Premessa

Il processo tributario, riformato dal D.Lgs. 546/1992, è, per espressa dichiarazione dell’art. 1, comma 2, una specie di derivato del processo civile, del quale riprende la problematica della presunzione e degli innesti, operati dalla giurisprudenza, ricorrendo ai principi di probabilità e possibilità.

La derivazione del processo tributario da quello civile suggerisce, sul piano metodologico, un’analisi della giurisprudenza. Il problema delle connessioni tra pubblicità e prova è stato oggetto di varie pronunzie in diritto civile e conseguentemente tributario e, nonostante l’indirizzo prevalente sia in più punti criticabile, non meriterebbe nuove analisi se non fossero state emanate le recenti sentenze: Corte Cass. 15.9.2000, n. 12212 e Commissione trib. Emilia-Romagna 21.6.2000, n. 113, in tema di presunzione, e Corte Cass. 27.2.2002, n. 2892, in tema di competenza.

1. Probabilità e possibilità

 

L’interpretazione data dalla Cassazione in più sentenze all’art. 2729 c.c., applicata anche all’accertamento di imposte sui redditi con ricorso alla presunzione, è uno dei tanti esempi proponibili, che evidenziano come il concetto di probabilità, tipico della matematica, che esprime espressioni numeriche, trasferito nel mondo del diritto assuma natura indeterminata o anche solo qualitativa, nel senso che ai numeri si sostituiscono, nemmeno in modo esplicito, aggettivi qualificativi del tipo: alto o basso, grande o piccolo, ecc.

Pare evidente che la perdita della espressione numerica e l’ingresso nel campo qualitativo costituisca un rischio di discrezionalità tipico di questo, in cui la soggettività e il libero apprezzamento diventano esercitazioni di estetica, nemmeno giuridica [1].

Se tutto si limitasse a una discussione filosofica, il problema sarebbe relativo e, al limite, un divertissement. Purtroppo, applicato al mondo reale del fisco, la discrezionalità diventa la ragione del più forte.

Se si rischia di cadere nella metafisica barattata per giudizio reale, proviamo, almeno per coerenza, a partire dai concetti della filosofia.

Ora, il concetto di probabilità identifica l’apprezzamento che un certo fenomeno esista o accada. Per il filosofo, probabile è il grado o la misura della possibilità di un evento o di una classe di eventi, definizione che implica l’esistenza di un’alternativa, cioè che l’evento non sia o non sarà. La possibilità esclude la necessità, che è sempre un “è” o un “accadrà” e non un “può essere” o un “potrà accadere”. Anche il matematico afferma che la probabilità:

è la misura della possibilità, però vi aggiunge: espressa in termini numerici o percentuali;

ha un ventaglio di valori, che vanno da maggiore di zero a minore di 100.

I due limiti 0 e 100 sono fuori dal ventaglio, perché rappresentano la certezza: il primo che un certo fenomeno non sia o non possa accadere; il secondo che sia o che inevitabilmente accadrà. La certezza negativa (zero) è l’affermazione della inesistenza, quella positiva è l’evento (100). Ma il concetto di probabilità è vuoto, se non si collega a quello di “frequenza”, cioè al rapporto tra il numero di volte in cui l’evento si è verificato (casi favorevoli all’evento) e numero dei casi possibili (numero delle osservazioni svolte). I matematici fanno spesso riferimento al gioco dei dadi. Poiché una sentenza riguarda sempre un caso singolo, è essenziale anche il richiamo di un giudizio del filosofo Hans Reichenbach [2]: « L’asserzione concernente la probabilità di un caso singolo ha un significato fittizio, costruito attraverso il trasferimento di significato dal caso generale a quello particolare. L’adozione dei significati fittizi è giustificabile non per motivi conoscitivi ma perché serve agli scopi dell’azione considerare tali asserzioni come provviste di significato.» Ci si deve chiedere: che scopi può avere un giudice diversi da quello, unico, di fare giustizia sul caso sottopostogli? Fosse un politico o uno stratega militare, si potrebbe forse capire! Ma se fare giustizia è scoperta, proprio nel senso di svelamento, di verità, si può realizzare lo scopo con “significati fittizi”? Ancora Reichenbach ci avverte che l’altra caratteristica fondamentale della teoria è l’eliminazione del principio di indifferenza, cioè della probabilità a priori, perché, se non si determinano prima le frequenze dell’evento, un grado di probabilità qualsiasi può essere determinato solo a posteriori. L’importanza di questa constatazione si vedrà meglio nel caso della presunzione sull’accertamento tributario. Qui si deve ancora considerare che il diritto positivo è essenzialmente deduttivo e il processo è operazione di omologazione del caso singolo alla prescrizione della norma astratta. Quindi, un giudizio impostato su una probabilità a priori, oltre che significato fittizio è anche contraddizione con la caratteristica deduttiva del diritto [3], è un rovesciamento per ricorso all’induzione.

