Pietro Bonazza

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LA RIVALUTAZIONE MONETARIA DELLE OBBLIGAZIONI***(questo articolo è l’aggiornamento dei richiami giurisprudenziali di quello pubblicato sulla “Rivista dei dottori commercialisti”, anno 1976, n. 4)

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Sommario:

1. PREMESSA

2. ASPETTI POLITICI DEL PROBLEMA

3. ANALISI GIURIDICA

3.1. Concetti generali

3.2. La giurisprudenza della Corte di cassazione nell’ultimo decennio

3.2.1. Principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione dagli anni Novanta alla Sezioni Unite 17 febbraio 1995, n. 1712

3.2.1.a. Per obbligazioni di “valuta”

3.2.1.b. Per obbligazioni di “valore” da fatto illecito

3.2.1.c. Per obbligazioni cosiddette “di valore” di natura “non risarcitoria”

3.2.1.d. Per obbligazioni di “valuta” da liquidazione di quota societaria

3.2.2. Principi affermati dalla giurisprudenza successivamente alla sentenza Corte di cassazione 17 febbraio 1995, n. 1712

3.2.2.a. Per obbligazioni di “valuta”

3.3.2.b. Per obbligazioni di “valore” da fatto illecito

3.2.2.c. Per obbligazioni di “valuta” da liquidazione di quota societaria

3.3. Analisi della sentenza Corte di cassazione 17 febbraio 1995, n. 1712

3.4. Un caso di giurisprudenza di merito

3.5. Conclusioni sulle affermazioni della giurisprudenza

4. PROPOSTE DI CHIARIMENTO

5. SCELTA DEGLI INDICI DI RIVALUTAZIONE

6. METODOLOGIA CONTABILE

7. OSSERVAZIONI SUGLI ASPETTI CONTABILI DELLA SENTENZA CORTE DI CASSAZIONE 17 FEBBRAIO 1995, N. 1712

7.1. Equità e discrezionalità

7.2. La locupletazione può essere a favore del debitore. La sentenza 21.3.2001, n. 361, della Corte d’appello di Brescia

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1. PREMESSA.

Il problema della incidenza degli effetti inflazionistici sui valori delle obbligazioni viene solitamente affrontato in relazione all’analisi delle categorie delle obbligazioni pecuniarie, di valuta e di valore comunemente accettate.

La giurisprudenza ha emanato numerose sentenze, proponendo definizioni e determinazioni di principi in relazione anche a specifici casi di obbligazioni.

La dottrina, non solo italiana, ci ha dato una vasta produzione di studi, ma si ha l’impressione che gli strumenti a disposizione non siano del tutto soddisfacenti, anche a prescindere da carenze legislative, anzi soprattutto ipotizzando che lo stato della legislazione rimanga invariato.

Il fenomeno inflazionistico è rientrato a valori intorno al 2-3% annuo, dopo aver registrato per lungo periodo e fino ai primi anni Novanta del 2000, valori a due cifre. Già il valore attuale è sufficiente a erodere i capitali, ma anche se si fosse in una paradisiaca e impensabile epoca a tasso di inflazione zero, il problema del calcolo della sua incidenza non sarebbe comunque annullato, perché il lento cammino della giustizia porta a sentenza, non sempre nemmeno definitiva, obbligazioni sorte in quel periodo storico, in cui l’inflazione ha manifestato le ricordate patologie.

Non si vogliono qui proporre nuove soluzioni, ma solo un compendio di concetti giuridici e contabili per il tecnico, frequentemente incaricato da giudicatori di determinare valori di obbligazioni. Lo scopo è pertanto di fornire risposta alle domande:

  • quando applicare la rivalutazione;
  • con quali indici e metodi misurarla.

Nell’era della specializzazione la sostituzione del termine consulente tecnico a quella di perito  può avere significato, se però il lavoro di quantificazione si svolge sulla premessa della conoscenza dei termini giuridici dei problemi. Solo così il consulente può far rifluire al giudicatore, o a se stesso, se ne assomma le funzioni, le scoperte che anche il calcolo talvolta riserva, per influire positivamente sul giudicato. I casi in cui si verifica il summum ius summa iniuria spesso dipendono dall’ignoranza o dall’indifferenza del giudicatore degli effetti reali della sentenza.

2. ASPETTI POLITICI DEL PROBLEMA

Il fenomeno della svalutazione monetaria, come effetto di processi inflazionistici ciclici, pur conosciuto negli anni quaranta per le esperienze ormai assestate dei disordini monetari seguiti alla prima guerra mondiale, non ha trovato nel codice del 1942 considerazione in un istituto del diritto delle obbligazioni. L’illusione della temporaneità o straordinarietà del fenomeno, o l’inespresso motivo politico di non dare riconoscimento giuridico allo svilimento monetario, dovettero essere la causa del silenzio legislativo di quegli anni, ma anche dei successivi, se, in presenza di serie storiche secolari ufficiali di numeri indici dei prezzi, solo nel 1973 con la legge 11 agosto, n. 533, sulla disciplina delle controversie di lavoro viene affermato espressamente il diritto del creditore all’allineamento monetario del proprio credito. Né potremmo considerare l’istituto della revisione prezzi previsto nel 1° comma dell’art. 1664 c.c. come un tentativo di introdurre, anche solo per un particolare tipo di rapporti, diritti di adeguamenti delle obbligazioni. La norma, che tra l’altro ammetterebbe fenomeni positivi di andamenti dei prezzi e quindi di riduzione dei corrispettivi di appalto, pare anzi suggerita più da ragioni di fenomeni settoriali che non monetari, anche se poi si è potuto constatare che la sua applicazione è conseguita al fenomeno inflazionistico.

L’accoglimento nel nostro sistema del principio nominalistico ha consentito il silenzio legislativo, contemperato dall’affermazione dei principi del comportamento secondo correttezza nell’art. 1175 c.c. e del risarcimento del maggior danno in caso di ritardo di adempimento nell’art. 1224 c.c.

Pensiamo, come sarà più avanti spiegato, che l’art. 1277 c.c. non contenga pacificamente l’affermazione del principio nominalistico, e, quindi, che la fissità dei valori nominali delle obbligazioni a favore del debitore, più che espressa, sia una norma derivante dal brocardo ” lex ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit “. Comunque, sulla scelta del principio senz’altro influirono e continuarono a influire in linea generale l’idea diffusa, ma anche di comodo, che il principio nominalistico garantisca certezza al diritto e, ancora, la riluttanza a dar riconoscimento legislativo al fenomeno inflazionistico, che è pur sempre demerito dei pubblici poteri. Ma, forse, ancor più pesa la considerazione di politica economica che il principio nominalistico giova allo stato, al più indebitato imprenditore per obbligazioni tipicamente di valuta.

Non quindi l’illusione della contenutezza del fenomeno di svalutazione in limiti da rendere pressoché sopportabili le conseguenze del principio nominalistico, ma, al contrario, la certezza della sua dilagante misura e dell’ancor più che proporzionale espansione del debito pubblico è assai più credibile motivazione del silenzio legislativo.

In oltre un secolo e mezzo di finanza dello Stato unitario italiano si sono rilevate imponenti masse di disavanzi di bilancio, di cui non vengono evidenziati gli accumuli progressivi solo perché il bilancio finanziario dello Stato è di competenza pura.

E i disavanzi sono coperti con i debiti e questi pagati con emissione di carta moneta, quindi con inflazione . La valutazione di quei dati nella loro evidenza servirebbe almeno a ridimensionare la ratio dei silenzi legislativi, assai più pragmatisti di quanto non ritengano i cultori dei principi nominalistici, soprattutto per gli andamenti monetari del quindicennio successivo al centenario della finanza pubblica italiana. Né si deve pensare che l’emanazione della legge 11 agosto 1973, n. 533, sia stata un sintomo di cambiamento di indirizzo, dato l’evidente carattere eccezionale, soprattutto in riferimento alla materia cui è destinata la norma. Infatti, dopo non vi sono stati sèguiti significativi.

Anzi, per analoga motivazione sociale, il legislatore ha comminato sanzione di nullità a patti di indicizzazione di obbligazioni pecuniarie nei rapporti locatizi, confermando che la fissità dei termini monetari è la regola generale, fatte le eccezioni espresse e per ben precise finalità.

Il dilagante ricorso più o meno simulato a indicizzazioni dimostra però che i soggetti nei loro rapporti economici non trovano valido strumento nella norma vigente e nella politica legislativa.

Fra la norma e i soggetti si sono posti la dottrina e la giurisprudenza, la prima legata a schemi tradizionali, la seconda costretta ad amministrare la casistica dinamica con strumenti legislativi non sempre adatti.

La situazione genera nel pratico un certo disagio di esame, che suggerisce l’esigenza di un maggior ordine nella materia.

3. ANALISI GIURIDICA.

3.1. Concetti generali

Il diritto delle obbligazioni potrebbe essere definito la radice di tutto il diritto commerciale, compreso il societario. Si nota un fenomeno apparentemente strano per l’analisi storica: mentre il commerciale ha subito frequenti innovazioni, sulla spinta del dinamismo dei rapporti economici in continua evoluzione, anche per il fenomeno dei vasi comunicanti tra gli ordinamenti giuridici attivato dalla internazionalizzazione e dalla globalizzazione dei rapporti commerciali, invece il diritto delle obbligazioni è in pratica quello del codicista del 1942 ed è passato immutato attraverso le barriere di una nuova costituzione e di direttive comunitarie a dir poco invadenti. Forse è nato perfetto? Forse le monografie dei grandi giuristi del passato  hanno esaurito le possibili argomentazioni? Forse la giurisprudenza è stata in grado di riempire eventuali vuoti con interpretazioni e applicazioni convincenti e consolidate? Almeno per il problema della rivalutazione monetaria, si dovrebbe dare una risposta negativa, se, ancora nel 1995, la Corte di cassazione è dovuta reintervenire – e potrebbe non essere finita – con la sentenza 17 febbraio n. 1712. Potrebbe non essere finita, perché nemmeno questa sentenza è, a mio avviso, soddisfacente, come cercherò di dimostrare dopo aver richiamato precedenti e successive pronunzie della stessa Corte.

Come introduzione al tema ricordiamo che la norma fondamentale è l’art. 1173 del codice, che individua tre categorie di obbligazioni, secondo che derivino:

  1. da contratto;
  2. da fatto illecito;
  3. le residuali, purché “in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Per il problema qui esaminato si prendono in considerazione le prime due, ipotizzando, a rischio di eccessivo semplicismo, che la terza possa esservi ricondotta.

Il codice, esamina ai capi successivi la conclusione del rapporto obbligatorio (adempimento, inadempimento ecc.) e nel VII scrive una rubrica significativa “Di alcune specie di obbligazioni”, a specificazione che non intende fare una elencazione chiusa, e dedica la Sezione I alle “Obbligazioni pecuniarie”, introducendo all’art. 1277 quelle che si riferiscono a “Debito per somma di danaro”. La coincidenza tra pecunia e danaro già rende difficile l’interpretazione dell’uso distinto dei due termini, quasi che, se è vero per l’ordine gerarchico tra genus e species che le obbligazione per somma di denaro siano ovviamente comprese in quelle pecuniarie, possano esistere obbligazioni pecuniarie (genus) che non siano necessariamente di denaro (species). La dottrina  ha cercato di spiegare il problema, con risultati che, a mio avviso, sono tanto meno soddisfacenti oggi che la moneta diventa sempre più virtuale e non ha più alcun senso parlare di principio metallista o altro.

Indaghiamo del problema gli aspetti sostanziali e constatiamo che l’art. 1277 c.c. sancisce il principio del cosiddetto valor nominale. Poiché è comunemente riconosciuto che prima o poi tutte le obbligazioni, eccetto quelle da soddisfare in natura, finiscono per diventare di natura pecuniaria e, quindi, rimbalzare all’art. 1277 c.c., diventa necessario spostare il problema dalla conclusione alla sua origine. Siamo cioè in uno di quei casi in cui una soluzione soddisfacente, anche dal punto classificatorio e astratto, può venire solo se ci si riporta al momento genetico dell’obbligazione. Di ciò si dirà dopo in termini più ampi, ma qui si può osservare che esiste un asse di collegamento tra il principio del valor nominale dell’art. 1277 e le “obbligazioni che derivano da contratto” dell’art. 1173 c.c., nel senso che il valor nominale in genere scaturisce originariamente da contratto.

