Chi non condivide la “dottrina sociale” della Chiesa non può tuttavia negare che Papa Woityla ha sottolineato una definizione del lavoro, che solo un lazzarone incallito può rifiutare. Il Papa non ha certo dimenticato l’ordine di San Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi (3,10): “Chi non vuol lavorare, neppure mangi”, così perentorio da poter essere letto come “chi non lavora, non ha diritto di mangiare”. Invece, tanti cattocomunisti che hanno sostenuto con il loro voto e con l’attivismo sindacale un welfare che ci ha portato alla rovina e che continua ad alimentare lo stato dei sussidi, devono aver fatto dell’opera epistolare dell’Apostolo di Tarso una specie di testo informatico: marcare ciò che interessa e quello è ciò che conta. Gli iperconciliari vaticanensi 2, se avessero potuto, avrebbero fatto dei testi evangelici tante canzonette per chitarre. Per nostra fortuna non l’hanno spuntata, ma sono comunque riusciti a escludere quel passo dalle letture domenicali. Il Papa ha detto che il lavoro è costitutivo dell’uomo. Parole sante, anzi sacre, per chi, a prescindere dalle proprie credenze religiose o agnostiche, vive il lavoro come espressione dello spirito umano, anche quando si tratta di attività muscolare. Il Papa polacco, che del lavoro ha fatto esperienza sul campo, ci ha liberato dalla interpretazione biblico-ebraica della Genesi (3,17): “ Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai cibo.” Ancora oggi gli spagnoli dicono trabajar e i francesi travailler per “lavorare” ove è presente la radice di “travaglio” dal latino “tripalium” strumento di tortura a tre pali. L’italiano, anche in questa occasione, è meno tragico, perché “lavoro” viene da “labor”, che ha sì significato di penosità, ma non di tortura. Si pensi all’impiego che ne fa Orazio nel “brevis esse laboro, obscurus fio” (mi sforzo di essere breve, ma divento oscuro). Il poeta latino già intende il labor anche in senso intellettuale e dà al termine un valore costruttivo, di impegno intellettuale. Il labor è già opera dello spirito. Papa Woityla non ha inventato nulla di nuovo, ma la sua auctoritas ci ha restituito un significato di “lavoro” come opera, come tensione verso un risultato, di cui il faber può anche compiacersi, perché lo sforzo può redimere, se di esso non si fa l’unico scopo della vita. Tutto al negativo è invece il giudizio di Nietzsche, secondo il quale: “ Dobbiamo lavorare se non per gusto, almeno per disperazione, poiché, tutto sommato, lavorare è meno noioso che divertirsi ” (“La volontà di potenza”, n. 194). Gli economisti, che per necessità di disciplina debbono restringere il loro interesse all’aspetto materiale del lavoro, non come bisogno dello spirito ma come strumento per procurare i mezzi adatti al soddisfacimento di bisogni, convengono che il lavoro non è una merce come le altre. Il socialista Robert Solow, nella Prefazione al suo saggio “Il mercato del lavoro come istituzione sociale”, scrive: “ La mia tesi principale è che il mercato del lavoro, più degli altri mercati, deve essere considerato una vera e propria istituzione sociale….Le forze dell’offerta e della domanda agiscono nel mercato del lavoro così come agiscono in altri contesti. Ma i vincoli avvertiti da coloro che operano nel mercato del lavoro, così come i loro obiettivi, non sono gli stessi che si osservano nei casi in cui oggetto delle contrattazioni di acquisto e vendita sia una qualsiasi altra merce.” Più sensibile agli aspetti etici il liberista Sergio Ricossa, che in “Dizionario di economia” scrive: “… salta agli occhi che il mercato del lavoro non è un mercato come tutti gli altri. In esso non si tratta una merce qualsiasi, bensì l’uomo, il suo sforzo, il suo tempo, con la sua sensibilità, la sua individualità.” Gli fa eco il filosofo Vittorio Mathieu, che prosegue la grande tradizione torinese di pensiero speculativo, accademico e no, dei Gioele Solari, dei Luigi Einaudi, dei Piero Gobetti, il quale, alla domanda fino a che punto il lavoro può essere monetizzabile conclude che non può esserlo del tutto “proprio perché il lavoro appaga anche il senso di realizzazione e non