Verità nel tempo

 

La grande e provocatoria domanda della vita per l’uomo è: che cos’è la verità?

La parola nella lingua italiana è diretta derivazione dal sanscrito vrtta attraverso il latino veritas, che si riferisce a un fatto, a un accadimento avvenuto e non è un  calco del greco aletheia, seppur abbia egual significato ed estensione generale. L’applicazione più diffusa è nel processo giudiziale: il cuore dell’attività del giudice è la preventiva ricerca della verità, senza la quale non può esservi vera giustizia e per realizzare il fine di conoscere ciò che è accaduto, il processo prevede, in casi di incertezza, l’intervento del testimone, al quale viene chiesto di esporre la consistenza dell’accaduto mediante un giuramento introduttivo alla sua deposizione con formule di rito consolidato più o meno comuni in tutti gli ordinamenti giuridici del tipo: “giuro di dire la verità, nient’altro che la verità…”, richiamando, in alcuni casi, un tasto sacro, su cui la verità si avvalori. L’illusione è che il testimone pur posto sotto giuramento, dica veramente la verità, che, nel migliore dei casi è pur sempre una interpretazione a rischio di soggettività,  quando non deformata dalla malafede, rischio che nessun giuramento può rimuovere. Sono i limiti della giustizia umana, che si deve accettare, perché non è stato inventato niente di meglio, a meno di rinunciarvi come avviene per le assoluzioni “per mancanza di prove”.

Si potrebbe concludere con una considerazione consolatoria: l’abbinamento verità-giustizia è un tentativo di rendere oggettiva la realtà accaduta, togliendola dal nascondimento, dalla metafisica, dalla ideologia, sperando che lo sforzo si compia al più presto, perché il tempo lungo è già di per sé il fallimento della giustizia, come desolatamente si esprime Shakespeare nel monologo dell’Amleto: «…chi sopporterebbe altrimenti il flagello e le offese del tempo, l’ingiuria degli oppressori, la villania dei superbi, gli spasimi dell’amor disprezzato, le lungaggini della giustizia…?».

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Con questa premessa definitoria, possiamo citare, a ritroso temporale, tre riferimenti: Schopenhauer, Dante Alighieri e il Vangelo di Giovanni.

a) Schopenhauer, richiamando criticamente Kant, afferma che la “cosa in sé” è conoscibile se togliamo il “velo di Maya”, che la copre e la nasconde, cioè la verità la si può conoscere anche se  quel velo è in realtà una corazza, perché: «Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo: vengono ridicolizzate; secondo: vengono violentemente contestate; terzo: vengono accettate dandole come evidenti».

b) Dante Alighieri. Tutta la Divina commedia regge sul principio di verità, che è il fine del viaggio ultraterreno del più grande poeta dell’umanità, onorato da Dio con il dono della capacità profetica. Qual è il fine di Dante? Non il sapere, per non fare la fine dell’Ulisse del XXVI canto dell’Inferno, ma la conoscenza della verità, al cui servizio è posta la sua opera, come fa dire  al trisavolo Cacciaguida nel XVII Canto del Paradiso (127-129):

Ma non dimen, rimessa ogni menzogna,

tutta tua visïon fa manifesta;

e lascia pur grattar dov’è la rogna.

 

In altri termini, l’incitamento di Cacciaguida a dire sempre la verità, costi quel che costi, ponendo al suo servizio la poesia, diventa per Dante un imprescindibile dovere morale. Ma quale verità? Ogni tipo di verità: prima di tutto quel che il poeta ha vissuto e sta vivendo, nei canti finali, nella Divina Commedia. Questa ultima espressione della verità, ci introduce, con un balzo all’indietro di tredici secoli, al Vangelo di Giovanni.

c) Vangelo di Giovanni. Innanzi tutto ricordiamo che questo testo fu scritto originariamente nel greco della fine del I secolo e la parola “verità è resa con “aletheia” (testualmente: “ἀ–λήθεια”), ma con significato che va anche oltre ciò che è accaduto e accade, ma anche ciò che accadrà. Si legge in Giovanni 8,31-32

«31 Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; 32 conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».

Il Cristo fa due affermazioni: a) la conoscenza della verità, senza la quale la verità resta nascosta (sembra possibile il richiamo al “velo di Maya” di Schopenhauer, ma anche a Cacciaguida che suggerisce a Dante di far conoscere la verità); b) la conoscenza della verità, che rende liberi, cioè liberi anche di rifiutarla, in virtù del libero arbitrio, con le conseguenze già sperimentate dai progenitori della Genesi. La soluzione dell’apparente dilemma ci è offerta dal Salmo 84 della Bibbia, esprimendo la profezia sulla venuta del Messia: «Misericordia  e verità si incontreranno / giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra / e la giustizia si affaccerà dal cielo».  In termini ancora più intensi: Giovanni 14:1-6, nella cena del giovedì santo, ricorda l’affermazione del Cristo, lavati i piedi degli Apostoli:

«1 Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».
5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me…».

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Ora, è mio dovere affermare che non ho alcuna intenzione di fare il predicatore e ciò che è questione di fede non può essere commentato, però è interessante verificare il nesso logico, o meglio la sequenza logica delle tre parole: via, verità e vita. Le tre “v” non sono disposte a caso: la via è l’itinerario non seguendo il quale non si può pervenire alla verità e la verità è la fonte, la causa della libertà e la vita è vita se c’è libertà. La logica appare in tutta la sua manifestazione oggettiva ed è incontestabile nemmeno dagli atei.

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La breve disamina sopra esposta, pur nella sua parzialità, consente alcune osservazioni:

a)                  la verità umana, quando è conosciuta, è un fatto relativo a posteriori, cioè riguarda ciò che è accaduto o può essere accaduto; pertanto è sempre “verità nel tempo passato”. Essendo un “relativo”, può essere certo o solo probabile, come tale confutabile. Se dico: Napoleone è morto a Sant’Elena il 5 maggio 1815, faccio un’affermazione inconfutabile; ma se aggiungo che la causa può essere stata un avvelenamento da piombo contenuto nei tessuti e negli arazzi appesi alle pareti, entro nel “probabile”, confutabile da scoperte successive;

b)                 la verità è soggetta al rapporto causa-effetto, di cui Schopenhauer è stato sostenitore a giusta ragione; pertanto la sua scoperta può dipendere da un ragionamento deduttivo, ma anche induttivo, da cui la incertezza che in molti casi la connota;

c)                  esiste una “verità assoluta”, che sfugge al rapporto con il tempo, ma in questo caso si entra in una dimensione senza più né spazio né tempo e, allora, ci si deve porre in una dimensione teologica, che è quella descritta nel Vangelo di Giovanni ed è credibile per fede e non per ragione. Dante, nella “Divina commedia”, soprattutto nel Paradiso, ci fornisce gli strumenti non solo poetici, per una interpretazione della verità atemporale.

Resta la constatazione finale che la “verità” è la fonte di ogni azione umana. Per superarla si deve far ricorso alla “via” della speranza, che realizza la vera “verità”, che è “vita” ed è il dantesco “trasumanare”.