Pietro Bonazza

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R.O.I. : UN INDICE PER LA STRATEGIA AZIENDALE

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(L’articolo è stato pubblicato nella rivista “Banche & Banchieri”, 1987, n. 1, pag. 43)

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Sommario:

1 – Premessa

2 – Concetti Correnti di R.O.I. – Interpretazione:

2,a) …economico-consuntiva

2,b) …strategico-commerciale

2,c) …microeconomica

3 – Proposte di interpretazione del R.O.I.- Applicazioni di:

3,a) …programmazione economica

3,b) …strategia tecnico-produttiva e strutturale

3,c) …macroeconomia.

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1 – PREMESSA.

L’analisi del bilancio per indici va assumendo crescente importanza nei momenti attuali particolarmente dinamici soprattutto per le imprese manifatturiere alla ricerca di nuove e più ampie fasce di mercato con il supporto di rinnovate strutture produttive.

La crisi economica degli anni settanta pare aver trovato la propria cura negli interventi di rinnovamento nell’organizzazione aziendale e nelle scelte di investimento.

Alla fondatezza delle diagnosi e alla razionalità delle terapie, spesso con interventi chirurgici, ha contribuito una miglior conoscenza delle realtà aziendali, rese evidenti anche da una più diffusa conoscenza di strumenti di analisi microeconomica, un tempo riguardati come sofisticazioni accademiche o raffinatezze culturali da alta direzione, ora, con l’impiego dei calcolatori, diventati di vasta diffusione, fin quasi a una pericolosa volgarizzazione.

Si potrebbe definire l’analisi di bilancio come un procedimento logico per l’interpretazione dei fenomeni economici, che in un determinato periodo di tempo hanno caratterizzato la complessa realtà aziendale e che il bilancio, nella sua struttura quantitativo-sintetica, ma anche parziale, non in grado di esprimere. E in questo procedimento logico gli indici si inseriscono come espressioni quantitativo-formali.

L’analisi deve proporsi almeno il fondamentale obiettivo di conoscenza dei fenomeni caratterizzanti i tre equilibri strutturali dell’azienda: patrimoniale, finanziario ed economico e, pertanto, in parallelo vi sono almeno tre gruppi di indici destinati a investigare i tre ricordati aspetti dell’unico fenomeno economico, la cui complessità rende difficile la riconduzione ad unità. Ma la consapevolezza di tale sua natura deve convincere della pluralità di significati dei singoli indici e anche della necessità di comporli tutti a sistema, proprio per il tentativo di cogliere l’unicità del fenomeno, senza la quale l’analisi diventa una sterile esercitazione algebrica.

Si potrebbe concludere che l’analisi è solo un mezzo per la massima sintesi di conoscenze finalizzata alla gestione.

Da questo contesto e senza dimenticarne la natura di parte del tutto si intende esaminare il R.O.I. (Return On Investment), un indice di collegamento fra la dinamica economica e la struttura patrimoniale, che pu rivestire un particolare interesse conoscitivo per suoi significati non solo microeconomici.

2 – CONCETTI CORRENTI DI R.O.I.

Il R.O.I., formalmente espresso nel rapporto fra Reddito Operativo e Capitale Investito,

ROI = RO/CI-

È ritenuto un indice rivelatore del grado di efficienza con cui la gestione ha utilizzato le fonti interne ed esterne di capitali e pertanto indice atto a esprimere la capacità dei processi produttivi attuati di remunerare capitali propri e di terzi.

Si può constare, a mio avviso, che l’interpretazione corrente del R.O.I. :

– economico-consuntiva

– strategico-commerciale

– microeconomica.

Scopo di queste note, sviluppato nel successivo capitolo, è la proposta di interpretazione e di utilizzazione del R.O.I. in termini di:

– programmazione economica

– strategia tecnico-produttiva e strutturale

– applicazione macroeconomica.

Esaminiamo le componenti della corrente interpretazione:

2,a) …economico-consuntiva.

