Solo la Germania poteva farsi il dispetto di generare un Nietzsche, che, infatti, la disprezzò sopra ogni cosa, dalla lingua ai suoi abitanti, alla storia e alla religione. Unica consolazione per i Tedeschi: Nietzsche disprezzò anche tutti gli altri. Però, è sopportabile; basta non prenderlo troppo alla lettera; come a dire: non troppo sul serio. Insomma, comportamento non molto diverso da quello da riservare agli altri geni, che, avendo ricevuto dalla natura qualcosa di troppo in intelligenza pura, mancano di altrettanto in saggezza e talvolta in consapevolezza. Tra genio e follia non ci sono molte differenze. In Nietzsche, poi, nessuna, essendo egli clinicamente pazzo e, a mio avviso, dalla nascita e non per effetto della sifilide, che, semmai, acuì una patologia congenita. Forse, con il genio e la follia, ebbe il dono di alcuni sprazzi di preveggenza. Leggiamo nell’aforisma 411,2 della “Volontà di potenza” questa analisi: « Ciò che narro è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà avvenire in modo diverso: l’avvento del nichilismo. Questa storia può essere raccontata già ora: poiché qui è al lavoro la necessità stessa. Questo futuro già parla in cento segni, questo destino si annuncia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie già sono tese. Tutta la nostra cultura europea già da lungo tempo si muove con la tortura della tensione, che cresce di decennio in decennio, come se andasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa: come un fiume che vuole arrivare alla fine, che non si ricorda più, che ha paura di ricordare. » È probabile che Nietzsche abbia scritto questo aforisma intorno al 1888; più che una previsione: una diagnosi sui segni di una prima guerra mondiale avveniente, nonostante le diverse apparenze di una belle époque, ipocrita e ingannevole. Invece, Nietzsche non poteva pensare al nichilismo del terzo millennio, che vede trasferito · nella vita sociale: il nihil generato dalla perdita di senso conseguita alla recisione delle proprie radici culturali e · nella economia: la “volontà di potenza”. Se sul primo punto dovrebbero meditare sociologi e filosofi, sul secondo debbono riflettere gli economisti. Quanto della nicciana “volontà di potenza” si è tradotta nella corsa alla dimensione gigantesca dell’impresa, conseguita con ricorso a fusioni e concentrazioni, dietro le quali si nascondono spesso: l’ambizione smodata, la megalomania, la sete di potere e di danaro di certi manager, che, in molti casi, sbagliano pure i conti sul risultato finale e persino su se stessi, come è accaduto recentemente in certe fusioni bancarie, che hanno visto soccombere proprio i promotori? I consumatori stanno a guardare impotenti e senza godere i benefici della riduzione dei loro costi; gli azionisti di minoranza, cassettisti e fedeli, debbono accontentarsi delle briciole; i dipendenti, anche a livelli medio-alti, vengono licenziati o prepensionati; i profitti immediati possono anche aumentare, ma su quelli di medio-lungo periodo vi sono fondati dubbi e incertezze, perché annichilire esperienze e professionalità di uomini ancora efficienti non giova a nessuno e ancor meno alle società cannibalizzate. Accade anche nelle rivoluzioni, che, prima o poi, divorano i figli. Si accampano giustificazioni di vario genere, tra cui – la più ricorrente – la necessità di far fronte alla globalizzazione, che, invece, esige situazioni diverse. Vi sono alcune grosse confusioni in tutto questo. La verità non sempre viene riconosciuta, ancor meno ammessa. È il potere, che spesso spiegherebbe le motivazioni reali. Ma potere vuol dire “volontà di potenza”, vuol dire nichilismo, nemmeno nel senso di Nietzsche, perché il dionisiaco esige una cultura dell’innocenza e dell’istinto, che i gigantografi del nostro tempo non hanno o, se l’hanno avuta, ne hanno scordato il profondo e umano significato.