Il n. 2/2004 della rivista Humanitas pubblica – ed è gran merito – un incontro (è definito “dialogo”) avvenuto il 19 gennaio tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger a Monaco di Baviera, organizzato dalla Katholische Akademie sul tema “I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale”. In realtà non si tratta di un “dialogo” diretto, ma di due relazioni, che, per i rilevanti punti di convergenza, diventano un “dialogo indiretto”, non un dibattito, perché la diagnosi dei due pensatori tedeschi non presenta posizioni divergenti; semmai consente di analizzare il diverso grado di preoccupazione nelle conclusioni sullo stato del “mondo”, che non porta certo a valutazioni positive.

Non intendo fare recensioni o commenti, ma posso consigliare la lettura delle due relazioni a chiunque senta il bisogno di capire il mondo attuale, perché, superate le prime difficoltà, le riflessioni suggerite sono di grande importanza anche per chi non si occupa di filosofia. Né intendo evidenziare le considerazioni personali stimolate dalla lettura, proprio per il timore di attenuare, in qualche misura, la curiosità degli amici, che vorranno attingere ai due testi tradotti dalla citata rivista e constatare come, in relazione ai fondamenti dello Stato liberale-occidentale, Habermas tratta il problema dei rapporti tra ragione e mondo religioso e Ratzingher il rapporto tra potere e diritto. Però, espongo due annotazioni a margine del tema.

1. I titoli dei convegni, come quelli dei giornali, non sempre riescono a sintetizzare i contenuti. Nella fattispecie, avrei preferito il titolo in forma di domanda non retorica del tipo: “Sono esistiti o esistono ancora fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale?”. Così il dubbio sarebbe già posto prima ancora di avviare una qualsiasi analisi!

2. Habermas e Ratzingher, sono entrambi personaggi privi di potere politico, il primo, perché è un filosofo puro, il secondo perché è una Eminenza di azione non politica, ed entrambi possono spendere solo la forza e l’auctoritas del loro pensiero. Poiché Stato liberale, inteso in senso non partitico o ideologico, ha un’estensione in gran parte equivalente a Stato democratico e per autoreferenza il mondo occidentale si ritiene democratico, viene spontanea la domanda: chi, oltre al filosofo non calato nella meschinità della politica, deve avere la sensibilità di porre e risolvere, se solubile, il problema posto dai due pensatori? Possiamo considerare due categorie, poi riducibili a una: a) i filosofi che si dedicano alla politica – e ce ne sono parecchi attratti dalle sirene del potere (e dei vantaggi economici) che quel mondo riserva-; b) i politici non filosofi. Ora, i primi rappresentano da sempre una categoria di massimo pericolo sociale, come si può constatare dal fallimento dell’ideologia espressa da Platone nella Repubblica sull’attribuzione del potere politico al filosofo-governante, da cui la personale opinione che il filosofo che intende dedicarsi alla politica – e non c’è niente di illegittimo perché cittadino con non meno diritti degli altri – è bene che si dimentichi la filosofia personale. I secondi, che fanno politica di bassa cucina, senza mai chiedersi quali sono, se ci sono, le radici del contesto socio-politico, che intendono o conservare o riformare. Questi due tipi farebbero bene ad analizzare i pensieri espressi in quel convegno dai due pensatori tedeschi, i primi, perché, avendo cambiato mestiere, si sono dati alla politica e hanno il dovere di non più ragionare da filosofi ma leggere gli altri filosofi (ecco la reductio ad unum), i secondi perché siano più consapevoli che la loro azione, in genere fatta di intrallazzi, rappresentazioni di interessi lobbistici e correntizi, sconsiderate dichiarazioni e spudorate ritrattazioni, inganni e tradimenti, non può ignorare “dove sta andando, se va, il mondo”.

Sia chiaro: questi giudizi, assai critici e negativi, non si leggono nelle due relazioni, ma l’uomo della strada, che, forse talvolta senza accorgersi, si trova, pur nella sua umiltà e nella orgogliosa consapevolezza di non essere un intellettuale parassitario, a camminare con gli Habermas e i Ratzingher, certe libertà di giudizio se le può almeno permettere e scrivere e questo mi sembra il miglior riconoscimento che si possa fare ai due pensatori; perché chi pensa (e i due hanno profondamente pensato), da qualunque premessa od ottica si ponga, può essere pago, se ha aiutato l’uomo comune a far uso critico della propria ragione, che è l’implicita lezione di Kant: non tanto critica della ragione, ma ragione che critica, in un bisticcio apparente, posto che ragione e critica possono essere intesi come sinonimi e ragione senza autocritica non sarebbe più ragione. D’altra parte e parafrasando un giudizio di Longanesi su Moravia, Kant è, in un certo senso un po’ irrispettoso, come una stoffa inglese: è meglio sul rovescio.

Pietro Bonazza