Fatta questa premessa, interessa alla presente nota l’interpretazione esegetica che dottrina e giurisprudenza hanno elaborato sul 1° comma dell’art. 1277 c.c. a proposito della estinzione dei debiti pecuniari per il valore nominale della moneta al momento del pagamento.

A ben guardare sembra che la costruzione del principio nominalistico sia più una questione storica di tradizione che un’esegesi della norma contenuta nel predetto articolo. Infatti, l’interpretazione grammaticale di quel 1° comma non suggerisce, almeno a prima vista, un principio nominalistico così esplicito come la dottrina solitamente propone. Non si vuol contraddire il pensiero degli studiosi, ma se il principio nominalistico è contenuto nel solo art. 1277 c.c., viene il dubbio che la formula giuridica sia poco evidente, almeno nel senso corrente attribuitole.

Quando l’articolo recita che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ” al tempo del pagamento e per il suo valor nominale “, non vuole dire innanzi tutto che il momento del pagamento coincida con la scadenza. Quindi vi può essere un pagamento anche assai più lontano. Inoltre la locuzione per il ” suo valor nominale ” è grammaticalmente riferita a moneta e non certo a ” debiti pecuniari “. Quindi si può leggere: “al valor nominale della moneta al momento del pagamento”.

Ricordiamo che valor nominale della moneta va inteso nel senso di valore scritto sul titolo monetario, in termini assoluti e non relativi, cioè a prescindere dal suo valore intrinseco. Per quello che esprime e non per quello che vale. L’art. 1277 c.c. significa allora che nel 1960 un debitore ha diritto di estinguere una obbligazione contratta nel 1940, scaduta nel 1950, con moneta avente corso legale nel 1960 e versando pezzi monetari per un ammontare nominale equivalente all’obbligazione, prescindendo dal valore reale di quella moneta. Ma l’art. 1277 c.c. non suggerisce l’ipotesi che nel 1960 il debito abbia a versare un valor nominale in moneta di egual misura del valor nominale del debito scaduto.

La dottrina delle istituzioni porta un esempio, pressoché comune: se si aveva contratto un debito di mille lire nel 1940, si devono ancora mille lire, per esempio nel 1950, anche se il potere di acquisto della moneta nel 1950 è variato. Nella dottrina indicata in nota 5 l’esempio del mutuo degli anni ’40 è ancora più vago, perché nemmeno vi si fa un cenno preciso a una scadenza, che poi è l’elemento determinante.

A ben guardare gli esempi della citata dottrina sono o imprecisi o non attinenti.

Evidentemente si è voluto affermare che il valore nominale del debito alla sua scadenza non deve subire modificazioni di numerario rispetto al numero di monete ricevute dal mutuatario al momento in cui il contratto di mutuo ha avuto origine.

Quindi, l’esempio, per non diventare ingannevole, dovrebbe essere almeno così precisato: “se Tizio riceve a mutuo lire mille nel 1940 con obbligo di restituire egual somma nel 1950, a quest’ultima scadenza, avrà diritto di estinguere l’obbligazione con mille lire in moneta legale degli anni ’50 e per il suo valor nominale”, ma occorre ancora aggiungere, e ciò pare fondamentale, “purché il pagamento avvenga alla scadenza ” . Ma, per essere concreti, l’esempio non serve nemmeno dopo tale precisazione, almeno se si vuole che gli esempi abbiano valore esplicativo di un concetto generale, di una definizione di categorie. Basterebbe infatti ipotizzare il caso in cui Tizio, per un mutuo ricevuto nel 1940, concretizzi il rapporto obbligatorio in una cambiale del valore nominale di mille lire scadente nel 1950 per rendere improponibile l’esempio. Tizio, infatti, potrebbe aver ricevuto nel 1940 la somma di lire cinquecento da Caio che, presunta la svalutazione monetaria del decennio, ha imposto il rilascio di una cambiale di lire mille. Si può veramente ritenere che il principio nominalistico ha trovato concreta e sostanziale applicazione in presenza di un titolo astratto, unico documento del rapporto, da cui nemmeno si evince la struttura numeraria di origine? E se, in aggiunta al titolo cambiario, esistesse la prova documentale del rapporto causale, si potrebbe instaurare un’azione di indebito arricchimento contro Caio? Si pensa di no; appunto per la chiara enunciazione della causa comunque non illecita, e ancor meno un’azione di nullità per interessi usurari ex art. 1815, II comma c.c., visto che la causa non è l’interesse, ma la svalutazione, contabile a posteriori. Ciò nonostante la legge 108/1996 ha creato più danni che vantaggi. Si è voluto combattere l’usura con mezzi legislativi, i meno adatti a porre sotto controllo un fenomeno, che esige ben altri interventi.

Nell’esempio posto della cambiale, il principio nominalistico dovrebbe tutelare appunto quel valor nominale del titolo cambiario!

Inoltre basta ipotizzare che quella obbligazione cambiaria, o anche quella derivante da formale contratto di mutuo, non vengano adempiute alla scadenza per essere già fuori dall’ipotesi prevista dall’art. 1277 c.c., che, come si è notato, fa riferimento ” al tempo del pagamento ” e non ” al tempo della scadenza “.

Il dubbio che il principio nominalistico sia male incentrato sull’art. 1277 c.c. non pare del tutto infondato. Eppure, sulla norma, dottrina e giurisprudenza hanno costruito le categorie delle obbligazioni pecuniarie e non pecuniarie, di valuta e di valore .

Concludiamo invece considerando che quello nominalistico è innanzi tutto un principio generale del nostro ordinamento, di cui l’art. 1277 c.c. fa una specifica enunciazione del tipo: se un debitore per somma di denaro estingue la sua obbligazione, ha diritto di adempiere con moneta avente corso legale al momento del pagamento e per il valore nominale attribuitole dall’ordinamento nel momento stesso, versando al creditore un numero di pezzi per importo equivalente al valore dell’obbligazione sempre nel momento stesso del pagamento, che, ove coincida con la scadenza, sarà anche eguale al valore nominale del debito.

Quindi, le definizioni ricorrenti considerano obbligazioni di valuta quelle che hanno per oggetto una somma di denaro e obbligazioni di valore quelle che hanno per oggetto una cosa diversa dal denaro, inoltre solo le prime sarebbero obbligazioni pecuniarie, per cui sintetizzano le due equivalenze: obbligazioni pecuniarie di valuta e obbligazioni di valore non pecuniarie .

Come già si è notato, la classificazione è anche suggerita dalla rubrica legis della sezione I, del Capo VII, intitolata “delle obbligazioni pecuniarie”, in cui è compreso l’art. 1277 c.c., ritenuta comunemente la fonte legislativa delle obbligazioni di valuta.

In effetti, se si accetta che il predetto articolo riguardi solo quest’ultima categoria di obbligazioni, il rapporto obbligazioni di valuta uguale a obbligazioni pecuniarie e quindi obbligazioni di valore uguale a obbligazioni non pecuniarie, deriverebbe dalla constatazione che la sezione I del Capo VII non individua altre categorie oltre a quella per “debito di somma di denaro” prevista dall’art. 1277 c.c. E la definizione esatta della categoria è molto importante, perché il principio nominalistico comporta la non applicabilità dei procedimenti rivalutativi. Potremmo già trarre una prima equivalenza completa: obbligazioni pecuniarie = obbligazioni di somma di denaro = obbligazioni in valuta = obbligazioni non rivalutabili.

Mentre la seconda equivalenza sarebbe: obbligazioni di valore = obbligazioni non pecuniarie = obbligazioni non di somma di denaro = obbligazioni rivalutabili.

Ma, le equivalenze non sono affatto soddisfacenti, soprattutto se si esamina la casistica proposta dalla giurisprudenza. L’obbligazione di valore, secondo il principio della Cassazione, è la traduzione di un rapporto economico non pecuniario, in origine, in espressione monetaria per sopravvenute vicende del rapporto, ossia per sostituzione al primitivo oggetto dell’obbligazione di una quantità di denaro che ne rappresenti l’equivalente, e che assume la sua espressione quantitativa solo nel momento della liquidazione.

L’affermazione potrebbe essere anche soddisfacente, sennonché con riferimento a singole fattispecie si è anche affermato, senza alcun disagio, che il debito di risarcimento del danno derivante da fatto illecito è il tipico debito di valore, avendo per oggetto la ricostituzione del patrimonio del danneggiato . Non si riesce allora a spiegare la natura non pecuniaria dell’obbligazione di valore per danno alla persona, per esempio per danni estetici a chi dell’estetica non fa uso professionale, se il denaro non può essere un equivalente derivato, visto che in concreto non può sostituire qualcosa di preesistente e di alternativo, cioè non può essere un vero tantundem, mentre potrebbero esserlo per chi fa della propria estetica una fonte di guadagno, come dimostra il fatto che vi sono attrici che coprono le parti avvenenti del proprio corpo con polizze assicurative. Allora, si deve necessariamente constatare che anche nel caso di danni a chi non fa dell’estetica corporale una fonte di reddito, quell’obbligazione sorge già pecuniaria e lo è a titolo originario, perché il ripristino della perduta bellezza costituisce un’alternativa impossibile e l’unica alternativa è la traduzione in un vantaggio pecuniario che sostituisce lo svantaggio fisico, surrogandolo. Si potrà dire che fino al momento della liquidazione non si conosce il numero di monete che costituiscono l’obbligazione, ma è certo che trattasi di obbligazione pecuniaria costituente per il responsabile del danno un debito di somma di denaro. Si potrebbe ritenere che l’elemento discriminante, cui si è rifatta la giurisprudenza, sia il fatto illecito, ma allora non si comprende perché diventi debito di valuta, non rivalutabile, il danno, anche se dipendente da fatto illecito, quando è costituito dalla perdita di una somma determinata .

Per la giurisprudenza la liquidazione del danno costituisce debito di valore, mentre le somme che il danneggiato abbia speso per eliminare o attenuare le conseguenze dannose non sono rivalutabili, perché debito di valuta, quindi da rimborsare al valore monetario del momento in cui le spese risultano compiute .

Come a dire che potrebbe trovarsi meglio trattato colui che non fa tentativi per attenuare le conseguenze dannose! Si dovrebbe ritenere allora che l’elemento che consente di individuare le obbligazioni di valore è l’indeterminatezza originaria del numero di monete che costituiscono comunque la misura economica.

Ma nemmeno tale ipotesi è fondata se, ad esempio, è stato sostenuto che nel caso di liquidazione di una quota sociale, indeterminata al momento dell’evento e determinabile solo con procedimento di laboriosa tecnica contabile, la rivalutazione monetaria non sia dovuta, perché obbligazione non di valore  e ciò sol perché l’art. 2289, comma 1, cod. civ. stabilisce che “Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota“, ove è chiaro che il danaro rappresenta solo lo strumento per l’adempimento, non il valore. Con il che non si vuol affermare che sia errata la concezione di tale obbligazione come “valuta”, ma si critica il motivo della scelta, sul piano meramente logico, nel senso che, partendo dalla stessa premessa si potrebbero considerare “di valuta” anche altre obbligazione, comunemente accettate sotto la classe “di valore”.

È ancora opportuno precisare che, riconosciuto in certi casi il diritto alla rivalutazione monetaria, si pongono due delicati problemi:

– l’arco temporale nel quale la rivalutazione deve essere rilevata. Si notano oscillazioni sul dies a quo (dall’evento o dalla domanda?) e sul dies ad quem (alla sentenza o al pagamento effettivo?);

– la base di calcolo (gli interessi sul capitale o sul capitale più la rivalutazione?)

3.2. La giurisprudenza della Corte di cassazione nell’ultimo decennio

Il centro dell’indagine giurisprudenziale è la citata sentenza a Sezioni unite 17 febbraio 1995, n. 1712, emanata giusto a metà del decennio, al fine di verificare se ha costituito una svolta decisiva in tema di rivalutazione delle obbligazioni, però non dimenticando che essa ha riguardato specificamente il caso del “risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale”. Pertanto, l’analisi di questa sentenza verrà posta dopo, perché, pur non rispettando la sequenza cronologica, meglio consente la constatazione del suo grado di innovazione rispetto alle precedenti e della influenza sulle successive.

