Le parole, talvolta, sono pietre, soprattutto se scritte in inglese. Non che la lingua di Shakespeare sia dura o violenta; ma offre gli stessi rischi di tutte le straniere. Non si deve nemmeno dimenticare che tutor è voce della lingua latina, per cui ci viene restituito dai sassoni con pronuncia biascicata il lessico che Giulio Cesare aveva trasmesso. Al Congresso Nazionale dei Dottori Commercialisti in corso a Trieste, questi professionisti hanno posto la loro candidatura a “tutor” dell’impresa. Mi pare un’aspirazione legittima, che propone equilibrio con l’ordine dei Ragionieri, che da qualche tempo ha assunto il ruolo di “economisti d’impresa”. Il problema è di banale significato lessicale. Comunque lo si intenda, in senso letterale o lato, tutor (in inglese, perché del latino si è persa memoria) significa comunque “tutore” e “precettore”, il che implica l’esistenza di uno stato di tutela e di qualcuno che è tutelato e forse crea uno stato di insoddisfazione da parte dell’imprenditore. Nell’era della comunicazione, i titoli, gli appellativi, le sigle, gli acronimi, le denominazioni, le ditte, i marchi ecc. sono molto utili, perché dovrebbero offrire il vantaggio della sintesi, racchiudere cioè in un breve suono o in una specie di geroglifico un significato complesso e articolato. Diciamo che fa guadagnare tempo, anche se può creare qualche confusione. Pochi anni fa è corsa la proposta di obbligare i dottori commercialisti a esami periodici di aggiornamento. Poi sono venuti i marchi di qualità, tipo ISO o simili. Si deve anche constatare che molti dottori commercialisti vivono di procedure fallimentari. Come li chiamiamo in quel caso? Grave-digger? Inoltre, chi fa il tutor del tutor, per garantire il tutelato? Gli appellativi mi lasciano indifferente, perché è il mercato che giudica quello che uno sa fare e come lo fa. Potete anche pensare che io sia una colf dell’impresa. Ma solo pensarlo, perché se vi azzardate a chiamarmi in quel modo o con il più aulico tutor (che in gergo accademico è solo un volonteroso assistente degli studenti) mi arrabbio e vi tolgo il saluto. E, pur avendone titolo, non voglio essere chiamato nemmeno “professore”, perché non vorrei essere confuso con il suonatore di timpani nell’orchestra, che, si sa, è formata da professori. Mi piace di più maestro, ma solo nel significato di colui che siede nelle aule delle scuole elementari.