All’interno del ventaglio, cioè del campo, la probabilità è esaminata in due momenti, il primo dei quali con caratteri di principalità:

1. astratto: l’esistenza del fenomeno, è connessa alla sua possibilità;

2. concreto: il numero è rappresentativo di un valore che, essendo possibile, esprime la misura della probabilità.

Fondamentale e, in un certo senso, derivata dalla precedente classificazione, è la distinzione tra “probabilità singola”, che è l’apprezzamento fatto dal singolo individuo per le sue scelte e i suoi comportamenti, e “probabilità collettiva”, che riguarda classi di eventi ed è una specie di giacimento statistico con necessaria espressione numerica. Si deve subito notare che il giudice penale chiamato a considerare anche gli aspetti psicologici, può o deve considerare la “probabilità singola” che l’individuo può aver impiegato per la sua scelta di comportamento illecito. In questo caso non si tratterebbe comunque di un giudizio discrezionale del giudice, ma la ricerca del giudizio probabilistico svolto dall’indiziato. Invece, al di fuori del campo penale, al giudice dovrebbe essere inibita la valutazione della “probabilità singola” e consentita solo quella “collettiva”, la quale deve presentarsi in termini valoristici. Cosicché al giudice, se penale, è inibito un giudizio probabilistico suo proprio; se non penale, gli può essere concesso l’impiego della “probabilità collettiva”, che, però non è sua, ma della communis opinio, se pur riferita, ma oggettivamente, alla parte [4], la cui fondatezza può essere sostenuta solo se interviene la statistica con i suoi numeri. Invece, il giudice tributario sembra propenso a usare la seconda, ma priva di valutazioni numeriche, ciò che lo lascia fermo all’Aristotele dell’Analytica priora, per il quale la probabilità è verosimiglianza e: « Probabile è ciò che tutti sanno come per lo più accada o non accada, sia o non sia », in cui la determinazione del “tutti sanno” è un giudizio assolutamente discrezionale, che solo le più sofisticate tecniche elaborate dalla statistica e dalla matematica probabilistica riuscirebbero a rendere oggettivo e accettabile, seppur non escludendo la cautela.

Pare evidente l’influenza che l’etimologia di probabilis e probabilitas, comune a probus, proba e probatio, continua a esercitare sui giudici, ma non sempre ricordando che anche in italiano “probo” significa onesto e retto, né rispettando la prudenza di Cicerone nel famoso broccardo: multa quae non fallunt probabilitate sua (“spesso ci sono cose che ci ingannano per la loro apparente credibilità”). I giuristi romani affermavano anche che probatio vincit praesumptiones (le prove valgono più della presunzione), così dando alla presunzione un rango inferiore.

Però, la probabilità, comunque intesa, ha significato che si può esprimere solo nell’ambito del possibile.

Esaminiamo allora il significato del termine “possibilità”. Per il filosofo, che ne fa largo impiego, è possibile “ciò che può essere o non essere” e l’etimologia del termine gli dà pienamente ragione. Si comprende, allora, il motivo della definizione di probabilità come “misura della possibilità”. Però, se manca la misura e si confrontano le due definizioni, si constata subito che la probabilità priva della misura o è un concetto vuoto o è un sinonimo di possibilità, come si dicesse, ignorando che la logica rifiuta la petizione di principio, che la “probabilità è la possibilità della possibilità” o, in altre termini, che la possibilità è l’impossibile misura della probabilità! Questa impossibilità spiega perché la Corte di Cassazione ha avuto una giurisprudenza ondivaga sulla applicazione concreta del concetto di prova per presunzioni.