Prima di richiamare le sentenze che datano dagli anni Novanta, è interessante richiamarne due precedenti:

– 8 gennaio 1979, n. 68, in cui la Cassazione ha affermato che “Il risarcimento del danno cui è tenuto l’amministratore, ai sensi dell’art. 2393 cod. civ. – sia che derivi da responsabilità per illecito contrattuale, sia che si ricolleghi a responsabilità extracontrattuale, sia che si configuri più genericamente come effetto di responsabilità ex lege, e tanto se si tratti di danno emergente come di lucro cessante – riveste natura di debito di valore e non di debito di valuta, il quale è, pertanto sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione, ancorché il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo, in siffatta particolare ipotesi, solo un elemento per la commisurazione dello ammontare dello stesso, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo“. Si può notare che non è fatta questione di alcun elemento soggettivo, in quanto la constatazione che si tratta di danno da risarcire è condizione necessaria e sufficiente perché si verta in tema di obbligazioni “di valore”. Si può condividere la conclusione, ma non la premessa;

– 13 novembre 1989, n. 4791, in cui si afferma che: “In tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la rivalutazione della somma liquidata e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono due funzioni diverse, mirando la prima alla reintegrazione del danneggiato nella situazione patrimoniale anteriore al fatto illecito, mentre gli interessi hanno natura compensativa, con la conseguenza che questi ultimi sono compatibili con la rivalutazione e vanno corrisposti sulla somma rivalutata con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso“; massima che non si può non condividere, perché afferma principi che derivano da una logica economica ineccepibile. La sentenza si segnala anche perché affronta il delicato tema del dies a quo della rivalutazione, che pone dal giorno dell’evento e non dalla domanda. Classifica inoltre gli interessi nella classe dei “compensativi”, ma in ciò sarà smentita dalla sentenza a Sezioni unite n. 1712.

3.2.1. Principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione dagli anni Novanta alla sentenza a Sezioni Unite 17 febbraio 1995, n. 1712:

3.2.1.a per obbligazioni cosiddette “di valuta”

– 10 ottobre 1992, n. 11065, ha affermato che; “Gli interessi sui debiti pecuniari certi, ma non liquidi, maturano nel corso del giudizio promosso per ottenere la liquidazione dei debiti stessi (nella specie, opposizione inerente ad indennità di occupazione ed indennità di espropriazione), ma vengono a scadenza solo con la pronuncia giudiziale, con la conseguenza che possono produrre ulteriori interessi esclusivamente dopo tale scadenza, secondo le previsioni dell’ art. 1283 cod. civ.

L’art. 1283 cod. civ., tema di interessi anatocistici, si riferisce alle obbligazioni pecuniarie, e non è estensibile, in considerazione della sua portata eccezionale, ai debiti di valore“.

La sentenza si segnala perché contraddice la prassi invalsa presso i patroni delle parti vittoriose di calcolare gli interessi semplici fino alla data del pagamento, mentre la Cassazione ammette la capitalizzazione degli stessi alla data della sentenza, dopodiché gli interessi si calcolerebbero anche sui precedenti. Inoltre, recepisce la tesi che i debiti di valore sarebbero fuori dalla classe delle obbligazioni pecuniarie;

– 4 novembre 1992, n. 11968: “Per distinguere i debiti di valuta dai debiti di valore, occorre avere riguardo non alla natura dell’ oggetto nel quale la prestazione avrebbe dovuto concretarsi al momento dell’ inadempimento o del fatto dannoso, bensì all’ oggetto diretto ed originario della prestazione che, nelle obbligazioni di valore, consiste in una cosa diversa dal denaro, mentre, nelle obbligazioni di valuta, è proprio una somma di danaro, a nulla rilevando l’ originaria indeterminatezza della somma stessa. Ne consegue che il debito per il risarcimento del danno conseguente alla mora nell’ adempimento di un’ obbligazione sin dall’ origine pecuniaria, ex art. 1224 cod. civ., ha natura di debito di valuta tanto se il risarcimento sia pari alla sola misura degli interessi al tasso legale e convenzionale, quanto se debba essere determinato anche in relazione alla maggior misura dimostrata“.

3.2.1.b per obbligazioni cosiddette “di valore” da fatto illecito

– È interessante per la sua portata definitoria, per la precisazione sull’escursus temporale e per i collegamenti con la Sezioni unite n. 1712, la sentenza 20 giugno 1990 n. 6209: “In tema di “occupazione espropriativa”, con irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di opera pubblica, al privato spetta, a titolo risarcitorio, una somma di denaro che corrisponda al valore del bene al momento del fatto illecito, e sia poi aggiornata, al fine della necessaria attualizzazione dell’espressione monetaria del debito, sulla base dell’inflazione sopravvenuta fino alla data della decisione, ed inoltre spetta il ristoro dell’ulteriore pregiudizio derivante dal ritardo subito nella reintegrazione del proprio patrimonio, con la correlativa perdita della “utilitas” del bene. Tale ultimo danno, ove si faccia ricorso al criterio degli interessi legali, va determinato computando gli interessi prima sul valore iniziale del bene e poi sui progressivi adeguamenti del valore stesso corrispondenti alla sopravvenuta inflazione, oppure, in considerazione della difficoltà di fissare dette mutevoli basi di riferimento, utilizzando in via equitativa indici annuali medi di svalutazione”.

– Come la precedente, si segnala per valore definitorio, per la liquidabilità d’ufficio e per la classificazione degli interessi tra i “compensativi”, la sentenza 1 dicembre 1992, n. 12839:

“Con riguardo alla responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni prodotti da un atto amministrativo illegittimo, non può prescindersi – come con riguardo alle responsabilità di altri soggetti dell’ordinamento – dal requisito soggettivo della medesima e non può quindi escludersi la rilevanza dell’errore scusabile – che, se incidente sull’interpretazione della legge, può considerarsi tale solo se riconducibile ad oggettiva oscurità (attestata eventualmente da persistenti contrasti ermeneutici) della norma violata o altrimenti inevitabile – commesso dalla persona fisica dell’organo autore dell’atto: errore del quale non può non beneficiare l’Amministrazione, che attraverso i propri funzionari agisce e decide.

Con riguardo a domanda avente ad oggetto obbligazione di valore, come quella di risarcimento dei danni, il giudice dell’impugnazione, ai fini della liquidazione della prestazione deve tenere conto, anche di ufficio ed anche se adito in sede di rinvio, dell’ulteriore svalutazione monetaria verificatasi successivamente alla sentenza impugnata, non esigendosi a tal fine alcuna richiesta specifica della parte vittoriosa, che sarebbe altresì priva di interesse ad impugnare, in quanto, ai fini suddetti, la rivalutazione non rappresenta che il mezzo di attualizzazione, alla data della decisione, dell’ammontare del debito di valore fatto valere, il quale, in difetto di determinazione pattizia, si converte in debito di valuta – non suscettibile “ex se” di rivalutazione – solo per effetto del passato in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione.

Gli interessi così detti compensativi relativi a debiti di valore hanno funzione risarcitoria della perdita di quelle utilità, economicamente apprezzabili, che il creditore – nel tempo compreso tra la consumazione dell’illecito e la liquidazione finale – avrebbe potuto trarre dalla cosa di cui è stato illecitamente privato ovvero dal suo equivalente pecuniario, con la conseguenza che essi, configurandosi come una componente del danno globale da risarcire, non possono formare oggetto di un capo di condanna configurabile come autonomo rispetto a quello avente per oggetto la somma capitale e suscettibile di un distinto giudicato (mentre, con riguardo all’unica pronunzia di condanna, il giudicato può formarsi sui criteri di determinazione del danno considerato secondo la duplice componente della somma capitale e delle relative maggiorazioni per interessi compensativi) e non sono produttivi di interessi moratori.

– Interessante per gli aspetti processuali la sentenza 22 ottobre 1992, n. 11552: “L’incidenza della svalutazione monetaria nella liquidazione del danno da fatto illecito dev’essere stabilita d’ufficio anche nel giudizio d’appello e di rinvio, salvo che sulla questione si sia formato il giudicato interno e fermi restando, per il giudizio di rinvio, i divieti di cui all’art. 394, terzo comma, cod. proc. civ. Ne consegue che, qualora nel giudizio d’appello sia mancata una pronuncia sull’ulteriore svalutazione verificatasi dopo la sentenza di primo grado e la relativa questione non sia stata riproposta nel giudizio di Cassazione, resta preclusa al danneggiato la possibilità di chiedere ed ottenere nel giudizio di rinvio la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno in funzione della svalutazione verificatasi tra la sentenza di primo grado e quella di annullamento. Peraltro, ove la sentenza d’annullamento abbia riaperto la questione della liquidazione del danno da fatto illecito, sì che la stessa risulti compresa nel giudizio di rinvio, il danneggiato può proporre in tale sede domanda di rivalutazione del credito risarcitorio limitatamente alla svalutazione verificatasi successivamente alla sentenza di Cassazione.”

– Ancora sulla definizione si sofferma la sentenza 6 dicembre 1993, n. 12054, ove afferma: “L’obbligazione del risarcimento del danno derivante da fatto illecito integra un debito di valore in quanto tende alla reintegrazione del patrimonio della parte lesa nella situazione in cui si sarebbe trovata se non si fosse verificato l’evento dannoso, con la conseguenza che l’adeguamento dell’effettivo valore monetario al momento della decisione in grado d’appello non costituisce mutamento della domanda e può essere compiuto dal giudice d’ufficio anche nell’ipotesi in cui si proceda alla liquidazione con valutazione equitativa, non facendo venir meno quest’ultima l’esigenza di un’effettiva rispondenza del risarcimento all’entità del danno.

– Interessante per l’assimilazione del danno da illecito all’inadempienza contrattuale è la sentenza 4 febbraio 1994, n. 1161: “Il risarcimento dei danni da fatto illecito non ha contenuto diverso o più ampio di quello dovuto per l’inadempienza contrattuale, per cui – in entrambi i casi, – solo quando il danno da risarcire si riferisca a cosa diversa dal denaro, il dovuto risarcimento sostanzia un debito di valore, mentre allorché il danno consiste nella perdita di una somma di denaro, il debito di risarcimento è e rimane debito di valuta soggetto al principio nominalistico ed alla regolamentazione di cui all’art. 1224 cod. civ. con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, la svalutazione monetaria sopravvenuta non può costituire titolo autonomo di danni, salva la possibilità per il creditore di allegare e dimostrare di aver risentito un concreto maggior pregiudizio derivante dalla variazione del potere di acquisto della moneta”.

– Contrastante e forse causa della successiva Sez. Unite n. 1712 è la massima della sentenza 29 settembre 1994, n. 7943: “Il principio operante per le obbligazioni pecuniarie in base al quale gli interessi legali accordati al creditore dall’ art. 1224, comma primo, cod. civ., sono dovuti sulla somma rivalutata soltanto dalla data della liquidazione è applicabile anche ai crediti di valore (quale deve considerarsi quello all’ indennità prevista dall’ art. 938 cod. civ. a favore del proprietario del suolo nell’ ipotesi di accessione invertita) giacché anche per detti crediti il cumulo degli interessi e della rivalutazione monetaria produrrebbe l’ effetto di far conseguire al creditore per il periodo di decorrenza comune una duplice liquidazione dello stesso danno“.