sarà mai una merce. E proprio dalla percezione della realizzazione passa la vera liberazione dal lavoro che è poi la possibilità di difendere allo stremo al propria libertà nel lavoro”. Sono state ricordate tre categorie: il teologo, il filosofo e l’economista. Chi potrebbe assumere nella propria funzione (si vorrebbe dire: nella prassi), la sintesi di queste diverse posizioni? Solo il sindacalista, che abbia il coraggio di andare oltre la retorica delle bandiere rosse garrule allo zefiro del primo maggio o all’iconografia scontata del quadro di Pelizza da Volpedo e di non limitarsi alle battaglie per i soli aspetti normativi ed economici dei contratti collettivi o all’organizzazione di scioperi, adunate, barricate, per difendere il posto di lavoro a vita di chi già l’ha ottenuto. Questa limitazione ha segnato anche la caduta del sindacato, che sta in piedi ancora solo perché, contiguo al potere, lo condiziona e ne è condizionato. Dello scopo di miglioramento della società non se ne parla nemmeno. Si può essere d’accordo che il sindacato debba applicare l’adagio latino primum vivere deinde filosofari, ma non si può dimenticare che un po’ di filosofari fa parte del vivere. Nelle parole di Papa Woityla c’è una visione da umanesimo del lavoro e non stiamo a sofisticare se è umanesimo cattolico alla Maritain o se può assumere in sé anche un umanesimo meno trascendente. L’umanesimo è in ogni caso un riscatto dalla maledizione biblica, poiché anche il Figlio del falegname ha lavorato prima del suo triennale divino filosofari, e anche durante, se filosofare è opera dello spirito e quindi è lavoro. Un filosofo ha riconosciuto che “Nessun dubbio che i moti sociali e i paralleli moti socialistici del secolo XIX abbiano creato questo nuovo umanesimo la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l’opera e il compito del nostro secolo [il XX]. In cui lo Stato non può essere lo Stato del cittadino (o dell’uomo e del cittadino) come quello della rivoluzione francese; ma dev’essere, ed è, quello del lavoratore, quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo. Perché il cittadino non è l’astratto uomo; né l’uomo della “classe dirigente” – perché più colta o più ricca, né l’uomo che sapendo leggere e scrivere ha in mano lo strumento di una illimitata comunicazione spirituale con tutti gli altri uomini. L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro; e secondo il suo lavoro qualitativamente e quantitativamente differenziato l’uomo vale quel che vale. ” Posso garantire che non sono parole di Cofferati o di D’Antoni, men che meno quelle di un capoCobas. Delle due l’una: o non ne sono capaci e allora dovrebbero riconoscere la inettitudine del sindacato, che in loro si identifica, a interpretare veramente lo spirito del lavoro, oppure non lo ritengono parte del loro compito e allora dovrebbero ammettere che una funzione meramente contrattualistica potrebbe essere svolta molto meglio da un qualsiasi avvocato. Le parole del filosofo, scritte nella prima metà del secolo, trovano un’eco nella lettera enciclica Laborem exercens di Papa Woityla, che nel 1981 scrive: “ Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva. In tale concezione sparisce quasi il fondamento stesso dell’antica differenziazione degli uomini in ceti, a seconda del genere di lavoro da essi eseguito ”. I nostri grandi padri costituenti, osannati per anni come fondatori di una specie di Magna Charta, hanno enfaticamente dichiarato che “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. In quella definizione non è presente, nemm
eno per implicito, l’uomo. La conclusione è che manca il soggetto principale e quindi resta una definizione irreale e metafisica o addirittura volgare. Se venisse scritta oggi, guardando alla vita sociale con occhio spassionato, potremmo forse scrivere che è “fondata sull’enalotto” o “sul calcio”. Sarebbe offensivo? No! È offensivo che non si sia affermato che l’Italia è fondata sugli italiani. Ma forse è solo preveggenza: tra qualche anno gli italiani saranno una razza estinta. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano “ItaliaOggi” del 26 aprile 2001.