Gabriele D’Annunzio, poeta vero, uomo paradossale e amante dei paradossi, ripeteva, riprendendo il poeta latino Rabirio dell’epoca augustea (Hoc habeo quodcumque dedi): “Io ho quel che ho donato…”. Il motto, inciso sul frontone all’ingresso del Vittoriale, significa che chi è generoso finisce per possedere sotto altra veste ciò che ha donato. Una specie di “investimento” (la parola significa letteralmente: “metterci su una veste”). Sennonché il “vate”, scialacquatore di tutto: parole, amori, versi, atti di eroismo, brandelli della propria carne, quando si trattava di danaro amava più ricevere che dare e forse questo spiega perché era sempre al verde e pagava i debiti con autografi. La sua firma valeva più dei biglietti della Banca d’Italia e il tempo gli ha dato ragione. Infatti, i creditori che, invece di banconote, hanno ricevuto in restituzione letterine “di pugno D’Annunzio”, se ne guardano bene dal tradurle in contanti e le conservano come il testamento olografo dello zio cardinale. Chissà se ci sarà mai un bello spirito di parlamentare che vorrà proporre di incidere sul frontone dell’Eur, sede del Ministero delle Finanze, il motto Hoc habeo quodcumque cepi (“Io ho quel che ho prelevato…”). Il. Provate a farvi rimborsare qualcosa dallo Stato! Di più (rectius: di meno): provate a vincere una causa monitoria contro lo Stato e a ottenere il pagamento del credito! Risposta: gesto dell’ombrello. Forse bisognerebbe fare ministro delle finanze un poeta della statura di D’Annunzio (e dove lo trovi?). Almeno ti manderebbe delle lettere da incorniciare e lasciare in eredità ai pronipoti.