3.2.1.c per obbligazioni cosiddette “di valore” di natura “non risarcitoria”

– 20 novembre 1991, n. 12432: ” L’obbligazione di corrispondere al privato proprietario il controvalore del suolo acquisito dalla P.A. a titolo originario per irreversibile destinazione alla realizzazione dell’opera dichiarata di pubblica utilità costituisce un debito di valore di natura non risarcitoria, con la duplice conseguenza che il correlativo credito è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e che gli interessi legali sulla somma dovuta vanno calcolati non già sull’importo rivalutato della stessa, corrispondente al valore finale, bensì rapportandoli inizialmente al valore del bene al momento della fattispecie acquisitiva e quindi ai successivi mutamenti del potere di acquisto della moneta, in quanto l’utilità perduta dal creditore per effetto del ritardo nell’adempimento e compensata dagli interessi non è pari né a tale valore né a quello iniziale, ma subisce un incremento via via crescente per effetto dell’inflazione, sicché il punto di riferimento per il calcolo degli interessi non può essere costante.”Si osserva che questa massima anticipa, sul tema della metodologia di calcolo di rivalutazione e interessi, il principio affermato dalla sentenza a Sezioni Unite n. 1712.3.2.1.d. per obbligazioni cosiddette “di valuta” in tema di liquidazione della quota societaria

– 10 giugno 1994, n. 5647: ” Il credito di cui all’art. 2289 c.c., relativo alla liquidazione della quota del socio uscente, avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di danaro, è un credito di valuta ed è soggetto, quindi, al principio nominalistico di cui all’art. 1227 c.c.; nondimeno la svalutazione monetaria assume rilevanza quando, non essendo avvenuto l’adempimento entro il termine di sei mesi previsto dall’ultimo comma dell’art. 2289, diventino applicabili i principi sul risarcimento del danno conseguente alla mora del debitore.”3.2.2 Principi affermati dalla giurisprudenza successivamente alla sentenza Corte di cassazione 17 febbraio 1995, n. 1712

3.2.2.a per obbligazioni cosiddette “di valuta”

– 14 marzo 1995, n. 2930: “In caso di ritardato adempimento di un debito di valuta (nella specie, indennizzo assicurativo) ove il giudice rivaluti all’attualità la somma dovuta, non possono essere pretesi sulla somma rivalutata a decorrere dalla mora gli interessi moratori, dovendo questi considerarsi compresi, unitamente al “maggior danno” di cui all’art. 1224, comma secondo, cod. civ., in detta liquidazione“;

– importante perché afferma la riconduzione delle obbligazioni di valore a quelle di valuta, nel senso già rilevato, che prima o poi tutto finisce per tradursi in danaro, è la sentenza 9 gennaio 1996, n. 83: “La liquidazione del maggior danno che il creditore di una somma di danaro provi di aver subito per effetto del ritardo nel pagamento ( art. 1224, secondo comma, cod. civ.) va compiuta dal giudice di merito con riferimento alla data della decisione che chiude il giudizio davanti a sé. La liquidazione determina la trasformazione dell’ obbligazione risarcitoria da obbligazione di valore in obbligazione di valuta, che la sentenza rende esigibile, sicché sulla somma risultante dalla liquidazione sono dovuti, dalla data della sentenza, gli interessi al saggio degli interessi legali.

– 5 aprile 1996, n. 3187:In tema di obbligazioni pecuniarie, allorché risulti pacifica in atti l’attività d’imprenditore commerciale svolta professionalmente dal creditore e costui deduca di aver subito danno dal ritardo del debitore nell’adempimento, non è necessario che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all’indisponibilità del credito, per effetto dell’inadempimento, ben potendosi dedurre nell’anzidetta situazione ed in base all’ “id quod plerumque accidit”, che se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata impiegata in modo da essere sottratta, in tutto o in parte, agli effetti del deprezzamento monetario.

– 21 aprile 1997, n. 3412: “In materia di adempimento di obbligazioni pecuniarie, il riferimento contenuto nell’atto introduttivo del giudizio al tasso ufficiale di sconto, va inteso come enunciazione di un possibile criterio di valutazione del pregiudizio del quale si chiede il ristoro. Non incorre, pertanto, nel vizio di ultrapetizione la sentenza che liquidi gli interessi nella misura legale, ovvero proceda alla liquidazione, con riferimento agli indici Istat, a fronte di una diversa richiesta di una parte“.

– 11 febbraio 1998, n. 1403: “La società di fatto, ancorché irregolare e non munita di personalità giuridica, è tuttavia soggetto di diritto, in quanto titolare di un patrimonio formato con i beni conferiti dai soci; con la conseguenza che detta società è passivamente legittimata rispetto alla domanda del socio receduto che chieda la liquidazione della sua quota. Inoltre, allorché – come nel caso di recesso del socio – la qualità di imprenditore commerciale svolta professionalmente dal medesimo risulti pacifica, nel caso di ritardo nella corresponsione dell’importo della quota a lui spettante, non si rende necessario, ai fini del riconoscimento del risarcimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all’indisponibilità dell’importo, ben potendosi dedurre, in tale situazione, in base all’ “id quod plerumque accidit”, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti del deprezzamento monetario“.

3.2.2.b. per obbligazioni cosiddette “di valore” da fatto illecito

– 4 aprile 1998, n. 3483: “La responsabilità degli amministratori verso la società a norma degli artt. 2392 ss. c.c. deriva da fatto illecito e determina pertanto un debito di valore che deve essere liquidato tenendo conto della svalutazione monetaria intervenuta fino alla data della relativa decisione, restando irrilevante che il pregiudizio arrecato alla società sia costituito da perdite pecuniarie“.

– 4 ottobre 1999, n. 11021, di particolare importanza, perché sembra essersi posta in contrasto con la sentenza Sezioni unite n. 1712, non sul punto della non confondibilità tra gli interessi di mora e la rivalutazione, ma per aver affermato che la rivalutazione si deve fermare al deposito della consulenza tecnica d’ufficio, mentre la n. 1712 la riconosce possibile fino alla sentenza del giudice di rinvio. Sarebbe addirittura più corretto farla arrivare fino al pagamento, poiché fino al verificarsi di quell’evento il danno “per equivalente”, comprensivo della svalutazione monetaria, continua a gravare sul creditore insoddisfatto. Solo considerando rivalutazione e interessi di mora autonomi anche nel decorso dei tempi si può avere coerenza nella distinzione tra le due partite. Invece, la sentenza n. 11021 afferma il principio che la rivalutazione si deve fermare alla data della liquidazione e che da quel momento decorrono gli interessi di mora, i quali, avendo natura risarcitoria, non potrebbero cumularsi con la rivalutazione. Da rilevare anche che questa sentenza ammette che la rivalutazione sia riconoscibile ex officio. Si legge nella 11021: ” Va innanzitutto osservato, per quanto riguarda la rivalutazione della somma (L. 84.487.471) erogata per “i lavori già effettuati”, che il criterio seguito dalla Corte d’appello (con riferimento al tasso del 10% annuo) non è censurabile in questa sede di legittimità, perché rientra nella valutazione discrezionale del giudice di merito scegliere quello ritenuto più idoneo (Cass. 21.4.1997 n. 3412), tanto più che nel caso specifico è giustificato dal fatto che è stato proprio quello indicato dal c.t.u. (nel “ricalcolo”) in base a specifiche argomentazioni tecniche.Va poi osservato, per quanto riguarda la decorrenza degli interessi sulla somma complessiva (L. 226.257.236) liquidata a titolo di risarcimento danni, che la Corte d’appello, avendo rivalutato tale somma al momento del deposito del “supplemento” di relazione della c.t.u., era tenuta a liquidare gli interessi, così come è stato fatto, a decorrere dal periodo (1.3.1994) successivo alla rivalutazione (e non da altra data, in particolare quella – 16.11.1979 – di consegna delle opere) trattandosi di debito di valore.Ed invero, l’obbligazione di risarcimento del danno, ancorché derivante da inadempimento contrattuale, configura un debito di valore, in quanto diretta a reintegrare completamente il patrimonio del danneggiato, che resta sottratta al principio nominalistico e deve, pertanto, essere quantificata dal giudice, anche d’ufficio tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione (Cass. 10.1.1996 n. 166). Con la conseguenza che, qualora, in relazione alla domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno, si provveda all’integrale rivalutazione del credito, secondo gli indici di deprezzamento della moneta, fino alla data della liquidazione, tale rivalutazione non può cumularsi con gli interessi legali dal giorno della mora, dovendosi gli interessi, sulla somma rivalutata, accordarsi solo alla data della liquidazione, verificandosi altrimenti l’effetto che il creditore conseguirebbe di più di quanto avrebbe ottenuto se l’obbligazione fosse stata tempestivamente adempiuta (Cass. 9.1.1996 n. 83; 14.3.1995 n. 2930; 29.9.1994 n. 7943).Pertanto giustamente la Corte d’appello ha affermato che gli interessi erano dovuti dall’epoca (1.3.1994) della liquidazione della somma rivalutata e non dall’epoca della consegna dell’opera (come pretende la ricorrente).”3.2.2.c. obbligazioni di “valuta” da liquidazione di quota societaria

– si segnala, per perspicuità anche in tema di avviamento, la sentenza della Corte di cassazione 11 febbraio 1998, n. 1403, che sulla rivalutazione così si esprime: “ Configurandosi l’obbligazione di pagamento della quota di liquidazione del socio receduto come debito di valuta, il risarcimento del maggior danno, ragguagliato alla svalutazione monetaria intervenuta dalla data di maturazione del credito (scadenza del termine semestrale previsto dall’art. 2289 c.c.) e quella della decisione, è stato correttamente riconosciuto al Paolantoni in base alla sua qualità di imprenditore commerciale. Allorché infatti risulti pacifica l’attività di imprenditore commerciale svolta professionalmente dal creditore, non è necessario che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all’indisponibilità del credito, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all'”id quod plerumque accidit”, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo da essere sottratta agli effetti del deprezzamento monetario (Cass. 3187/96).Non sussiste, poi, l’asserita duplicazione di risarcimento, essendo la rivalutazione attribuita comprensiva degli interessi legali, ed essendo poi stati applicati gli ulteriori interessi legali sulla somma dovuta non retroattivamente, ma soltanto con decorrenza dalla data della decisione di primo grado.”Si nota, nell’ultima asserzione, che la Corte ammette una capitalizzazione degli interessi nel momento della sentenza di primo grado e, quindi, in pratica una specie di anatocismo una tantum, come si evince dalla locuzione “ulteriori interessi”.

– La sentenza Corte di cassazione 4 aprile 1998, n. 3483, riconosce a sua volta interessi e rivalutazione, con espresso richiamo della n. 1712 a Sezioni Unite, concludendo con l’asserzione che: ” …il principio deve essere ribadito non ravvisandosi ragioni per discostarsene.”3.3 Analisi della sentenza della Corte di cassazione Sezione Unite – 17 febbraio 1995, n. 1712.

La sentenza, provocata da un caso di illecito extracontrattuale generatore di obbligazione di valore per risarcimento del danno, ha cassato la precedente sentenza della Corte d’appello di Napoli, contro la quale ha levato tre censure. Il fatto consisteva nella liquidazione del danno “per equivalente” in relazione alla perdita di un bene immobile abbattuto il 4.3.1971. La Corte napoletana aveva liquidato, recependo una C.T.U., il valore del bene alla data del 24.11.1973, aveva aggiunto i fitti perduti dal 1971 al 24.11.1973. Aveva poi rivalutato il totale fino alla data della decisione (18.12.1991), statuendo altresì interessi legali sulla somma comprensiva della rivalutazione dal 4.3.1971 al saldo.

La sentenza è molto articolata in una serie di motivazioni e di passaggi che meritano analisi, anche perché dice assai più della massima, che viene esposta di seguito in forma schematica, condivisibile e in cui è di particolare interesse la parte, l’ultima, in cui si afferma il principio che l’interesse, in funzione di danno da ritardo di pagamento (lucro cessante) non deve essere calcolato in modo indistinto, ma in riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la “somma” comprensiva della rivalutazione, ai incrementa. Ciò è corretto, perché il tasso di inflazione e il tasso di interesse sono dinamici nel tempo e solo nel brevissimo periodo, normalmente corrispondente al mese, base temporale degli indici ISTAT, si può parlare di unicità. Ritengo che la metodologia contabile esposta al successivo § 6 faccia corretta applicazione proprio del principio enunciato dalla Corte.

