Una conquista della teologia cattolica recente è il recupero della pietas in relazione al piano di salvezza di Dio.

L’uomo, se è intimamente religioso, ancorché si dichiari non credente o credente di altra fede, se cioè agisce secondo dirittura morale, può considerarsi “naturalmente cristiano”, secondo una definizione che è stata riferita anche a Benedetto Croce.

La constatazione ha un collegamento almeno indiretto con la definizione di solidarietà, perché pone il problema della coesistenza della “solidarietà” con l’ateismo e che si riassume nella domanda: può un ateo vero, che poi è necessariamente un materialista, nutrire sinceri sentimenti di solidarietà con concrete manifestazioni? Domanda che poi ne sottintende un’altra: può una persona, che non crede nello spirito (chi ammette l’esistenza dello spirito è già nella pietas) e considera l’uomo solo un ammasso di cellule e di reazioni chimiche, nutrire sentimenti di solidarietà e nella solidarietà operare? Dostoevskji fa rispondere da Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste tutto è possibile” (anche tradotto con “Se Dio non esiste, l’uomo è Dio e tutto è permesso”), che, applicato al caso, significa che è possibile l’inesistenza di qualsiasi solidarietà. Lasciamo in sospeso la domanda e facciamo parlare la solidarietà.

Secondo la nota definizione di Gadamer, la “solidarietà è agire nella prassi”. Ma questa potrebbe risultare, a un’analisi stringente, una tautologia. Eppure Gadamer apre, forse inconsapevolmente, un problema filologico, perché “prassi” è un termine che rinvia al diritto, almeno secondo la tesi che ogni prassi finisce per diventare norma. Ma anche solidarietà rinvia al diritto, che è termine ontologicamente superiore all’umano. Quindi “prassi” e “solidarietà” sono termini che si rimbalzano l’un l’altro.

“Solidarietà” viene dal diritto romano e implica che più obbligati per lo stesso debito ne rispondano per intero l’uno per l’altro.

Ma il diritto, lo ius, è di derivazione divina e con questo non si vuol affatto sostenere che ogni bazzecola giuridica sia da riferire a un dio, ma pare evidente che l’essere solidali implica un comportamento, un’attenzione, un chinarsi sull’altro, che si esprime se il solidus (anche l’aggettivo solido richiama il concetto di elementi che stanno insieme in un corpo unico) ha una derivazione superiore. I concetti cristiani di amore e di prossimo sono difficilmente accettabili senza il transito per la divinità, anche se la sua costruzione fosse meramente antropologica.

Sembra quindi che una solidarietà non possa trovare, se non in spiriti eccezionali, una esistenza plausibile, se basata solo sull’ateismo e sul materialismo. Un ateo buono è un cristiano inconsapevole. Persino la rivoluzione francese, madre di tutte le rivoluzioni successive, coesa solo nel sangue della ghigliottina, non riuscì a esprimere sensi di solidarietà senza passare almeno in un sentimento di annacquato teismo di derivazione volterriana.

Se è così, quale solidarietà è pensabile in un mondo secolarizzato, quale l’attuale, in cui Dio è diventato una parola vuota con riferimenti solo consolatori?

In margine a queste riflessioni non si potrebbe dimenticare il Leopardi della Ginestra. Ma è solidarietà quella? Con la poesia si possono costruire solo buoni sentimenti, ma, come ci ha avvertito Gadamer, la solidarietà si realizza nella prassi, cioè nell’azione. Però, resta la domanda: quale forza spinge l’azione? Atei e credenti sono uniti (solidi) nel tentativo di darsi una risposta. Fortunatamente per i beneficiati, la solidarietà è un effetto e non ha bisogno di cercare cause e non presuppone domande. Al samaritano della parabola evangelica nessuno chiese se era credente o no e nemmeno lui se lo chiese: gli bastò la bontà del suo animo.

Pietro Bonazza