Anacleto Verrecchia, noto germanista e filosofo, riporta negli Incontri viennesi [Torino, 2005, pag. 12], una sua articolata intervista all’etologo Konrad Lorenz. La domanda: «Nel suo libro “Il cosiddetto male”, lei elenca alcuni motivi che impediscono all’uomo, troppo preso di sé, di riconoscersi come animale. Non crede che centri anche la religione?» non stimola alcuna risposta di Lorenz sui rapporti tra presunzione dell’uomo e religione, ma sul resto l’etologo si diffonde ed esprime giudizi, peraltro stimolanti, sulla relazione tra pensiero astratto e linguaggio, che nel tardo terziario “un essere che tutti chiameremmo scimmia” è riuscito ad elaborare. Come a dire che solo quella scimmia chiamata uomo ha avuto tale capacità. Ma, allora, perché, per coerenza, sostenere che quella scimmia non dovrebbe ritenersi superiore agli altri esseri? Si noti che questa presunzione non impedisce la comprensione verso gli altri animali, anzi potrebbe anche stimolare un senso di pietà, comunque di rispetto, verso quella parte della natura che non è riuscita a tanto. Posso immaginare la reazione di Lorenz se qualcuno gli avesse dato dello scimmione, lui che era stato capace di capire o interpretare il comportamento di alcuni animali. Ma Lorenz prosegue e afferma: «…che nessuna proprietà sia posseduta per ereditarietà risulta chiaro solo dal fatto che nell’uomo ciò ha luogo mediante il pensiero concettuale e il linguaggio.» Ma la domanda di Verrecchia era diversa!

Il richiamo alla non ereditarietà, mi stimola, però, questa personale riflessione:

la memoria è lo strumento che consente di conservare l’esperienza, ma l’esperienza è, a sua volta, frutto della capacità di elaborare un pensiero astratto e con linguaggio concettuale.

Però, l’esperienza – e mi riferisco all’aspetto generale antropologico oltre che a quello individuale –  a che serve? Essa deriva dal passato e serve per decidere su azioni da compiere nell’oggi o da programmare per il domani. Ma a che mi servirebbe l’esperienza se il mio presente fosse senza speranza: cioè a che serve sapere che andando sempre verso la stella Polare vado a Nord, se non posso muovermi? Ma se ho speranza che domani sarò in grado di farlo, l’esperienza ha senso e allora ecco dove nasce il tempo e a che è utile: il tempo altro non è che il contenitore dell’esperienza.  Ma, l’esperienza a che serve all’uomo che sa elaborare un pensiero astratto con un linguaggio concettuale o anche della natura? Serve per inventare il concetto di tempo, che però non è un a priori, come riteneva Kant, ma il frutto di un’esperienza, formatasi dopo constatazioni ripetute, che stimolano concetti. A mio modesto avviso la capacità concettuale stimola un’iniziale attenzione e osservazione, poi segue una constatazione che consente la formazione di un concetto, comunque mai finale e definitivo. C’è qualcosa di statistico nella formazione dei concetti ed è questo il motivo che mi porta a superare le barriere dell’a priori. L’uomo, diversamente dagli altri animali, è capace di sintesi, di cui il concetto è a un tempo causa ed effetto. Forse per spiegare il fenomeno può essere utile ricordare il famoso verso della Commedia di Dante «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» (Paradiso, Canto XXXIII). Certo Dante ha ben altro e alto obiettivo, ma il richiamo è un esempio di uso di un concetto per spiegarne un altro.