Però, come si è detto, la sentenza dice più della massima e, comunque, è interessante analizzare le seguenti tre censure della Corte suprema:a) il valore del bene perduto deve essere rapportato alla data dell’illecito istantaneo, trattandosi di debito di valore. Per la Corte: “…la rivalutazione non corrisponde affatto alla funzione esplicata, nel quadro dei debiti di valuta, in rapporto al “maggior danno” di cui all’art. 1224 comma 2 c.c. e cioè a quella di risarcire il danno eccedente gli interessi legali, dovuti dal giorno della mora. L’art. 1224 non è richiamato dall’art. 2056 c.c. La mora, che pure è regolata anche nelle obbligazioni da fatto illecito, come mora automatica (art. 1219, comma 2, n. 1) non ha niente a che vedere – in dette obbligazioni – con la rivalutazione monetaria, la quale è dovuta non come effetto di essa, ma come effetto della natura del credito di valore, che è di per sé sottratto al rischio della svalutazione, poiché il suo importo in moneta deve essere determinato al momento della liquidazione, in corrispondenza ad un valore economico reale.. Di tale caratteristica è consapevole la giurisprudenza, che ha elaborato una serie di regole processuali peculiari, estranee al danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie: la rivalutazione deve essere accordata anche d’ufficio ed in grado di appello e di rinvio.

b) non si dovevano aggiungere i fitti perduti, per circa due anni e dieci mesi dopo l’illecito, e in coincidenza con un periodo per il quale sono stati attribuiti anche gli interessi legali sulla somma capitale, operando in tal modo una duplicazione illegittima. Invece, si sarebbe dovuto considerare solo il valore del bene, oltre agli interessi dalla data del fatto. Con l’occasione la Corte afferma – e questo è un punto importante – che la rivalutazione deve seguire un calcolo non cumulativo, ma distinto, quindi, dandosi dinamismo dei valori nel tempo, con diversità e pluralità di parametri anno per anno. Osserva la Corte: “Invero, anche secondo la giurisprudenza tradizionale il mancato godimento di un bene, protrattosi per una pluralità di anni, è un credito risarcitorio per lucro cessante che matura anno per anno ed è suscettibile di rivalutazione monetaria, con attribuzione degli interessi sulla somma rivalutata, solo a partire da ciascuna annualità. Tale modalità di attribuzione del lucro cessante su giustifica quando il bene è stato sottratto illecitamente al godimento del titolare, pur essendo in rerum natura; se il bene è distrutto e non può essere restituito, il risarcimento è necessariamente tradotto in una somma di denaro (che corrisponde al danno emergente), mentre il lucro cessante può aversi (a parte la prova di specifici mancati guadagni, da darsi caso per caso, e del tutto estranei a questa causa) solo per il ritardo nella corresponsione della somma. Non possono quindi cumularsi, con gli interessi legali dalla data del fatto, i “frutti” (canoni di locazione) del bene rimpiazzato dalla somma di denaro…

c) il riconoscimento degli interessi anche sulla rivalutazione può tradursi in una sorta di anatocismo. Su questo punto la Corte ha scelto di essere parzialmente innovativa rispetto all’orientamento precedente, pur rimanendo nel quadro della conservazione del principio della risarcibilità dei due tipi di danno: il valore del bene perduto (danno emergente) da un lato, e il corrispettivo del mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene predetto dall’altro. Rileva la Corte che: ” L’art. 2056 richiama l’art. 1223. Che – a sua volta – riguarda il risarcimento del danno “per l’inadempimento o per il ritardo” con una formula che ben si adatta anche al debito da risarcimento del danno da fatto illecito… Questo può essere liquidato in forma specifica, ma se è liquidato per equivalente, deve comprendere sia l’equivalente del bene perduto (e, quindi, la rivalutazione monetaria della sua espressione monetaria al momento del fatto), sia l’equivalente del mancato godimento del bene e del suo controvalore monetario, per tutto il tempo che intercorre fra il fatto e la liquidazione.” Si osserva che la liquidazione per equivalente si concretizza nel valore del danno costituito dal danno in senso stretto e in quello del mancato godimento del bene. La Corte prosegue con analisi sulla correttezza della classificazione tra i “compensativi” degli interessi da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione di risarcimento del danno extracontrattuale, dopo di che, ricordato che la loro determinazione può essere stabilita anche in via equitativa, afferma: “ Nell’ambito della suddetta valutazione equitativa può tenersi conto, soprattutto quando l’intervallo di tempo fra l’illecito e il suo risarcimento è cospicuo e l’inflazione è ragguardevole, del graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, calcolando gli interessi (per esempio, anno per anno) sul valore della somma via via rivalutata nell’arco del suddetto ritardo; oppure calcolando indici medi di rivalutazione. Quel che deve escludersi è che la base di calcolo dei suddetti interessi possa essere quella della somma rivalutata al momento della liquidazione, se gli interessi vengono fatti decorrere – come consente il sistema – dal momento del fatto illecito, perché con tali modalità si attribuirebbe al creditore un valore a cui egli non ha diritto; invero, gli interessi non costituiscono un debito di valore, ma un criterio di commisurazione del danno da ritardato conseguimento di una somma di denaro che, all’epoca del fatto, era – per definizione non rivalutata.” Quindi, la Corte non disconosce gli interessi su “tutto” il danno comprensivo della rivalutazione, ma ne fa solo questione di metodologia di calcolo, che deve rispettare la distinzione dei tempi. Prosegue la Corte: ” Col criterio tradizionale (attribuzione degli interessi legali dalla data del fatto, sulla somma rivalutata al momento della liquidazione) si assegnerebbe al debito di valore costituito dal risarcimento del danno il ruolo di fonte dell’obbligazione di interessi, a sensi dell’art. 1173, e cioè il debito di interessi sarebbe un accessorio del debito principale (risarcitorio). Ciò non corrisponde al sistema. ” Prosegue la Corte: ” Il problema pratico da risolvere è quello di stabilire – a favore del creditore danneggiato – quella posizione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato, senza l’illecito e senza che fosse stato frapposto ritardo nel risarcimento. Si tratta, pertanto, di due danni diversi, che, in linea di principio, vanno provati entrambi; ma il sistema conosce tecniche probatorie e di liquidazione di carattere presuntivo e/o “tipizzate”, purché siano motivate con riguardo alla natura del danno, alla qualità del danneggiato, all’importo della somma liquidata a atitolo di capitale, e ad ogni altra circostanza concreta. Non vi è dubbio che, nell’ambito del secondo tipo di danno, rileva il mancato guadagno derivante dal mancato godimento del bene o del suo equivalente in denaro: utilizzazione economica che ha come componente essenziale il tempo e cioè l’intervallo fra il momento del danno e la sua liquidazione, nel corso del quale il creditore può dare (e il giudice può riconoscere) la prova della possibilità di sottrarre l’impiego del denaro dagli effetti negativi della svalutazione monetaria. Se questa prova non fosse data o il giudice la disconosca (per esempio, per effetto dell’andamento dei tassi di impiego del denaro, correnti nel periodo considerato), potrebbe essere attribuito l’interesse fissato soltanto e sempre sulla somma corrispondente al valore del bene al momento del fatto illecito.

La conclusione della Corte suprema è, allora, il principio enunciato a sensi dell’art. 384 c.p.c. imposto ad altra sezione della Corte napoletana:

” Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata “per equivalente”, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso; in siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell’illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio.”

In sintesi, pare che le Sezioni unite abbiano inteso affermare un principio fondamentale e due corollari.

Il principio è il riconoscimento del diritto del danneggiato a vedersi ricostituita, per equivalente, la situazione patrimoniale ed economica in cui si sarebbe trovato in assenza di illecito.

I due corollari sono:

– il diritto agli interessi sulla parte di danno costituita dalla rivalutazione monetaria, dalla data dell’illecito alla sentenza definitiva eventualmente di rinvio, purché il danno sia provato anche con presunzione semplice e il giudice accetti tale criterio anche in via equitativa;

– l’inaccettabilità del criterio di determinazione di rivalutazione e interessi con parametri unici, cioè non articolati variabilmente secondo gli effettivi andamenti sia dell’interesse e sia degli indici di svalutazione monetaria.

I criteri di calcolo desumibili da questi principi, pare siano già anticipati nelle metodologia proposta in un mio saggio del 1976 .

La sentenza non è di facile interpretazione, almeno su questo punto, anche perché una certa abbondanza di analisi può rendere difficile la sintesi del lettore, che non deve necessariamente coincidere con la massima, pena la rinunzia al senso critico. 3.4 Un caso di giurisprudenza di meritoProva della non facile lettura della sentenza n. 1712 è nella sentenza n. 361 del 21 marzo 2001, con cui la Corte d’Appello di Brescia, dichiarando esplicitamente di adottare il principio della sentenza n. 1712, che appunto richiama, su un caso di risarcimento del danno a carico di compagnia di assicurazione così dispone: “Affermata l’operatività della polizza, devono essere accolte sia la domanda di condanna della *** al pagamento, in favore degli appellanti della somma capitale prevista dalla polizza sia la domanda di attribuzione del c.d. “danno da svalutazione” (trattandosi di debito di valore”, sia quella di attribuzione degli interessi di legge. Tale somma va quindi rivalutata secondo gli indici ISTAT di aumento dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati dalla data dell’incidente fino a quella del saldo effettivo. Gli interessi legali, peraltro, ed evitare una indebita locupletazione del creditore, vanno riconosciuti, con la stessa decorrenza non sull’intiera somma, ma su quella ricavata dalla applicazione della formula “somma iniziale + somma rivalutata, diviso 2”, adottata da questa Corte in applicazione dei principi fissati in materia dalla nota sentenza 17.2.1995, n. 1712 del Supremo Collegio.”

Forse i giudici bresciani avrebbero meglio disposto senza richiamare la Cassazione, se non altro perché a loro volta, nonostante il richiamo, hanno inventato un nuovo criterio, che quella sentenza non indica. Infatti, il rischio di locupletazione, ammesso che possa esistere, non si scansa mediando la base di calcolo, ma semmai è il tasso di interesse, che può essere riferito a misura diversa da quella legale. Invece, la Corte bresciana, ha in pratica confuso il capitale – nella fattispecie formato da due componenti – con l’interesse e questo va contro la logica economica e matematico-finanziaria. Si può convenire che in tema di interessi semplici, o meglio: non anatocistici, la divisione a metà del capitale dà un risultato pari a quello della divisione a metà dei tassi di interesse, ma il giurista non può consentirsi le “indifferenze” del matematico. Dividere a metà il capitale significa affermare che la seconda metà non è produttiva di interessi, ciò che contraddice la premessa della sentenza stessa. La pronunzia bresciana richiama istintivamente il processo di Salomone contro le due madri, che, proponendo la divisione a metà del bambino conteso, dimostra minor sapienza giuridica di quel che l’opinione biblica gli riconosce.

Nella fattispecie esiste il rischio che la locupletazione sia indebita per il debitore e ciò in quanto il tasso di inflazione non è eguale al tasso di interesse. Basti prendere come esempio lunghi periodi in cui il tasso legale, per inerzia del legislatore, sia rimasto fermo a periodi in cui l’inflazione era contenuta, mentre successivamente si sia verificata un’esplosione del fenomeno di degrado monetario, il che è realmente accaduto nella nostra storia economica dell’ultimo quarto del secolo scorso.

La rappresentazione con esempio può essere intuitiva. Si pensi a una rivalutazione anche solo pari al capitale (cioè al danno indennizzabile) e si constati che la media lascia una delle due componenti del tutto priva di interessi.Posti:x danno indennizzabile (somma iniziale secondo la Corte bresciana)a coefficiente di rivalutazione(a.x) rivalutazione(x+a.x) somma rivalutataz={x+[(x+(a.x)]}/2 base di calcolo degli interessiDandosi un tasso di inflazione del 100% (cioè a=1), per esempio in 5 anni (si vedano le serie storiche del decennio 80-90) e sostituendo nell’ultima espressione, si avrebbe un valore di z=1,5.x, cioè metà della svalutazione (o del danno indennizzabile) resterebbe senza riconoscimento di interessi. Un giurista non accetterebbe che metà di un debito di valore si trasformasse in “valuta”. L’analisi contabile è proposta nel successivo § 7.2.3.5. Le conclusioni sulle affermazioni della giurisprudenza.

I “distinguo” della giurisprudenza non hanno consentito la determinazione di un sicuro elemento discriminante, anche perché lo sforzo per superare le categorie e adeguarsi a una realtà economica superiore alle stesse, ha consentito di creare una casistica di rivalutazione per le obbligazioni di valuta, anche se in realtà si tratta pur sempre di una applicazione dei criteri adottati per le obbligazioni di valore. Si ritiene infatti, in base all’art. 1224 c.c., che il debitore, soprattutto in caso di violazione del comportamento secondo correttezza previsto dall’art. 1175 c.c., in ritardo di adempimento della propria obbligazione, debba corrispondere in aggiunta agli interessi l’eventuale ulteriore risarcimento, qualora il creditore dimostri di aver subito il maggior danno risultante dalla svalutazione, dimostrazione che può darsi anche con presunzioni che abbiano i requisiti richiesti dall’art. 2729 c.c. .

