Il 27 gennaio 2005 il mondo occidentale, a una sola voce, ha celebrato il 60° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz e con esso l’Olocausto. Si dice: “per non dimenticare”. Va bene, ma mi chiedo: per non dimenticare chi? Gli ebrei o, più in generale, l’odio di cui è capace l’uomo? E di chi fu la colpa? Di alcuni governanti nazisti scellerati o di tutto il popolo tedesco o, addirittura e indirettamente, di tutto il mondo occidentale? Karl Jasper, da filosofo tedesco galantuomo, si pose questa domanda in un libro giustamente famoso La colpa della Germania. Alcuni storici (si legga, per esempio di Basil H. Liddel Hart, Storia della seconda guerra mondiale), analizzando eventi, dichiarazioni e comportamenti manifesti di Hitler nel 1939, ritengono che se l’Occidente, che poi significava soprattutto Inghilterra e i suoi governanti Chamberlain e Halifax, avesse assunto un atteggiamento meno ambiguo sulla questione della Cecoslavacchia e non illuso la Polonia con un’alleanza solo ventilata, Hitler non avrebbe osato incamminarsi sulla strada che portò ad Auschwitz. Però, a essere onesti, sono tutte analisi senza senso, con il rischio di diventare, anziché una stigmate della coscienza una congerie di espressioni culturali e a effetto. Non dimentichiamo il monito di Adorno in Dialettica negativa: « Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura ». E se la storiografia è cultura e se questa è spazzatura, che resta da dire? Si ritorna alle domande iniziali. Ma dall’affermazione di Adorno ricavo un monito: “se la storia intesa come cultura è spazzatura, la chiacchiera che cos’è”? La chiacchiera su Auschwitz è la sua non comprensione, è il suo tradimento. Solo il silenzio, l’assordante silenzio, il silenzio che ci rende attoniti e muti può rendere vero il terrore del pensiero di Auschwitz, perché solo il silenzio consente di non ascoltarsi, ma di ascoltare il terrore e l’abbandono di quei poveri milioni di ebrei, considerati spazzatura, rifiuti da termoutilizzatore. Se Auschwitz ammutolisce, come si può parlare? Invece, abbiamo ascoltato frasi retoriche a fiumi. Ognuno ha ritenuto di dire la sua, per far sentire la propria presenza, ma, forse, per ascoltarsi. Il labbro di Arcore, l’inquilino del Colle, per non dire di politici di centro di minor rango e della sinistra. Tacete e pregate, se avete fede e non disturbateci mentre pensiamo in silenzio a quel terribile silenzio, che vide il male al suo massimo trionfo. Caro Presidente della Repubblica, lascia stare le leggi razziali italiane, la cui idiozia, prima ancora della loro antigiuridicità (è una contradictio in adiecto, ma la dico consapevolmente), è un giudizio condiviso da tutti gli italiani e pronunciandolo per la miliardesima volta si scade nell’ovvio. Se proprio vuoi parlarne, fallo, ma domani ricordati di affermare che di leggi razziali ne sono state fatte anche dopo il 1945 da parte del Parlamento italiano e se ne fanno tutt’oggi, solo che le chiamiamo in modo diverso! Ci vuole coraggio a dirle certe cose, ma a te non manca, visto l’incitamento ai giornalisti a tenere sempre la “schiena diritta”!

Torniamo ad Auschwitz, con le camere a gas aperte, come sepolcri scoperchiati. Stiamo attenti a non rapinare quelle immagini per riempire le pagine dei telegiornali e della stampa cartacea o per insalivare i microfoni. Se il dolore non entra in noi, se il bisogno quasi di pagare per la generazione precedente, che si è macchiata di tale mostruosità, non è sentito, il dopo Auschwitz è veramente “spazzatura”. Ancora, non commettiamo il peccato di incoerenza: di piangere lacrime di coccodrillo il giorno dell’Olocausto e di flirtare il giorno dopo con i terroristi islamici, che vorrebbero morti anche gli scampati. Per alcuni non sono terroristi, ma guerrieri, degni di rispetto e di ospitalità e se un giudice che così si esprime viene stigmatizzato, egli si difende dicendo che ha applicato la legge. Se così è, significa che in Italia esistono leggi razziali. Capito signor Carlo? Perché parla alcuni giorni e tace altri? Non mangia forse tutti i giorni? Va bene la schiena diritta, ma anche la coerenza vorrebbe la sua parte. Sono gli equilibrismi, i distinguo della furba coscienza, la goccia iniziale di fiumi che poi travolgono.

L’Olocausto non diventi nemmeno speculazione filosofica sul bene e sul male, sulla dialettica positiva o negativa, che sarebbe gratuita generalizzazione e negazione di identità fisiche ben definite. Quei morti, peggio che ammazzati, erano ebrei. L’Olocausto li ha riguardati proprio per la loro identità, per chiamarsi Ismael, Golda, Isaiah milioni di volte. I nazisti derubarono la loro vita, noi non derubiamoli della loro identità. Ricordiamo lo sguardo di Anna Frank! Nei suoi occhi è scritto lo smarrimento, che solo il dolore può imprimere. Non eleviamo lo sterminio di Auschwitz a simbolo di tutti gli olocausti. Non tradiamo gli ebrei, confondendoli o sfumandoli nel simbolo. E se vogliamo celebrare, come dovremmo, altri olocausti, facciamolo chiamandoli ognuno con il proprio nome: l’Olocausto degli Armeni, dei Gulag russi, delle deportazioni degli ucraini e di tanti altri. Non cadiamo nel nominalismo e nella metafisica. Lo sguardo colpevolizzante di Anna Frank è uno sguardo ebraico, che continua a fissare noi e gli stessi sopravvissuti, togliendo ogni suono alle nostre parole.

Pietro Bonazza