 

 

2. La giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia civile

 

La giurisprudenza di diritto civile della Suprema Corte sul punto può essere distinta secondo due categorie di interpretazione: a) restrittiva (o rigorosa); b) elastica. Si nota una tendenza evolutiva verso la seconda, seppur la prima non possa dirsi definitivamente superata; perciò può essere interessante richiamare le massime che caratterizzano le due tesi giurisprudenziali, qui riportate, perché sia verificabile l’evoluzione che ha avviato dagli anni ottanta la preminenza della seconda e, inoltre, come sono riproposte in sede tributaria.

 

a) Interpretazione “restrittiva” del concetto di presunzione semplice, in cui si nota, se non l’esclusione, almeno l’emarginazione del concetto di probabilità, con rispetto del principio che il fatto ignoto possa essere desunto dal fatto noto “solo” se esiste un nesso di derivazione “necessaria” e “univoca”.

6 dicembre 1979, n. 6341: « Nelle presunzioni semplici il fatto ignoto, cui si risale dal fatto noto, deve profilarsi, in base alle regole di comune esperienza, come conseguenza univoca e necessaria, e quindi come la sola conseguenza logicamente ipotizzabile, dei fatti noti, e non come risultato di una deduzione solo probabile e non arbitraria, la quale non escluda cioè ragionevoli dubbi.»

2 luglio 1981, n. 4295: « Nelle presunzioni semplici il fatto ignoto, cui si risale dal fatto noto, deve profilarsi, in base alle regole di comune esperienza, come conseguenza unica e necessaria, e quindi come la sola conseguenza logicamente ipotizzabile, del fatto noto, e non come il risultato di una deduzione solo probabile, la quale non escluda cioè ragionevoli dubbi.»

27 maggio 1983, n. 3677: « Il fondamento razionale della presunzione è costituito dall’id quod plerumque accidit, cioè dall’ordine normale delle cose per cui, in base all’esperienza, si ritiene che un evento è causa di un altro o si accompagna ad altra modificazione del mondo esterno e pertanto il suddetto strumento probatorio si configura come risultato di un processo logico in base al quale l’esistenza del fatto ignoto si appalesa come la sola, unica, sicura e necessaria conseguenza del fatto noto.»

 

b) Interpretazione “elastica” del concetto di presunzione semplice, in cui si nota l’inclusione del concetto di probabilità nel processo interpretativo, ritenendo che il nesso tra fatto ignoto e fatto noto possa essere, non solo non necessario, né univoco, ma anche solo probabile.

17 giugno 1980, n. 3846: « In tema di presunzioni vale il principio secondo cui la relazione tra fatto noto e fatto ignoto non occorre che presenti carattere di certezza, ma basta che abbia contenuto di ragionevole probabilità, essendo sufficiente che all’accertamento del fatto ignoto si pervenga dalla considerazione di un fatto noto attraverso un processo logico deduttivo basato sull’id quod plerumque accidit.»

17 marzo 1981, n. 1549: « In tema di prova per presunzioni semplici, nella deduzione del fatto noto a quello ignoto il giudice di merito incontra il solo limite del principio di probabilità, che deve considerarsi rispettato quando le circostanze acquisite siano tali da far ritenere, secondo le regole di esperienza, possibile e verosimile la loro connessione causale con il fatto da accertare.»

21 maggio 1984, n. 3109 e 4 maggio 1985, n. 2790: « In tema di prova per presunzioni non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, bastando che l’operata interferenza sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimento, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza colte dal giudice per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto con quello accertato.»

4 aprile 1989, n. 1621: « In tema di prova per presunzioni non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda, siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, bastando invece che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di accadimenti possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità.»

5 luglio 1990, n. 7084: « Nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità.»

18 settembre 1991, n. 9717: In tema di prova per presunzioni – non occorrendo che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio – è sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza può verificarsi secondo regole di comune esperienza.»

 

L’oscillazione tra l’uno e l’altro approccio alla presunzione ex art. 2729 c.c. è proseguita nel primo quinquennio degli anni Novanta, finché la Suprema Corte ha ritenuto di superare il dilemma con la sentenza a Sezioni Unite civ. 13.11.1996, n. 9961, con cui ha adottato l’orientamento “progressista” [5] della preminenza dell’id quod plerumque accidit e che è affermato nel seguente passo:

« È noto che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c. c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente pos­sibile, secondo un criterio di normalità: basta che l’inferenza tra il fatto noto e quello ignoto sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza colte dal giudice per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto con quello accertato.»