È ben vero che il maggior danno costituirebbe una obbligazione autonoma in senso genetico, poiché trarrebbe origine da un fatto illecito e, quindi, darebbe luogo a una obbligazione di valore accanto a quella di valuta, ma è anche vero che la distinzione è solo nella causa. Seguendo la giurisprudenza, l’obbligazione di danno non potrebbe essere pecuniaria in termini originari, ciò che confermerebbe la sua classificazione nell’art. 1223 cod. civ. per causa di illecito ritardo con il conseguente obbligo di rivalutazione. Nel caso di obbligazione di valuta si avrebbe la non rivalutabilità dell’obbligazione principale, ma sarebbero rivalutabili i danni del mancato pagamento dell’obbligazione. Semmai non sarebbero rivalutabili gli interessi di mora, poiché in base all’art. 1224 c.c. sono dovuti anche in assenza di danno. E che la rivalutazione sia in concreto riservata alle sole obbligazioni di valore, lo ha ammesso implicitamente anche il legislatore, che, introducendo nella citata legge 11 agosto 1973, n. 533, l’obbligo del giudice del lavoro, in presenza di ipotesi di danno, di rivalutare il credito di lavoro (di valuta  anche per la sua liquidabilità in base a tabelle e ad accordi economici collettivi), ha voluto evitare le conseguenze del principio nominalistico altrimenti applicabile .

Non si può quindi, in conclusione, ritenere che la categoria “obbligazioni di valore” sia, allo stato attuale dell’indagine, definita in modo convincente, se si può constatare che, nonostante la produzione di così vasta dottrina, impegnata in studi poderosi, il problema viene affrontato dalla giurisprudenza con soluzioni piuttosto instabili e di non facile interpretazione. Soprattutto l’esame della casistica giurisprudenziale e delle proposte di definizione che ne fa la dottrina, matrice della giurisprudenza per la cultura di cui è fatto d’obbligo far credito al giudice, porta a constatare una certa incertezza di idee e una mancanza del principio fondamentale della classificazione, quello che consente di accogliere gli enti nella classe relativa.

Si osserva anche che la sentenza n. 1712 ha sollevato critiche piuttosto pesanti, soprattutto da parte degli autori, che rifiutano ipotesi di coesistenza della rivalutazione con gli interessi, forse non cogliendo appieno le diverse cause che giustificano le due categorie, il cui cumulo, se realizzato con corretta metodologia contabile, riesce, invece, a realizzare il principio fondamentale della reintegrazione del creditore nella posizione economico-patrimoniale equivalente all’assenza dell’illecito patito. Il timore di un riconoscimento di ingiusta overcompensation al creditore per obbligazione di valore non sembra giustificato, quanto meno non sono convincenti le critiche:

– che il bene, di cui si determina l’equivalente monetario, potrebbe anche perdersi. Questa critica ha lo stesso peso della sua inversa, invece dimenticata, che il valore potrebbe anche moltiplicarsi!- che gli operatori economici usano ammortizzare i beni in bilancio. L’autore della critica  trascura che l’ammortamento è fenomeno di altra natura, peraltro limitato al mondo delle imprese, che non assorbe certo senza residui quello ben più ampio dei titolari di diritti e obbligazioni di natura pecuniaria. Semmai, l’ammortamento confermerebbe proprio l’obbligo del riconoscimento della rivalutazione, perché quel fenomeno rappresenta la riduzione di valore del bene, ma in quanto ha probabilmente fruttato – per l’impresa stessa e non per un debitore – utilità nei processi produttivi ben più del tasso di interesse sul costo del capitale per acquisire il bene, e, a prescindere dalle quote annuali di ammortamento sul valore storico “a libro”, quei beni possono anche aumentare di valore, proprio perché durevoli e non di consumo, quindi idonei a recuperare automaticamente la svalutazione. Ciò emerge nel momento della vendita, che può riservare un corrispettivo superiore al residuo valore da ammortizzare. La prova dell’inconferenza del richiamo all’ammortamento si trova anche nella frequenti leggi di rivalutazione monetaria dei beni stessi. 4. PROPOSTE DI CHIARIMENTO.

Non si vuol tentare nuove proposizioni su un problema che interessa da anni studiosi di ordinamenti giuridici del mondo occidentale, ma si ritiene che la dottrina, di matrice preminentemente giuridica, non abbia sempre considerato le componenti economiche. Riteniamo invece che il problema possa trovare una più soddisfacente collocazione nell’ambito di una teoria, che tentiamo di definire “contrattualista”.

Riprendiamo il concetto di debito pecuniario e riportiamolo al suo significato etimologico di debito in denaro, cioè in una valuta avente corso legale, forzosamente liberatorio. Superiamo anche la distinzione tra obbligazioni pecuniarie e obbligazioni monetarie , poiché, nella realtà socio-economica dei nostri tempi, in cui la penosa mancanza dei pezzi divisionari ha reso moneta persino il biglietto filoviario, non avrebbero senso (almeno non lo avrebbero davanti al giudice) obbligazioni che debbano essere assolte in un certo numero di sottomultipli o di multipli della valuta-base.

Prendiamo le mosse dalla primigenia e più semplice delle obbligazioni, quella contrattuale , e verifichiamo il processo genetico del sorgere dell’obbligazione di Tizio verso Caio. Tizio orienta la sua capacità contrattuale, secondo l’intelligenza naturale che è nell’homo oeconomicus prima ancora che nella scienza economica, tenendo conto delle utilità che gli potranno derivare alla scadenza dell’obbligazione. Se in un’economia di baratto non soggetta a oscillazioni, ma con regime vincolistico per i prefissati valori delle obbligazioni, egli sarebbe disposto a quantificare il suo rapporto di credito in 100 unità di misura di grano dopo cinque anni, qualora egli preveda, per normale possibilità previsionale, che nel successivo quinto anno vi sarà notevole abbondanza di produzione granaria e quindi offerta di grano sul mercato, egli imporrà o un più breve termine di scadenza, per esempio al 3° anno, quando ancora non sono previste crisi di sovraproduzione, oppure pretenderà un aumento del valore nominale del suo credito, per esempio a 130 unità, in modo comunque da lasciar invariato il potere di acquisto della sua futura disponibilità. Si noti che l’impostazione non verrebbe inficiata da incapacità o impossibilità previsionale di Tizio, né da una predominante forza contrattuale di Caio.

Basta pensare Tizio nella sua possibilità contrattuale, anche solo astratta. È chiaro che Tizio è stato posto in grado nel momento genetico-negoziale dell’obbligazione di programmare e gestire il suo rischio di future utilità, cioè del potere di scambio o di acquisto del risultato valutario del suo credito.

Nel momento negoziale conta che il creditore, nella sua scelta libera pur nel confronto con quella della controparte, sia in grado di creare quel rapporto interdipendente causa-effetto tra aestimatio (valutazione) e taxatio (liquidazione), che genera l’obbligazione nella sua definitiva misura di valuta espressa in un multiplo o sottomultiplo di unità di un bene, parametricamente scelto come modulo di valore. E se in economie evolute il modulo è una moneta a corso forzoso, tendenzialmente instabile, con rischio di perdita di potere di acquisto, avremo una situazione non dissimile da quella del baratto prima ipotizzata.

Si tratterebbe della tipica obbligazione di valuta, pecuniaria e soggetta al regime vincolistico del principio nominalistico, la cui esistenza, assieme alla misurazione del rischio di oscillazione del potere di acquisto al tempo della scadenza, ha influito sulla volontà dei contraenti nel momento della composizione del rapporto aestimatio-taxatio.

Se il prototipo sopra definito può essere ritenuto un modello soddisfacente, pur nella sua astrattezza di standard, cui però si avvicinano con varie distanze e sfumature i comportamenti normali, possiamo ritenere accettabile l’esistenza di un vincolo nominalistico, garante della certezza delle misure delle obbligazioni e quindi della certezza del diritto. E, posto anzi che il vincolo sia preesistente, dobbiamo difendere come equo il principio nominalistico, perché i contraenti ne hanno potuto tener conto nel momento genetico del loro rapporto .

Ma se il modello è soddisfacente cerchiamo di riportare a esso tutte le altre categorie di obbligazioni.

Esaminiamo quelle obbligazioni che la dottrina e la giurisprudenza, con esperimenti ritenuti non soddisfacenti, ha dichiarato di valore o, per essere al momento della loro formazione illiquide o derivanti da fatto illecito o in denaro solo per relazione di equivalenza; raggruppiamole in un’unica categoria sotto la provvisoria etichetta di obbligazioni non contrattuali. La loro caratteristica comune è la mancanza nel creditore della possibilità di imprimere la sua volontà al rapporto di interdipendenza aestimatio-taxatio nel momento genetico o, nel caso di quelle che si traducono in danaro solo per relazione di equivalenza, per aver potuto applicare il rapporto a un termine parametrico diverso dalla moneta, con cui verrà soddisfatta invece l’obbligazione.

A ben osservare non è importante la mancata coincidenza fra il momento della valutazione e quello della liquidazione, ché, se così fosse, si ricadrebbe nella insufficiente teoria della illiquidità , ma è determinante la sottrazione al creditore della libera scelta della programmazione della gestione del rischio di alterazione delle utilità di quel bene, che dovrà accettare come mezzo di soddisfacimento della sua obbligazione. E poiché si deve ipotizzare che al modello di homo oeconomicus, cui il nostro comune riferimento ci porta, si sarebbe adeguato il creditore della nostra civiltà, le istituzioni giuridiche della stessa, che a quella libertà di programmazione mancata si debbono sostituire, non possono negarle le surrogazioni che riportino l’obbligazione definita di valore nel modello delle obbligazioni di valuta tipicamente a libera formazione.

In presenza di svalutazione, il concedere al creditore per obbligazione di valore l’integrativo dell’aggiornamento del modulo, diventa un surrogato per far coincidere la taxatio con l’aestimatio nel loro rapporto non tanto temporale quanto interativo e ciò a prescindere dal soggetto che effettuerà l’aestimatio, che potrebbe anche essere un giudice.

Poiché la valutazione di quel rischio sarebbe stata in ipotesi una manifestazione di libertà negoziale del creditore, che avrebbe anche potuto scegliere liberamente di trascurarla, diventa anche essenziale che il creditore per obbligazione di valore ne richieda espressamente a termine di decadenza l’applicazione successiva, poiché il silenzio nella fase della liquidazione, sganciata dalla valutazione, potrebbe avere il valore giuridico di disponibilità negativa del diritto; disponibilità negativa che per incapacità o per volontà può manifestare il creditore dell’obbligazione di valuta a base contrattualistica da noi ipotizzata .

Perdono pertanto il loro significato tradizionale le distinzioni di obbligazioni di valuta e obbligazioni di valore, a nostro avviso meglio sostituite e per aree evidentemente diverse, dalle definizioni di contrattuali e non contrattuali.

Il criterio discriminatore sopra proposto potrebbe soddisfare la esigenza di assorbire nella seconda definizione le obbligazioni di valore e di valuta, o apparentemente tali, assoggettabili alla rivalutazione.

Infatti i debiti di valore, con la sola condizione della proponibilità della rivalutazione a impulso di parte e della censura di ultra petita per il caso della adozione ex officio, entrerebbero nella categoria per tutti i motivi sopra detti, come pure vi entrerebbero quei maggiori debiti apparentemente di valuta, ma in realtà di valore, derivanti dalla applicazione del II comma dell’art. 1224 c.c. In quest’ultimo caso, a una obbligazione di valuta, sorta con il rapporto genetico innanzi descritto e per il termine contrattato, se ne aggiunge una nuova, data dal risarcimento per il maggior danno derivante al creditore dal superamento di quel termine, che era stato il parametro per la programmazione della gestione del suo rischio. Tale maggior danno non ha natura contrattualistica, appunto perché uscendo dalla ponderabilità  del creditore questi non ha potuto farne oggetto di valuta o, meglio, di valutazione.

Il principio della prevedibilità trova peraltro affermazione nel nostro ordinamento all’art. 1225 c.c. Condizionare la concessione della rivalutazione a richiesta è, peraltro, un principio già accolto dalla giurisprudenza  ed è ulteriore motivo di omogeneità con l’altro gruppo delle obbligazioni che compongono la categoria delle obbligazioni pecuniarie non contrattuali.

L’esigenza di un’unificazione in uno schema comune delle obbligazioni pecuniarie di valore e di valuta, almeno per le questioni di rivalutazione e calcolo degli interessi, era già stata avanzata nel mio precedente studio del 1976, citato in note.

L’esigenza è prospettata anche da autori di articoli posteriori .

