L’incipit del Vangelo di Giovanni, tradotto in «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio», nella parola “Verbo” (in latino “Verbum”) racchiude un significato teologico di rara sintesi e in greco, lingua in cui quel Vangelo fu scritto, il termine è Logos. È chiaro che Logos è sinonimo di Dio Creatore; ma, come avverte Girolamo nella Epistola LIII a Paolino: logos in greco, vuole significare molte cose, tra cui «verbo, ragione, computo (ratio), causa di ogni cosa». Ora, siccome Dio è la causa di ogni cosa, ergo: Logos significa anche Dio e non c’è contraddizione con il significato che l’evangelista Giovanni attribuisce al termine. Anzi, siccome la creazione è un atto sapienziale, Logos vuol dire anche Sapienza di Dio, cioè Dio, che si manifesta attraverso un afflato (il Fiat della creazione), cioè lo Spirito Santo, ecco che Giovanni, scrivendo che il Verbo (cioè il Cristo) era presso Dio, riesce a includere nel Logos l’essenza Trinitaria.

Qui non intendo fare escursioni teologiche, che non sono nelle mie possibilità, e ancor meno filologiche, ma ho bisogno di una premessa per una riflessione su Dante Alighieri e la Divina Commedia. Dio (JAHVÈ) non si rende visibile nemmeno a Mosè, che ne sente la parola, ma non ne ha la visione, come si evince dall’episodio del “Roveto ardente” (Esodo, 3,1). Ma, perché si dice che Dio è invisibile? Bisognerebbe dire che Dio come oggetto di visione non è visibile alla creatura uomo, perché questi non ha la facoltà di vederlo, cioè è limitato. Ma, perché è limitato? Perché è reso imperfetto dalla sua natura di peccatore, dopo la cacciata dall’Eden.

Osservo che Adamo, dopo essere uscito dalle mani di Dio, evidentemente nel Paradiso del Creatore, è collocato nell’Eden e poi precipitato nell’inferno della matrigna Terra. Ora, Dante raggiunge il Paradiso, cioè il luogo ove il Logos creò l’Universo e, infine, nel sesto giorno, l’uomo.

Il nuovo Adamo, cioè Dante, ha il dono che non toccò nemmeno a Mosè e fa il cammino inverso rispetto a quello del vecchio Adamo: parte dall’Inferno (il peccato), attraversa il Purgatorio (la purgazione nel Lete) e, passando per l’Eden ormai vuoto, petrviene al Paradiso dove, per intercessione di San Bernardo e della Vergine Maria, vede Dio in forma di Luce: un punto luminoso, un aleph. Sappiamo che è un’allegoria, ma è di tale potenza che sembra vera e reale. Nelle due terzine del Canto XXXIII del Paradiso (97-105) leggiamo:

Così la mente mia, tutta sospesa,

mirava fissa, immobile e attenta,

e sempre di mirar faceasi accesa.

 

A quella luce cotal si diventa,

che volgersi da lei per altro aspetto

è impossibil che mai si consenta;

e nelle due terzine 109-114

Non perché più ch’un semplice sembiante

fosse nel vivo lume ch’io mirava,

che tale è sempre qual s’era davante;

 

ma per la vista che s’avvalorava

in me guardando, una sola parvenza,

mutandom’io, a me si travagliava.                                                    

Ma Dante prosegue con un’altra terzina e descrive la Trinità:

Ne la profonda e chiara sussistenza

de l’alto lume parvemi tre giri

di tre colori e d’una contenenza.

 

  La visione concessa a Dante non è un privilegio, ma un premio al redimente percorso della sua vita, che passa nel dolore della lontananza della patria ingrata. Ci sono in Dante due consapevolezze: la prima di essere nato con la destinazione a diventare quel grande poeta che sa di essere, la seconda che l’uomo non è un predestinato al mondo dei beati per sola grazia divina, come sosterranno i Protestanti più di tre secoli dopo, interpretando a modo loro un passo della Lettera ai Romani di San Paolo, ma lottando contro il proprio male umano. Per meritare il premio: accedere alla pace dei Santi, Dante deve andare oltre l’uomo (il verbo di suo conio è “trasumanare), come si legge nel verso 70, Canto I, del Paradiso:

Trasumanar significar per verba,

Sarebbe interessante poter avere elementi storici documentali su ciò che avvenne dopo, ma si è costretti ad andare per intuizione e a rimanere nel campo delle ipotesi. Dante sa che alla fine anche la luce di Beatrice, che gli fu guida nella vita e protettrice nel viaggio ultraterreno, sarà sovrastata ai suoi occhi dalla più intensa e tricolore luce di Dio. Da qui la domanda sul dopo: Dante sa che dopo il viaggio tornerà a guardare le stelle dalla Terra, cioè a tornare, come diremmo banalmente, “con i piedi per terra”, e prova un senso di abbandono, che esprime nel verso 142 dell’ultimo Canto:

A l’alta fantasia qui mancò possa.

Sa che dovrà riumanizzarsi per affrontare le vita di ogni giorno. Non potrà più pensare a Beatrice, ma dovrà proseguire da solo, avendone ormai autonome forze: si sente un redento e non potrà più cadere in colpa. Ma, forse, la verità potrebbe essere un’altra: quando Dante scrive gli ultimi canti, (forse tredici), supponiamo tra il 1320 e il 1321, ancora non noti alla data della morte e fortunosamente ritrovati, può aver intuito che la fine del poema segnava anche la conclusione della sua vita terrena e altro più non avrebbe potuto né saputo scrivere, come si intuisce dal verso 142 e questo pensiero sembra autorizzato dalla constatazione che la Divina Commedia nasconde e al tempo stesso rivela tutta la vita del Poeta e costituisce la sua potente e fedele autobiografia.

Dante si è rivelato nelle opere un sapiente, un logos personale, che dopo il viaggio sarebbe diventato il Logos di Dio: la biblica Divina Sapienza.