La grande lezione che ci viene dalla civiltà ellenica è la necessità di un rapporto equilibrato tra spirito (anima) e corpo (materia).

Questo equilibrio garantisce il reciproco rispetto delle due entità, possibile solo a condizione di mancanza di prevaricazioni dell’una sull’altra. Lo spirito che rispetta le esigenze del corpo è garanzia di uno svolgimento ordinato della vita sociale, a partire dal primo nucleo, che è la famiglia: un mondo di asceti o di eremiti non crea alcuna società. C’è bisogno di sesso, di materialità, di corpo: se così non fosse il Dio Creatore non avrebbe costruito l’uomo con fango, ma avrebbe creato solo uno spirito come nel caso degli angeli. D’altra parte: perché Dio creò l’uomo per ultimo? Perché fosse sintesi tra spirito e materia. È significativo l’incipit del Vangelo di Giovanni: «…e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…».

Ma, a sua volta, il corpo non deve prevaricare lo spirito, perché anche in questo caso la società non si crea: prevalendo solo gli istinti materiali, non si potrebbero porre principi né una scala di valori all’interno degli stessi. E una scala di valori è importante per generare ordine e non confusione; diversamente si cade in una specie di entropia sociale. Poi, secondo le preminenze dell’uno o dell’altro aspetto, avremo – e nella storia abbiamo avuto – anche diverse forme di società: tirannia, oligarchia, democrazia, ecc. Tutto deriva dai rapporti tra i due pilastri.

Al giorno d’oggi, noi possiamo osservare che, con l’esasperazione e gli stimoli che vengono dai mass media, c’è una crescente prevaricazione del corpo sullo spirito, da cui: disordine sociale; instabilità delle scelte politiche; adesione alla preminenza di ciò che fa moda transeunte; sentire bisogno del gregge, perché nel gregge si cerca protezione; gregarismo al seguito di capi fasulli, predicatori del nulla; esaltazione di ciò che è apparente rispetto a ciò che conta veramente; sbandamento e soppressione dei valori; anarchia; droga come fuga verso paradisi artificiali, per paura della realtà delle vita, egoismi e personalismi; esaltazione della sessualità, peraltro sterile, perché assorbita dall’edonismo: è il corpo che proclama il suo primato nei confronti dello spirito, mortificato in molti aspetti della vita. Si pensi allo scientismo e alla esasperazione dell’atteggiamento dello scienziato, un tempo capace di ammettere che anche la scienza ha i suoi limiti e non è esclusività; che esiste un Dio sopra le nuvole dello sviluppo scientifico, in continuo superamento, il che ne dimostra di per sé il relativismo: per esempio, il sistema tolemaico geocentrico, ritenuto per secoli un punto indiscutibile, naufragò miseramente ai piedi di Copernico e di Galileo, perché la scienza, fortunatamente, è in continua evoluzione. La fisica che pretende di annientare la metafisica, negandone la complementarità, finisce per autolimitarsi.

Sul punto è interessante un richiamo ad Arthur Schopenhauer. Il filosofo, il cui pensiero dominante è che l’uomo avverte tramite il corpo la sua volontà di sopravvivenza, più precisamente che il corpo è espressione della volontà con cui è un tutt’uno: il corpo è manifestazione fenomenica, che diventa velo (di Maya) e copre la “cosa in sé”, conoscibile in quanto volontà. La volontà è in altri termini impulso per tutte le cose in natura e anima nell’uomo. Se non vogliamo accogliere la identificazione anima-corpo (il “tutt’uno”) dobbiamo però riconoscere che tra essi corre almeno un rapporto biunivoco, totale secondo il filosofo tedesco, parziale se non si accetta il “tutt’uno”. Se per Schopenhauer l’identificazione volontà-corpo è perfetta e univoca, allora non possono verificarsi sbilanciamenti, appunto perché un “tutt’uno”, ma se si ammettono due entità separate, allora si possono verificare residui dell’una o dell’altra: in una operazione geometrica di sovrapposizione le due superfici non sono eguali e vi sono resti da eccedenza, che rappresentano un quid di volontà non recepita interamente al corpo, che, come materialità prevaricante, apre a una incontrollabile (dalla volontà) apertura alla istintività.

Il richiamo a Schopenhauer, anche se va oltre le tesi dirette del filosofo tedesco, è un pretesto per considerare che la rottura totale o parziale dell’equilibrio anima-corpo è alla base del dilagante secolarismo e della rottura di molti equilibri sociali.

Si ritiene comunemente che il concetto di anima sia una derivazione di concezioni religiose, che, però, non può arrivare alla irrisione. Il dileggio verso la religione è, peraltro, una dimostrazione di debolezza, perché significa che l’uomo ha paura dello spirito: non tanto che abbia paura di Dio, ha paura di se stesso, della sua stessa anima, della necessità di ammettere che esistono livelli superiori trascendenti la terreneità, la cui consapevole irraggiungibilità porta a una specie di negativismo, che sfocia nel nichilismo.

 Potremmo definire il linguaggio un gioco a incastri, una specie di domino inesauribile, però bisogna evitare il rischio di giocare troppo con le parole. Ciò ricordato, ritengo proponibile ricondurre l’analisi volontà-corpo al concetto di ragione, affermando che è la ragione il governo che l’uomo può esercitare su di sé, sulle proprie istituzioni sociali e sulle cose in genere, senza dimenticare la lezione evangelica di Giovanni (“il logos si fece carne…”, cioè si fece uomo) e il significato, tra gli altri, di logos come ragione. A ben vedere, i resti della irrealizzata completa corrispondenza tra volontà e corpo di Schopenhauer sono ciò che è sfuggito al controllo della ragione. Non si dimentichi nemmeno che, come già accennato, il lascito più fruttuoso della civiltà greca è il concetto di equilibrio, che ancora può giustificare le realizzazioni della cosiddetta civiltà occidentale, se spesso non tradisse se stessa in nome di un eccesso di corporeità nascosta dietro l’ipocrisia del politically correct, il  cui esito è un relativismo, che porta all’inazione.

La nostra epoca ha avuto il dono, non sempre capito quando addirittura rifiutato, di un Papa filosofo come Joseph Ratzinger, che ha fatto della difesa della ragione il leitmotiv della propria missione.

Benedetto XVI, con delicata fermezza e lucidità, ha dimostrato nei suoi discorsi più significativi (Università di Regensburg, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Collège de Bernardins, Westminster Hall, Reichstag di Berlino) di aver presente la lezione della civiltà ellenica, il cui cardine è la giusta misura in tutto, la ragionevolezza che supera il rigore e l’assolutismo della ragione incontrollata  e che non deve essere ipostatizzata, affinché non comprometta la libertà dell’uomo. L’insistenza sul tema della ragione è anche l’eredità più significativa del teologo Francisco Suárez della seconda metà del Cinquecento, secondo il quale razionalità e volontà divina coincidono. E perché non dovrebbero coincidere nell’uomo!?

 Leggendo quegli interventi, si possono apprezzare la sensibilità e la profondità di una cultura da vero filosofo del diritto e delle relative implicazioni sulle istituzioni politiche e sociali. In sintesi, il suo pensiero è un monito, non paternalistico, all’uomo di oggi a non rompere un equilibrio tra ragione, natura e libertà, che sarebbe, per i credenti, anche una limitazione alla loro stessa fede. Il motivo di tale sollecitazione è la constatazione che, purtroppo, si è ha rotto quell’equilibrio e questo spiega la deriva a cui si è abbandonato l’uomo del nostro tempo.