In uno stato di diritto non dovrebbe esistere il processo indiziario; ciò non significa che non possano esistere gli indizi. Ma questi devono essere ristretti alla fase inquisitoria. Senza indizi l’inquirente non è nemmeno in grado di avviare indagini. Ma l’indizio deve poi tradursi in prova ed è questa che deve valere per il soggetto giudicante, a meno di accettare l’aberrante equivalenza che due indizi fanno una prova. Purtroppo, in molti processi vale anche meno: un solo indizio fa una prova, anche in presenza di altri indizi di segno opposto e la constatazione di tale deviazione spiega il rilievo che esiste il processo indiziario, in cui il giudicante sceglie gli indizi che più gli piacciono, con buona pace del concetto di prova. La regola dovrebbe essere: l’indizio è stimolo per la ricerca della prova e questa sola dovrebbe contare per il giudice.
In campo tributario, che dalla sua originaria derivazione dal diritto amministrativo, sembra assumere talvolta aspetti del diritto processuale penale, si osserva una dilatazione verso il processo indiziario, per una deriva ideologica, che spesso affligge anche il giudice di legittimità. Il DPR 29 settembre 1973, n. 600, all’art. 39 non cita mai indizi, ma prove, ancorché ammetta le presunzioni semplici derivate dall’art. 2729 cod. civ. Si noti – ed è rilevante – che i due citati articoli riguardano l’attività di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria e non certo l’attività del giudicante nella sede processuale successiva.
Una prima osservazione è sulla comparazione tra l’art. 2729, comma 1, cod. civ. e l’art. 39, ultima parte del comma 1, lett. d), che ammette: «presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti», condizione che è la trasposizione letterale della norma civilistica. Si sottolinea che la deroga ammessa dal comma 2 dell’art. 39, lettera d) pone la condizione che, in caso di omissioni e di false o inesatte indicazioni, queste debbano essere: «gravi, numerose e ripetute», recependo il principio che “non due indizi fanno una prova”, ma la gravità, la numerosità e la ripetitività, che sono ben altri requisiti. Il DPR 600 non può certo superare i limiti dell’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, quindi, non può invadere l’attività del giudicante in sede contenziosa, che non costruirà presunzioni, ma giudicherà quelle elaborate in sede di accertamento ed eventualmente contestate dall’oppositore resistente.
Si osserva che l’art. 39 DPR 600 non fa mai un rinvio formale all’art. 2729 cod. civ., ma recettizio, perché, come rilevato prima, riscrive letteralmente il comma 1 della norma civilistica; però, attraverso la citazione del termine “presunzione”, rinvia implicitamente all’intero art. 2729, cod. civ., quindi compreso il comma 2; vero è che l’attività accertativa in deroga deve riguardare “dati e notizie comunque raccolte o venuti a sua conoscenza”, ma questo non assumere qualità né di testimonianza né ancor meno di prova. La Corte di cassazione, in più consolidate sentenze, ha ben chiarito la differenza. Si veda, per esempio, Cass. 11 marzo 2002, n. 3526, che afferma: «Le dichiarazioni raccolte dalla Guardia di Finanza e da essa incorporate nel processo verbale di constatazione non sono testimonianze, né tantomeno testimonianze rese in sede processuale penale, ma delle informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative che non hanno di per sé efficacia di prova».
L’art. 2729 cod. civ. recita al comma 2: «Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni». La norma, se riferita all’azione dell’Amministrazione finanziaria, è confermata dalla giurisprudenza della Cassazione sopra richiamata; né può valere a maggior ragione per il giudice, perché l’art. 7, comma 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, recita: «Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale», norma che ha resistito ai dubbi di legittimità costituzionale. Infatti, la Corte Costituzionale, con sentenza 21 gennaio 2000, n. 18, rigettando eccezioni sollevate in relazione agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, afferma, inoltre, sulla linea della sentenza della Cassazione n. 3526/2002, che: «…le dichiarazioni…- rese al di fuori e prima del processo – sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio».
Questi richiami possono essere considerati la premessa per ricordare, in concreto, il fenomeno noto come “inesistenza soggettiva”, che nelle mani dell’Amministrazione e di parte di una sbrigativa giurisprudenza di merito e di legittimità, persino oltre i principi della Corte di Giustizia UE, ha comminato al soggetto terzo reale acquirente di merci in “buona fede”, vendutegli da soggetti coinvolti in frodi carosello e cartiere, la denegazione della detrazione dell’IVA corrisposta in regolare fattura e l’indeducibilità dei relativi costi di acquisto ai fini dei tributi diretti. L’Amministrazione, nei suoi accertamenti e parte della magistratura tributaria, Cassazione compresa, avvalendosi della loro discrezionalità nella valutazione dei fatti e pretendendo prove diaboliche hanno penalizzato, in concreto, l’acquirente di buona fede, come, per esempio la sentenza 11 aprile 2011, n. 8132, che esige che «…il committente-cessionario, il quale invochi la detrazione [dell’Iva sulla fattura emessa dal cedente-prestatore] fornisca sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione, riscontri precisi, non esaurientisi nella prova dell’avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa nonché dell’IVA riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto al thema probandum, in rapporto alle peculiarità dell’IVA e dei relativi, possibili abusi».
Per eliminare i rischi di comportamenti colpevolisti a ogni costo di Amministrazione e giudici, è provvidenzialmente intervenuto il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla Legge 26 aprile 2012, n. 44, che all’art. 8, co: 1, 2, 3,8  ha previsto la indeducibilità comunque dei costi per i tributi diretti, con estensione ai processi in corso e ad accertamenti ancora aperti relativamente “al compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo…”, il che comporta, ex adverso, che sono invece deducibili quelli relativi ad atti colposi, ma non ai dolosi (si vedano anche art. 43 del cod. pen. e D.Lgs. n. 74/2000). Si sottolinea che la nuova norma ha bloccato il debordante superattivismo dell’Amministrazione sui tributi diretti, trascurando la deducibilità dell’Iva assolta per l’acquirente, la cui valutazione è discrezionale fino a pretendere, per superare una pretesa inesistenza soggettiva, un’impossibile prova diabolica. Per questa è ancora necessario far riferimento alle sentenze della Corte di Giustizia UE nella cause C-80/11 e C-142/11, che confermano precedenti statuizioni.
Si segnala, da ultimo la sentenza della Cassazione 20 giugno 2012, n. 10167.
Pietro e Giulia Bonazza