 

Consequenziale è la serie di sentenze successive (una delle ultime depositata il 14.2.2002, n. 2157), con cui la Cassazione afferma che l’apprezzamento dell’idoneità di una prova, anche basata su elementi un tempo ritenuti inadeguati, è compito del giudice del merito, le cui valutazioni sono sottratte al controllo in sede di legittimità.

La querelle sembrava finita con la sentenza 9961/1996, ma la Cassazione non aveva fatto i conti con se stessa. Con sentenza 6.8.1999, n. 8489 la sezione lavoro affermava che:

« nel processo civile, il ricorso alla presunzione richiede, da un lato, che i fatti noti siano certi ed univoci nel senso che ciascuno di essi deve rafforzare il contenuto e il valore degli altri, dai quali, a sua volta, deve ricevere riscontro e, dall’altro, che tra il fatto noto e quello da dimostrare sussista un legame che, pur senza essere di assoluta ed esclusiva necessità causale ma stabilito alla stregua di un canone di probabilità, sia esclusivo, nel senso che, sia pure con il metro della probabilità, dal fatto noto sia possibile inferire solo quello ignoto.»

Rispetto alla precedente a sezioni unite, la sentenza 8489 sembra orientata a maggior prudenza nell’opera di svuotamento operata dalle sezioni civili.

Si osserva che, comunque, nessuna delle due correnti di pensiero ermeneutico intende la probabilità in termini quantitativi, ma almeno la prima si preoccupa dei rischi derivanti dall’indeterminatezza e cerca di fondare la prova presuntiva su un concorso di elementi, che attenuino il rischio della mancanza di valori. La seconda è ferma ad Aristotele, dimenticando che non sono tutti Aristoteli quelli che siedono sugli scranni della giustizia.

A questo punto è necessaria una considerazione preliminare. La giustizia umana non è la Giustizia divina, peraltro inconoscibile all’uomo, ed è sempre incerta per limiti antropologici. Perciò l’ordinamento giuridico prevede contemporaneamente la collegialità del “giudice” e la pluralità dei gradi processuali, al fine di ridurre i rischi di errore. Ma questi rischi non possono essere attenuati quando vi sia carenza di norme, perché, essendo subordinato alla legge (art. 101 della Costituzione), il giudice non può riempire arbitrariamente eventuali vuoti o errori del legislatore. Ora, noi dobbiamo chiederci se l’art. 2729 c.c. contenga errori o se siano certe correnti giurisprudenziali a fare un uso troppo libero della discrezionalità. Possiamo constatare che l’art. 2729, nonostante si riferisca alle presunzioni “semplici”, non prevede un rinvio alla probabilità, concetto introdotto dalla giurisprudenza con significato a mio avviso distorto rispetto al suo corretto.

Possiamo aggiungere a questa constatazione due considerazioni.

La giustizia non è affidata al cosiddetto “buon giudice”, per dirla con il filosofo del diritto Lanfranco Mossini: a un Salomone, a un Azdak, a un Sancho Panza, o a un soggetto della cui equanimità e saggezza si è talmente certi da accettarne il giudizio senza bisogno della motivazione. Invece, si esige, l’ordinamento esige, che il giudice riveli l’iter logico seguito nel sillogismo che porta alla conclusione, cioè all’affermazione finale, che poi è una statuizione, data dopo la formula rituale P.Q.M. Peraltro, questo sillogismo, che se non rivelato rende censurabile la sentenza per mancanza di motivazione e, se espresso ma errato, la rende attaccabile per errore nell’iter logico [6], dovrebbe rispettare anche la sequenza inclusa da Aristotele nella sua definizione di sillogismo come perfetto ragionamento deduttivo: « discorso in cui, poste talune cose, alcune altre ne seguono di necessità.» [7] Nella sentenza, ciò che deve “seguire di necessità” è il dispositivo, la statuizione finale. Ma, se questa è la forma apparente, non mancano sentenze in cui si intuisce che il percorso nel pensiero del giudice è stato rovesciato: prima il dispositivo e poi le motivazioni, da non confondere con il metodo seguito da Andrea Torrente, come lo ricorda Antonio Emanuele Granelli in un commento a sentenza: « Il grande e compianto Andrea Torrente raccontava di come, nell’esercizio delle sue funzioni di giudice di Cassazione, si fosse sempre attenuto all’aurea regola di verificare innanzi tutto se la parte avesse, nel merito r