Tra le obbligazioni, che meriterebbero una diversa classificazione secondo i principi sopra esposti e contro la dottrina e giurisprudenza correnti, che le considerano di valuta con quanto ne consegue per la rivalutazione , dobbiamo includere quelle derivanti dalla “liquidazione della quota del socio uscente”. L’art. 2289, cod. civ., prevede al comma 1, che il socio, nei cui confronti si scioglie il rapporto sociale, o i suoi eredi: “…hanno diritto soltanto ad una somma di denaro.” È bastata questa espressione comprendente il termine “denaro” per avvalorare la tesi che sia obbligazione di valuta, nonostante il comma 2 ne riferisca il valore a una situazione patrimoniale della società, liquidabile solo successivamente all’evento, spesso in via giudiziale o arbitrale, confermando, così, che l’obbligazione è priva del carattere nominalistico, tipico delle obbligazioni di valuta. Ma, a ben considerare, un conto è il mezzo di estinzione dell’obbligazione (“una somma di denaro”) e altro è la sua natura.

Tutto il diritto societario è improntato alla difesa dell’unità produttiva per il suo interesse sociale e, quindi, a una preferenza della società rispetto ai soci. Ovvio che il legislatore si sia preoccupato di impedire lo smembramento dell’azienda, tutelando il diritto del socio a ottenere, non beni materiali, che nella fattispecie sono fattori della produzione, ma un equivalente monetario.

Quindi, la norma è stata posta a tutela della società e non può cambiare la natura dell’obbligazione, in cui la taxatio è disgiunta dall’aestimatio per necessità di valutazioni anche complesse.

Bastano queste constatazioni per stimolare dubbi sulla classificazione corrente di queste obbligazioni, che meglio starebbero tra quelle di valore, o in una riclassificazione con nuove categorie più adatte alla evoluzione anche dinamica dei rapporti socio-economici.

Dottrina e giurisprudenza dovrebbero attivarsi per proposte innovative, almeno per questo tipo di obbligazioni.

***

L’analisi sin qui condotta ha avuto lo scopo di rispondere alla domanda: quando va operata la rivalutazione.

Resta ora da esaminare l’altra: “come va eseguita”, da proporre però in due momenti: la scelta degli indici e la metodologia contabile.5. SCELTA DEGLI INDICI DI RIVALUTAZIONE.

Nonostante le incertezze sulle teorie giuridiche, che propongono l’area di applicabilità della rivalutazione, è invece pacifica la determinazione del momento in cui va riferito il fenomeno della svalutazione. Tale momento coincide con quello della liquidazione , ovviamente con termine parametrico iniziale: il momento in cui sé verificato il sorgere della obbligazione cosiddetta di valore o è scaduta la obbligazione cosiddetta di valuta con successivo ritardo generatore di danno.

Non va trascurato che il momento della liquidazione, cui riferire la svalutazione dovrebbe essere, per logica, quello più vicino alla presunta estinzione della obbligazione e, pertanto, si assimila a quella genesi normale delle obbligazioni cosiddette di valuta, in cui la programmazione della gestione del rischio nella libera determinazione del creditore si sviluppa mediante il processo causa-effetto, di interdipendenza tra aestimatio e taxatio in reciproca correlazione.

Nelle obbligazioni a normale genesi contrattuale, infatti, la liquidazione è da ritenere riferita al momento della estinzione, senza superarla, perché diversamente non avrebbe senso, o quanto meno applicazione, la norma del II comma dell’art. 1224 c.c.

Tale coincidenza è nelle obbligazioni non contrattuali solo tendenziale, anche se non è impossibile che il calcolo venga riferito (liquidazione) alla data presunta di estinzione. Tale è il normale iter logico seguito dal creditore nella valorizzazione del suo credito, che non è impedito nella sede extra-contrattuale, anche per il motivo che in tutte le obbligazioni pecuniarie di valore esiste un momento in cui diventano di valuta, tale essendo in concreto la conclusione di tutte le obbligazioni pecuniarie.

Solo al giudice, per le costrizioni delle fasi del rito, è tecnicamente impedito di far coincidere il momento della liquidazione con quello della estinzione, che potrà seguire solo dopo l’assestamento del giudicato. Definito quindi il momento, resta da esaminare la scelta dell’indice di rivalutazione.

Non esiste dottrina sull’argomento, perché trattasi di problema strettamente tecnico e di merito più che di legittimità, pertanto lasciato al giudice più che al giurista. La giurisprudenza ha riprodotto nella scelta degli indici la dicotomia delle obbligazioni di valore e di valuta. Per la prima categoria è stato proposto frequentemente il riferimento agli indici dei prezzi al consumo calcolato dall’ISTAT per le famiglie di lavoratori subordinati , altre volte a numeri indici di prezzi all’ingrosso e comunque sempre a parametri generali, anche se settoriali.

Per la categoria delle obbligazioni di valuta, cui faccia seguito il maggior danno per il ritardo di adempimento ex art. 1224, II comma, c.c. nonostante tale maggior danno sia pur sempre, a mio avviso, un’aggiuntiva obbligazione di valore, la giurisprudenza ha proposto parametri differenti rispetto al caso precedente. Tale atteggiamento non è a nostro avviso incoerente, poiché deriva invece dal fatto che il creditore, che pretende la rivalutazione a titolo di risarcimento del maggior danno ex art. 1224, II comma, c.c., è gravato, rispetto al creditore di obbligazione cosiddetta di valore, di un onere di prova di danno identificato, che non può non influire sul giudice, che quella rivalutazione concede.

È quindi questione più processuale che sostanziale e il giudice, che debba accettare la prova del maggior danno dovuto a ritardo di esazione, impostata, per esempio sull’impossibilità del creditore di acquistare un determinato bene reale, non dovrà senz’altro utilizzare gli indici generali del potere di acquisto della moneta, o del costo della vita, nei vari tempi da considerare, ma dovrà riferirsi all’indice parametrico di quello specifico impiego .

6. METODOLOGIA CONTABILE

Gli indici scelti devono poi essere inseriti nei calcoli di rivalutazione che danno la liquidazione finale.

Il problema è strettamente contabile, ma in termini che, come si vedrà, possono non risultare del tutto semplicistici.

La giurisprudenza ha riprodotto anche nella metodologia contabile la dicotomia rilevata a proposito della scelta degli indici fra obbligazioni cosiddette di valuta e di valore.

Per le prime è stato stabilito il principio  che, allorché la rivalutazione è concessa ex art. 1224, II comma, c.c. per il mancato acquisto di un dato bene reale, se al giudice riesce possibile determinare il valore monetario di quel bene al tempo dell’adempimento tardivo, il risarcimento deve essere stabilito nella differenza tra il valore trovato e la somma dovuta.

Per le seconde è stato stabilito l’altro principio , in presenza di rivalutazione di somma capitale e interessi compensativi, che il calcolo può essere operato con indifferenza di risultati sia che si calcolino gli interessi sulla somma capitale già rivalutata, oppure si operi la rivalutazione sulla somma risultante dal conglobamento del capitale con gli interessi. Però, come si è già rilevato, all’indifferenza matematica non corrisponde quella del giurista, perplesso che gli interessi possano essere rivalutati, mentre gli sembra più accettabile che il capitale rivalutato possa generare interessi.

Per dimostrare l’identità del risultato matematico dei due metodi contabili, facciamo ricorso all’esempio sotto riportato, però avvertendo che lo scopo è esclusivamente tecnico e dimostrativo. Infatti, nelle obbligazioni di “valuta”, la rivalutazione monetaria potrebbe essere concessa con dispositivi giuridici che non consentono un aggiornamento del modulo con pari precisione, mentre nelle obbligazioni “di valore” costituenti “equivalente” per danno da fatto illecito potrebbe non esistere una movimentazione così frequente e dinamica, quale è esposta nell’esempio, anche se non bisogna dimenticare che, in relazione alla ricordata giurisprudenza, la rivalutazione monetaria deve essere aggiornata a ogni grado di processo fino al suo passaggio in “cosa giudicata”. Se il giudice di appello confermasse nel 2000 la debenza di 100 in linea capitale per danno da responsabilità civile automobilistica vericatosi nel 1980 a fronte del quale il giudice di primo grado avesse stabilito una provvisionale versata in 60 nel 1990, avremmo un caso che rientra nell’esempio.

Tizio doveva a Caio nel 1965 la somma capitale di L. 1.000.000, che corrisponde invece dopo dieci anni con interessi compensativi del 7%. Qualora venga consentita la rivalutazione del 40%, Tizio dovrà pagare ad estinzione la somma di L. 2.380.000, indifferentemente determinata con:

((1.000.000+(1.000.000*7*10/100))+40/100*((1.000.000+(1.000.000*7*10/100))=2.380.000

oppure con:

((1.000.000+(40*1.000.000/100))+((1.000.000+40*1.000.000/100)*7*10)/100)=2.380.000

Ma il caso esaminato dalla giurisprudenza, che ha suggerito tale affermazione metodologica, è purtroppo semplicistico, anche perché, prendendo in considerazione il potere di acquisto della moneta nei soli momenti della scadenza dell’obbligazione e della liquidazione, non si pone il problema delle oscillazioni del suo valore nel periodo intermedio, che non è mai costante.

In realtà nel periodo intercorrente tra la scadenza dell’obbligazione e il momento della liquidazione il debitore potrebbe aver versato acconti in attesa della determinazione finale dell’obbligazione.

Il problema subisce allora le complicazioni:

a) dell’inserimento degli acconti nel processo svalutativo, per reciprocità di trattamento o, se si preferisce, perché l’acconto ha ridotto il danno di svalutazione del creditore nella misura della differenza tra il potere di acquisto della moneta alla scadenza dell’obbligazione e quello al tempo dell’acconto e in rapporto all’ammontare di quest’ultimo ;

b) del rispetto della regola dettata dall’art. 1224 c.c., secondo cui i pagamenti vanno imputati prima agli interessi che al capitale;

c) della applicazione alle singole partite contabili degli indici di svalutazione rilevati alle relative scadenze .

L’impostazione del calcolo comporta la necessità di determinare gli interessi sulle partite di capitale, e l’imputazione degli acconti agli interessi e l’eventuale eccedenza al capitale, influenzandone la produzione di interessi per il periodo successivo. Si tratta praticamente di considerare le variazioni al caso, teorico se l’obbligazione deve essere ancora determinata nel suo preciso ammontare, di un debitore che, versando acconti in misura eguale agli interessi maturati, lascia invariata la somma capitale.

È importante notare che il problema è proponibile, con identità di soluzioni e di metodologie contabili, per le cosiddette obbligazioni indicizzate, nelle quali la sequenza di indici di svalutazione a valori erratici e la misura di acconti a scadenze determinate sono normalmente clausole contrattuali.

Il procedimento contabile più adatto è da individuare nel metodo scalare a tasso reciproco e a forma scalare.

Proponiamo il seguente esempio:

Tizio è, o è diventato, debitore della somma di L. 10.000.000 all’1 gennaio 1965, ha versato acconti di 3.000.000 l’1 gennaio 1968, L. 200.000 il 30 giugno 1968 e L. 2.000.000 l’1 gennaio 1970; sono dovuti gli interessi compensativi del 7%. L’obbligazione è da estinguere il 31 gennaio 1974 tenendo conto dei seguenti indici

gennaio 1965 = 100;

gennaio 1968  =  130;

giugno 1968 = 128;

gennaio 1970 = 145;

dicembre 1974 = 200.

La determinazione del saldo dell’obbligazione può essere così proposta

PROSPETTO A

Valuta

Descrizione

Capitali

Giorni

Interessi

Interessi progressivi

Capitale base

Acconti

Interessi

Capitale indicizzabile

Indici

Capitale indicizzato

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

(7-8+9)

1.1.65

obbligazione

10.000.000

1095

2.100.000

2.100.000

10.000.000

2.100.000

12.100.000

130:100

15.730.000

1.1.68

acc..3 milioni

900.000

2.100.000

_______

1.1.68

residuo

9.100.000

181

315.882

315.882

15.730.000

3.000.000

315.882

13.045.882

128:130

12.845.176

30.6.68

acc. 200 mila

200.000

115.883

________

30.6.68

residuo

9.100.000

549

958.117

1.074.000

12.845.176

200.000

1.074.000

13.719.176

145:128

15.541.254

1.1.70

acc. 2 milioni

926.000

1.074.000

________

1.1.70

residuo

8.174.000

1825

2.860.900

2.860.900

15.541.254

2.000.000

2.860.900

16.402.154

145:200

22.623.660

31.12.74

capitalizz. inter.

