La sentenza 21 maggio 2001, n. 156, con cui la Corte costituzionale, immemore dei propri precedenti sull’Ilor, ha affrontato il problema dell’IRAP per i lavoratori autonomi, è un esempio di giudizio pilatesco, che, alla fine, crea più problemi di quanti ne risolva. Se il numero dei dubbi interpretativi e delle tesi delle corti di merito può essere un indicatore, si può ben constatare, a distanza di tre anni, che quella sentenza di problemi ne ha creato e continua a crearne tanti e la causa è il solito vizio italiano di rifuggire dal pragmatismo per rifugiarsi in concetti elastici. L’elasticità è essenziale nei fatti e negli atti normali, ma almeno in due campi può diventare pericolosa: nella scienza, perché è il contrario del rigore matematico su cui deve basarsi, e nel diritto, perché può innescare una serie di comportamenti discrezionali, ancor più pericolosi nel campo fiscale, dove, nonostante oneri della prova a carico dell’Amministrazione e statuti del contribuente, non esiste una situazione paritetica tra soggetto attivo e soggetto passivo d’imposta.

La sentenza 156 è stata da me criticata nell’articolo “Irap: principio di capacità contributiva e Corte costituzionale“, pubblicato nella rivista “Bollettino Tributario” n. 21 del 15.11.2002, e qui riprodotto nella sezione “Convegni e Saggi”. La mia critica si è appuntata soprattutto sul rinvio al concetto di attività “autonomamente organizzata”, che la Corte ha ripreso sic et simpliciter dall’infelice formulazione dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, senza darsi carico di alcuno sforzo interpretativo.

La conseguenza è ben nota e l’Amministrazione finanziaria, proprio sfruttando l’ambiguità e l’inadeguatezza della sentenza costituzionale, si è costruita una tesi così restrittiva che nessun professionista potrebbe in concreto risultare esonerato dall’Irap, quindi contro anche le pur ambigue affermazioni della sentenza 156. Non è tenuto in alcun conto nemmeno l’evoluzione della tecnica, per cui un professionista non avrebbe il computer se non lo si vede sul tavolo, mentre è un “disorganizzato”, se in un taschino si porta un palmare di ultima generazione più potente di un desktop. Questo per considerare che il concetto di organizzazione non solo è elastico, ma comunque è relativo persino nel tempo breve, data la velocità di evoluzione della tecnica informatica e delle telecomunicazioni. Mi riprometto di riprendere a breve l’analisi con più ampio respiro.

Intanto, è confortante constatare che la Commissione Regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha emanato la sentenza 28 maggio 2004, n. 61/65/04 (Pres. e rel. Ligorio) e qui pubblicata nella sezione “Documenti e Norme ADC”, con cui, in termini secchi, sintetici e coraggiosi, ha fatto sostanziale giustizia, escludendo che: «…il concetto di lavoro autonomo coincida con quello di autonoma organizzazione…», per concludere che: « è vero semmai il contrario, nell’ipotesi di attività professionale autonoma, che può essere esercitata soltanto dal titolare, e cioè l’impossibilità di esercitare l’attività in modo autonomo, producendo valore aggiunto direttamente connesso all’elemento organizzativo senza il professionista ».

Non essendo io, per il caso in questione, né il contribuente, né il professionista che lo ha assistito, posso esprimere un distaccato e disinteressato plauso per la sentenza bresciana, che però è anche lombarda, come si può constatare dalla conferma del principio nella sentenza 4 febbraio 2004, n. 5/9/04 della stessa Regionale di Milano, sentenza redatta dal dott. Francesco Saverio Borrelli, presidente e relatore.

(Pietro Bonazza)