Non ho mai visitato Napoli, non tanto per il timore del “poi” di “vedi Napoli e poi muori” e nemmeno del “durante” (il che non sarebbe poi tanto impossibile, soprattutto se ti inoltri in certi quartieri), ma perché temo il rischio di rimanere catturato dalla sua malia, quel misto di ricchezza e povertà, di eleganza edilizia e di suburra, di genialità e irrazionalità, di mortale vitalità, di criminalità e di onestà, di poesia triste senza essere lacrimevole; tutto nella stessa pentola, in un ribollire che, diversamente dai minestroni, non riesce ad amalgamare gli ingredienti. Forse questi affrettati giudizi sono residui di letture e brandelli di memorie degli “Alunni del sole”, libro meraviglioso che Giuseppe Marotta scrisse con il cuore. Mi viene in mente, quell’opera perché Marotta più volte cita i guantai, cioè i lavoranti delle botteghe che fabbricano i guanti, indossati (per non dir “calzati”) dalle mani degli elegantoni del mondo. Si poteva dire, un tempo, che Napoli era famosa per le sue canzoni e per i suoi guanti. Ora si legge che quella fiorente attività economica è in pericoloso declino, perché le botteghe artigiane non trovano più operai, né giovani disposti ad avviarsi a quel delicato mestiere. Ma come è possibile, si chiede un ristretto cervello del Nord, che accada un tal fenomeno in una città, in cui più di un terzo dei suoi abitanti ogni mattina deve inventarsi un lavoro? (Inventarsi, da invenio latino, cioè “darsi da fare per trovare”). Non ho bisogno di correre il rischio di andare a Napoli per sciogliere il dilemma. Mi basta constatare che ’o sindaco’ si chiama Bassolino e che i napoletani lo adorano, tant’è che dopo aver assistito in Duomo al miracolo di San Gennaro, corrono nelle cabine elettorali a votarlo.