolizione del concetto di famiglia, continua a essere il parametro di riferimento, purtroppo più come richiamo di una formula liturgica, che come creduto principio di diritto. Con queste premesse di etica comportamentale, l’amministratore non deve avere come obiettivo un vantaggio per sé o altri a fronte di un danno per la società. Le due posizioni debbono coesistere in posizione dialettica, anzi conflittuale. Un matematico direbbe che l’esistenza di un danno per la società è condizione necessaria, ma non sufficiente; lo diventa se esiste anche il vantaggio di altri; · deve trattarsi di un danno concreto, non potenziale. Non basta l’intenzionalità, occorre la realizzazione di fatto. Il caso previsto dall’art. 2391 cod. civ. non appartiene alla categoria dei comportamenti di pericolo. Questi principi sono chiaramente esposti in più sentenze e riassunti con chiarezza nella sentenza della Corte di cassazione 22 dicembre 1993, n. 12700 . La sentenza n. 3483 non ha stabilito niente di nuovo e conferma principi consolidati, come opportunamente rileva l’autrice del commento richiamato in nota 2. 3. Quali dovrebbero essere i rapporti tra la sentenza e la massima? Opera, presso la Corte di cassazione, l’ufficio del “Massimario”, con compito oscuro e difficile, come impone la funzione di sintesi. Sarebbe assurdo negare oggi il valore che per il giurista ha la raccolta delle massime, tanto più che gli strumenti informatici rendono possibili immediati collegamenti con la fonte . Ma non si debbono nemmeno trascurare i rischi di “formalismo” già denunciati da Salvatore Satta . Il formalismo può ridurre fino ad annullare il rapporto tra fatto e diritto, sul quale il giudice ha fondato il suo libero apprezzamento e che è la ragione fondamentale della conclusione della sentenza. L’ordinamento italiano ha rifiutato, nel processo, il concetto del “buon giudice”, quello che è talmente affidabile da non aver bisogno di motivare le proprie sentenze. Non è questione di sfiducia, ma è diritto di conoscenza del soccombente leggere le ragioni, che hanno portato il giudice a esprimere la conclusione del giudizio. Il “buon giudice” (il Salomone biblico, il Sancho Panza di Cervantes, l’Azdak brechtiano) meglio lasciarlo al mito o alla letteratura. La civiltà del diritto esige che l’atto di giustizia sia ricerca di verità, che non può non tradursi in atto di conoscenza. La formula P.Q.M., che conclude ogni processo, ha questo scopo e per logica viene dopo la enunciazione dei motivi . Ma i motivi sono soprattutto i fatti, che non si prestano facilmente alla generalizzazione e comunque non possono essere assorbiti e annullati nel diritto. È la natura stessa della massima che impedisce la vera conoscenza del complesso fenomeno giuridico, che caratterizza ogni processo. Meritano di essere ricordate le affermazioni di Colesanti : « … si arriva a coniare false massime, generatrici di falsa esperienza, ed alle quali è pure attribuita in concreto efficacia regolatrice, non fosse altro che per i termini generali onde esse sono redatte. Talché, forse, in una superficiale considerazione del fatto e dell’influenza esercitata dalle sue particolarità sulla singola decisione si può individuare una ragione del sorgere e del prosperare del “sottobosco delle pseudo-massime”, che ostacolano la ricerca della soluzione più giusta, degradando la stessa funzione dell’interpretazione del diritto. » Quid iuris se la massima non riassume correttamente la sentenza? Conta solo la sentenza . Ma tutto questo in astratto, nel senso che, se esiste divergenza, il principio della prevalenza della sentenza sulla massima toglie ogni responsabilità al massimante. In concreto le cose vanno diversamente, perché in un’epoca come la nostra dove tutto è dilagante ed esagerato, manca il tempo materiale di approfondimenti adeguati. Siamo costretti a vivere di compendi, bigini e sommari. In diritto, di massime. Se la massima è sbagliata o ambigua, in concreto i suoi danni li fa. Proprio il timore che anche la massima della sentenza n. 3483 rientri nei casi di errore o ambiguità, ha suggerito questo commento. È giusto ricordare il pericolo di estrarre una parte dal tutto, tanto più che nella fattispecie si potrebbe dire che la massima si legge tutta d’un fiato. Ma non deve sfuggire questa affermazione, non corretta né attenuata dal resto del discorso: « è sufficiente che tale operazione presenti una utilità per la controparte ». Invece, non è affatto sufficiente, perché non c’è conflitto di interessi quando l’atto economico rechi un’utilità per altri, ma anche per la società. Seguendo la massima, si renderebbe inaccettabile tutta la giurisprudenza sulle operazioni infragruppo, soprattutto in assenza di una legge organica sui gruppi, ma diventerebbero illegittime, soprattutto nelle società a ristretta base ove il socio è anche amministratore, anche tutte le operazioni di finanziamento a condizioni più favorevoli dei tassi praticati dalle aziende di credito. Si ponga il caso frequente di un socio-amministratore che, nel rispetto delle condizioni previste dall’art. 11, comma 3, D.Lgs. 1.9.1993, n. 385, faccia un prestito alla società al tasso del cinque per cento, quando il sistema bancario applica un prime rate del sei per cento e un tasso passivo sui depositi del tre per cento. È evidente che l’amministratore ha un vantaggio, ma non minor vantaggio trae la società. Secondo la massima della sentenza n. 3483 l’operazione integra un caso di conflitto di interessi, perché esiste un’utilità per la controparte, ma, secondo la consolidata giurisprudenza, l’atto sarebbe legittimo. Allora, stando al contenuto, la sentenza si pone nel filone giurisprudenziale consolidato (categoria c), stando alla massima nel filone di quelle che innovano (categoria b). A meno che l’estensore della massima non abbia dato per sottintesa la coesistenza del danno della società in contrapposizione del vantaggio altrui. Se tale fosse l’intenzione, a parte la considerazione che i sottintesi dovrebbero essere evitati nelle massime, le espressioni letterali del massimante della sentenza n. 3483 avrebbero dovuto essere diverse. È pur vero che secondo Betti anche le sentenze vanno interpretate. Ma, se la fretta, che è un po’ la condanna della nostra epoca, ci costringere a vivere di sintesi, almeno queste siano chiare e precise nella enunciazione di principi. Chi ne fa uso sarà libero di adeguarsi o no, visto che la giurisprudenza è solo fonte indiretta del diritto (art. 1 Preleggi) , ma potrà scegliere con consapevolezza che si tratta di canone giuridico. Canone, se l’etimologia ha ancora un senso, ci riporta al greco kanon, che vuol dire “bastone diritto”, “regola”. A giustificazione dell’estensore della massima sta però la non felice formulazione della sentenza e in particolare la locuzione “in altri termini”, che, nella fattispecie è, invece, con significato di “in termini diversi”. L’estensore della massima si è fidato del valore esplicativo assunto in genere dalla congiunzione e si è limitato alla prima affermazione. I critici della validità delle massime trovano qui un argomento a loro favore e il consiglio di leggere le sentenze, non le massime, è sempre valido, nonostante la tirannia del tempo.