La manovra da 47 miliardi di euro è passata in Parlamento in poche ore. Come nelle fiabe: tutti felici e contenti: il ministro dell’economia, che ne è padre senza bisogno di Dna e addirittura pretende ringraziamenti per aver risparmiato agli abbienti una infame imposta patrimoniale; il padrone di tutti i Colli riuniti di Roma autopromosso a premier di fatto; l’opposizione, che potrà riversare sull’ectoplasma premier di forma diventato postremo la responsabilità della torta in faccia agli italiani e ai suoi elettori; la casta rimasta intoccata anzi attaccata al Pil, mentre giustizia avrebbe imposto: “attaccati al tram”; la Ue (cancelliera berlinese color patata in testa); il FMI e altri enti abbonati al “pasto gratis”. In mezzo a tanto gaudio ci sono voci dissonanti: quelle dei toccati nel portafogli e dei pochi che avvertono una lesione letale della democrazia e, prima ancora, del buon senso e della lealtà. Occupiamoci di questi ultimi, che sono i pochi che hanno capito e scegliamo tra le tante brutture quella dell’art. 7 del D.L. 15 maggio 2011, n. 70 (“manovra” in collegamento con il D.L. 6 luglio 2011, n. 98, incostituzionale per mancanza di ogni urgenza), esteso in paginate più lunghe delle lenzuolate di bersaniana memoria. Sulle due norme, da considerare insieme, si possono fare almeno queste osservazioni:

  1. La rapidità della conversione di un accertamento, ancorché infondato ma stabilito secondo la legge dello sceriffo di Nottingham, in credito erariale riscuotibile, svuota in pratica la difesa del contribuente e vanifica la funzione dei patrocinatori tributari e delle Commissioni giudicatrici, perché l’avvio del contenzioso seguirà in molti casi la riscossione già avvenuta e allora è lecita la previsione pessimistica che il contribuente farà a tempo a defungere prima di ottenere il rimborso, parola che l’Agenzia delle Entrate avversa con particolare odio. Sul punto il legislatore della manovra è persino ipocrita, là dove prevede che l’istituto della sospensione è tolto alle Commissioni e riservato all’Agenzia delle entrate, che ormai ha ricevuto l’investitura di tribunale dell’Inquisizione e anche di boia. Che cosa rimane della divisione dei poteri, della equilibratura e della dialettica tra amministrazioni, che deve permeare ogni aspetto della vita sociale e del comportamento della burocrazia? Nulla! Che cosa è rimasto del tanto strombazzato statuto del contribuente, se viene costantemente violato dallo stato? Meno di nulla! A che cosa ha portato la reductio ad unum del ministero della spesa (Tesoro) e di quello dell’entrata (Finanze)? Alla beffa di creare un superministero, che è un centro di potere immenso e incontrollabile, mentre il premier sta a guardare, perché pur assumendo taluni atteggiamenti esteriori e patetici non può esibire nemmeno il “mascellone” che non ha. Quel mentecatto fanatico che il 14 dicembre 2009 gli scagliò sul muso il simulacro del Duomo di Milano, sbagliò decisamente statuetta: se proprio voleva fare l’attentatore doveva impiegare il mezzobusto del figlio del fabbro: almeno quello aveva la mascella e qualche ammennicolo in più;
  2. Uno dei pilastri fiscali della democrazia statunitense è il principio del no taxation without representation. Violare quel principio significa. per tutti, americani o europei,  negare la democrazia e non c’è esigenza nemmeno straordinaria che tenga. Invece, in questa Italietta, le imposte occulte dilagano, perché è innegabile che ogni norma che comporta una vessazione tributaria, anche senza toccare le aliquote, è violazione del principio citato. A meno che il concetto di democrazia sia in Italia del tutto diverso da quello vigente in altri stati e filtrato da secoli di esperienza politica a partire dal vecchio Pericle.
  3. La Corte costituzionale, con più sentenze del 1961 e 1962, decretò la morte del solve et repete, ma fu un funerale senza defunto, perché qual araba fenice, l’incostituzionale principio non è mai morto e l’Amministrazione finanziaria ha continuato a farne uso surrettizio. Tant’è che all’art. 7, lett. m,  della manovra si legge l’ipocrita motivazione: «attenuazione del principio del “solve et repete”…», come a dire che il padre della manovra riconosce formalmente che di solve et repete si è continuato a farne uso in passato e ancor più con l’articolo citato, anzi con soppressione del repete, visto che dopo aver pagato l’ingiusto non si ottiene mai il rimborso. C’è da rimanere stupefatti, perché significa che il superministro inventore della finanza creativa, che si spaccia per economista mentre è un avvocato tributarista, che in tale veste ha fatto una barca di soldi (meritati, beninteso), o ha recepito  acriticamente quel che gli ha scritto l’Agenzia delle Entrate dimenticando la sua stessa professione oppure è direttamente farina del suo sacco e allora…! Sul punto, che è cruciale, si può osservare che, dopo l’espulsione dei professionisti (quelli che di tasse se ne intendono) dalle Commissioni tributarie, per essere rimpiazzati da magistrati di tribunali militari e casalinghe laureate in giurisprudenza e addirittura avvocati dello Stato (cioè direttamente dalla parte che pretende di fare man bassa nelle tasche dei contribuenti), a queste nuove commissioni saranno devolute le richieste di sospensione della riscossione per accertamenti resi esecutivi ex lege. Ma davvero possiamo credere che il creditore (autopresunto) ascolterà le ragioni del debitore dichiarato tale ope creditoris? Che cosa ha “attenuato” il superministro? Non certo la pazienza di chi, pur disposto a sopportare con malavoglia una manovra incomprensibile in alcune parti, non accetta comunque la “presa per i fondelli”.

La manovra attuale, attesa perché in Italia da anni c’è una ogni stagione, è di apparenti 47 miliardi di Euro. Perché non 50? Vogliamo giocare ai saldi di stagione tipo 999 invece di 1.000? Vedi, caro contribuente, come io stato sono buono? È un film fantozziano!

Ma, alla fine, il conto lo presenta il contribuente cioè l’elettore. La middle class, che un tempo chiamavamo borghesia, ha capito che se riceve pedate da un polo politico, che si autodefinisce di centrodestra, tanto vale ricevere legnate da un polo opposto. Ho sentito in questi giorni voci di disprezzo da parte di giovani già simpatizzanti del premier. Tradimento? No: cocente delusione.

Egregio signor postremo, ridotto in un angolo come un pugile che ha tirato per dodici riprese pugni all’aria ricevendo cazzotti nello stomaco, si metta il cuore in pace: non solo ha perso le due recenti tornate elettorali, ma ha già perso anche le prossime politiche, nonostante il velleitarismo del “predellino”, che è una barzelletta rispetto al discorso del “bagnasciuga” del 1943. Le ricordiamo la Favola di Fedro “Il calcio dell’asino” (“chi perde il suo potere anche il più vile si prende gioco della sua rovina“) e Le auguriamo di essersi fatto rilasciare una qualche cambiale in bianco dalle ragazzuole che beneficò in euro-cene in una delle tante magioni domestiche e internazionali, anche se sarà difficile trovare uno straccio di banca disposta a scontarle. Se così sarà, le resta la via delle Antille con biglietto di sola andata, perché la middle class è sì stupida, ma ha la memoria lunga.