2.860.900

________

31.12.74

obblig. non rivalutata

11.034.900

_________

31.12.74

obblig. rivalutata

22.623.660

Come si può osservare il metodo e la forma scalare rendono evidente il trascinamento del valore della obbligazione da una scadenza significativa alla successiva, aggiornandola secondo gli indici di svalutazione rilevati a ognuna.

Il metodo offre il vantaggio del riscontro dell’andamento relativo e assoluto dell’obbligazione nel tempo ed è traducibile in grafici di visiva evidenza.

Ma si possono proporre metodologie più intuitive, derivate dal noto procedimento diretto del calcolo degli interessi. Anziché il trascinamento del saldo variabile dell’obbligazione da una scadenza significativa alla successiva e così fino alla data di liquidazione (coincidente o no con quella di estinzione), si può proporre l’indicizzazione dell’obbligazione originaria fino alla data di liquidazione finale, a cui aggiungere o sottrarre acconti e interessi indicizzati con gli stessi parametri dalla loro valuta fino alla data di liquidazione finale.

Nel nostro caso avremmo il seguente schema contabile:

PROSPETTO B

1.1.65

1.1.68

30.6.68

1.1.70

31.12.74

+ 10.000.000

– 3.000.000

– 200.000

– 2.000.000

+ 2.100.000

+ 315.882

+ 1.074.000

+ 2.860.900

200/100

200/130

200/128

200/145

+ 24.200.000

– 4.129.412

+ 1.365.625

+ 1.187.447

= 22.623.60

Come si osserva, il risultato matematico della liquidazione finale è sempre identico e la scelta della metodologia è più che altro determinata da preferenza di forma, anche perché è comune ai due calcoli di aggiornamento rivalutativo uno schema di determinazione degli interessi a metodo scalare formato dalle prime sei colonne del prospetto A.Infatti la necessità di applicare la norma dell’art. 1194 c.c. costringe alla scelta del metodo scalare, secondo i termini della computisteria e della tecnica bancaria.

A me pare che la metodologia sopra espressa, come ho nell’articolo del 1976, mantenga la sua attualità, tanto più dopo la sentenza Sezioni Unite, n. 1712. Infatti, prescindendo dai valori dei tassi di interesse e di rivalutazione, il metodo di calcolo che aggiorna il credito nella parte patrimoniale (danno e capitale) e nella parte economica (interessi), non può creare overcompensation o, per dirla con la corte bresciana, di locupletazione, perché il trascinamento dei valori aggiornati senza capitalizzazioni, da una data alla successiva, in cui risultano modificati gli indici e i tassi, evita anche rischi di anatocismo. Infatti, chi dispone di un capitale pecuniario, equivalente a quello in natura perito, è in grado di gestirlo “normalmente” con difese di capitale (copertura inflazionistica) e di economicità (interesse), con possibilità che devono costituire parametro di riferimento per il liquidatore del credito equivalente e, ovviamente, dalla data di consumazione dell’illecito fino alla data della liquidazione finale, che la sentenza n. 1712, ipotizza anche nella eventuale sentenza di rinvio.

Posto che il metodo è corretto, si possono semmai fare due osservazioni:- la soluzione per equivalente potrebbe non rappresentare ciò che avrebbe deciso il creditore, se avesse avuto la disponibilità della somma. Questa è la critica già ricordata in precedenza. Ma, se si entra in questo tipo di ipotesi, peraltro non prive di richiami psicologici, ammessi nel diritto penale non nel civile, non esiste più alcun argine alla arbitrarietà anche fantasiosa del liquidatore. Invece, il giudice non può far altro che sostituire a una situazione reale, costituita dagli effetti dell’illecito, una situazione astratta costituita dall’equivalente, che diventa a sua volta reale, se la si parametra all’ipotesi standard o all’apprezzamento per presunzioni, che consentono la concreta determinazione della somma dovuta. D’altra parte, che cos’è la presunzione giuridica dell’art. 2727 cod. civ., se non un’ipotesi di accadimento di natura probabilistica, che oscilla dalla certezza (presunzione assoluta) a quella variabile della presunzione semplice?

– può essere criticabile e anche errata la soluzione adottata dalla pratica di applicare un coefficiente medio di inflazione costruito con la “media semplice” invece della ponderata e un tasso di interesse unico in misura pari a quella corrente nel momento della liquidazione finale, con danno per il creditore nel caso di discesa dei tassi (per esempio: il 3,5% annuale, ma con precedenti del 10%) e viceversa per il debitore nel caso opposto di risalita rispetto a data recente. Ma questa è proprio la preoccupazione delle Sezioni Unite espressa nella sentenza n. 1712, che si intende superare con l’applicazione di tassi articolati e modulati nei tempi storici delle loro varie espressioni da parte del mercato.

A questo punto si impone un’altra osservazione sulla metodologia di calcolo. Il giurista, proprio per la sua formazione mentale e per la cultura che, privilegiando l’elasticità del concetto disdegna il meccanicismo del calcolo, spera di trovare una soluzione facilitata prendendo formule proposte dai matematici o dai computisti. Un po’ come l’apprendista cuoco che si avvale del ricettario. Lo scopo è quello di una facile sostituzione di lettere, più o meno greche, presenti nelle formule, con i valori effettivi della fattispecie in questione, magari senza conoscere lo sviluppo logico che sta all’origine delle formule stesse. Lo scopo è un “fai da te”, tra avvocati delle parti vittoriose e soccombenti. Però il rischio di errore o di distorta interpretazione è notevole, a parte gli errori di stampa nelle formule ricorrenti, che nemmeno si possono agevolmente correggere per intuizione, come si evince dalle fonti citate alla nota n. 20. Il pregevole commento alla sentenza Corte di cassazione 20 novembre 1991, n. 12432,  riporta un tentativo di formula finale, che a mio avviso non risolve il problema e, comunque, lascia dubbi sulla correttezza dei calcoli, perché non rivela la logica del metodo, soprattutto in chi non è in grado di conoscere o di controllare i passaggi anteriori all’espressione finale.

A mio avviso è opportuno tralasciare formule sintetiche, per lo stesso motivo che un conto corrente bancario non si può tenere con una unica formula riassuntiva finale, ma seguendo passo passo l’avanzare e il mutare di capitali e tassi. Allora, bisogna adottare, come già detto, lo stesso metodo usato dalla tecnica bancaria per la tenuta dei conti correnti, con esclusione della capitalizzazione periodica degli interessi per non cadere nel vizio di anatocismo.

7. OSSERVAZIONI SUGLI ASPETTI CONTABILI DELLA SENTENZA CASSAZIONE N. 1712

La sentenza n. 1712 espone chiaramente l’intento del giudice nell’evitare, sia per gli interessi e sia per la rivalutazione, il rischio di una qualche forma di anatocismo vietato dall’art. 1283 c.c., ma non è detto che, nonostante le dichiarazioni, l’anatocismo si verifiche in modo indiretto in sede di calcolo. Invece, l’anatocismo è sicuramente evitato con la metodologia contabile esposta nel precedente capitolo 6. Infatti, portare i capitali da un momento al successivo sulla linea del tempo entro la quale il rapporto dalla scadenza al pagamento si svolge con un metodo per saltum garantisce che non vi è capitalizzazione alla fine di nessun periodo intermedio. Non è da escludere che questa fosse la vera intenzione dell’estensore della sentenza n. 1712, date le premesse da cui si dispiega. Pare determinante rilevare che si ha anatocismo tutte le volte che, come nel caso delle aperture di credito bancarie, gli interessi vengono aggiunti al capitale a una scadenza annuale, dopo la dichiarazione di illegittimità delle capitalizzazioni infrannuali. Ma, il trascinamento dei saldi senza capitalizzazione esclude quel rischio. Si potrà discutere, con l’estensore della sentenza n. 1712, se interessi e rivalutazioni possono costituire una duplicazione, che, però, è cosa diversa dall’anatocismo.7.1 equità e discrezionalità

Il tempo che scorre non invecchia solo le persone, ma anche i capitali, sia quando sono l’aspetto materiale di un rapporto originario (obbligazione di valuta), sia quando sono l’equivalente di una perdita di utilità non pecuniarie e non ripristinabili (obbligazione di valore). È ovvio che, se il valore del modulo monetario peggiora nel tempo, il creditore subisce un danno patrimoniale qualunque sia l’origine del rapporto. Può essere saggio ammettere che i rapporti che nascono pecuniari abbiano avuto un loro regolamento tenendo conto del rischio di scivolamento della moneta e che l’obbligazione a scadenza incorpori già – in una qualche misura o la escluda per volontà di alea – l’aggiornamento, talché riconoscere una rivalutazione alle obbligazioni di valuta possa costituire un rischio di duplicazione rispetto alle valutazioni originarie e incorporate nel valore nominale dell’obbligazione. Ma se si può dare per certo, come nel caso del mancato adempimento oltre che per danno da fatto illecito, che la libera determinazione dei contraenti non può aver consentito di tener conto del rischio, allora il mancato riconoscimento della rivalutazione nella sua misura corretta rilevata dalla statistica determinerebbe una locupletazione a favore del debitore. L’equità del giudice, se si vuol parlare di scelte equitative dei parametri, dovrebbe consistere nel non consentire, se non per legge, almeno per logica e giustizia, di scendere sotto il dato statistico. La svalutazione monetaria, rilevata con le tecniche attuali, ben più raffinate e, quindi, ben più sicure di quelle correnti alla data di formazione del nostro codice civile, dovrebbe costituire un pavimento sotto il quale nemmeno il giudice dovrebbe scendere.

7.2 La locupletazione può essere a favore del debitore. La sentenza 21 marzo 2001, n. 361, della Corte d’appello di Brescia

Come si è anticipato al § 3.4, se la sentenza della corte bresciana avesse disposto la rivalutazione secondo gli ordinari e consolidati criteri, il risultato del calcolo, applicando la metodologia contabile riportata nel § precedente, avrebbe consentito la determinazione di un credito finale globale liquidato il 30 giugno 2001 in Lit. 265.454.796, comprensivo di interessi e rivalutazione, per un danno di 110 milioni risalente al 30 settembre 1993, impiegando nel calcolo gli interessi legali secondo i vari saggi succedutisi nell’intervallo temporale e secondo tassi di rivalutazione in base ai numeri indici ISTAT dei “costi della vita per famiglie di operai e impiegati”.

Applicando, invece, la strana mediazione di valori disposta nel timore di “locupletazione” il risultato è stato di Lit. 203.036.921, impiegando gli stessi indici di interesse e rivalutazione.

Se il debitore, in questo caso una compagnia di assicurazione, nella previsione di soccombenza, avesse prudentemente investito la somma di 110 milioni il 30.9.1993, al tasso del 9% (il saggio legale è stato il 10% per 1207 giorni su 2849) in investimento finanziario a capitalizzazione degli interessi e delle cedole al 31 dicembre di ogni anno e ignorando del tutto la rivalutazione monetaria, condizioni queste da “incapace” della finanza, quale certo non è un assicuratore, avrebbe avuto disponibile il 30 giugno 2001 un montante di Lit. 215.905.651, cioè superiore al risarcimento complessivo di Lit. 203.036.921.

Si può notare che lo scarto tra le due liquidazioni è di Lit. 62.417.875 a danno del creditore. Nessuna critica sulla scelta del giudice di far ricorso a criteri equitativi, perché, secondo la sentenza 4.10.1999, n. 11021, citata, il giudice ne ha facoltà. Al limite si potrebbe persino sostenere che il numero zero rientra nell’equità, anche se sarebbe una ben strana applicazione di questo concetto metafisico. Invece, ciò che pare poco condivisibile è la motivazione dell’equità, che nella fattispecie sarebbe l’intento di evitare una “locupletazione” del creditore, il che è già una contraddizione. Infatti, dire che a Tizio spetta 100 perché è equo vuol dire esprimere un giudizio che prende in considerazione diretta un rapporto tra un danno e il suo “equivalente”; dire che è 100, perché diversamente il creditore si arricchirebbe troppo implica un giudizio che non è più legato al danno, ma alle condizioni generali del danneggiato. Disporre 100 a favore di un creditore straricco impedisce di parlare di locupletazione, ma se si tratta di un povero si finisce per parlare di furto, il che è proprio l’opposto dell’equità. Vero è che nella fattispecie il danno aveva provocato la morte dell’assicurato e gli eredi hanno percepito l’equivalente ridotto per presunto rischio di “locupletazione” otto anni dopo l’evento mortale. Id quod aequum et iustum est!

Pietro Bonazza