La caratteristica principale del R.O.I. è già contenuta nella sua definizione di indice di redditività connesso al reddito operativo, che figura al numeratore del rapporto con funzione di remunerante del capitale, che sta al denominatore come oggetto da remunerare. Si tratta di un rapporto fra un flusso economico riferito a una unità temporale predefinita ed uno stock patrimoniale con relazione temporale non sempre proposta in termini coerenti, come si vedrà. Da qui la natura economico- reddituale dell’indice ed anche la sua caratteristica consuntiva; si potrebbe dire: storica, in quanto riferita a fatti accaduti.

Fra flusso e stock esiste una correlazione del tipo effetto-causa nel senso che il reddito operativo, tolti i prelievi fiscali destinati al socio-fattore Stato, serve per remunerare i capitali finanziari investiti che l’hanno prodotto.

L’interpretazione è corretta. Criticabile è l’espressione formale correntemente proposta quando se ne vuol accentuare la natura economico-consuntiva, collegando il R.O.I. al R.O.E. (Return On Equity) senza aver rispettato la coerenza temporale fra stock e flussi.

Il teorico dell’economia politica ha da tempo messo in luce gli equivoci e i rischi di errore di analisi in cui non siano preventivamente chiarite le condizioni ‘ex ante’ ed ‘ex post’, almeno nel senso che ciò che può essere vero nella prima può non esserlo nell’altra condizione temporale. Poiché la realtà economica è sempre dinamica e l’analisi statica è una posizione di comodo, ancorché proficua, della teoria, è necessario, soprattutto nelle analisi concrete, disporre di strumenti che tengano conto della realtà. Diversamente si possono ottenere indici inficiati da errori di approssimazione non sempre accettabili.

Per tali motivi l’analista non può condurre corrette analisi di R.O.I. riferendosi al solo bilancio di fine esercizio: espressivo, nel conto economico, di un flusso reddituale e, nella situazione patrimoniale, di uno stock, il cui riferimento temporale è puntuale finale, cioè riflette una situazione contestuale al momento in cui è ultimato il flusso. Mettere a rapporto quello stock con quel flusso significa rompere il collegamento dinamico fra cause ed effetti, in quanto le cause ‘ex ante’ sarebbero sostituite con valori ‘ex post’, che cause più non sono in quanto a loro volta modificate da sopravvenuti eventi dinamici. In astratto l’unico indice di R.O.I. correttamente proponibile potrebbe riguardare l’astratta situazione di un’azienda, che conserva a fine esercizio lo stesso valore del capitale investito esistente all’inizio. In tal caso sarebbe rispettata la sequenza causa-effetto, con l’avvertenza che i dati di stock dovrebbero essere desunti dal bilancio dell’esercizio precedente.

Proponendo in pratica un indice costruito con valori ex ante, data l’impossibile esistenza di una situazione di staticità del capitale investito, si incorrerebbe nella stessa critica di incoerenza fra causa ed effetto. La corrente dottrina suggerisce come correttivo l’uso al denominatore di uno stock medio, determinato con la media semplice fra il capitale investito iniziale e quello finale del periodo.

L’indice assume allora la nota espressione:

R.O.I. = (Reddito Operativo)/ [(Cap.Inv. iniz.+ Cap.Inv.fin.)/2] (1)

che può essere una proposta accettabile di rapporto causa-effetto di fronte alla difficoltà di stabilire più corrette formulazioni.

Resta valido l’avvertimento del teorico al pratico di usare gli indici con senso critico. Ad esempio: in presenza di ingenti investimenti concentrati in fine esercizio e quindi con recentissime modificazioni strutturali del capitale investito, un R.O.I. determinato anche con il correttivo dello stock medio potrebbe essere deviante, proprio perché gli investimenti di fine periodo non possono aver già espresso flussi di reddito.

La dottrina corrente, senza sottilizzare su pur importanti qualificazioni preliminari circa il riferimento temporale del capitale investito, propone collegamenti fra il R.O.I. e il R.O.E. che si traducono in indici del tipo:

[(ROI –(OF/MT))*(MT/MP)+ROI=ROE (2)

in cui:

– OF/MT è il rapporto fra Oneri Finanziari e Mezzi di Terzi, cioè l’indice del costo dell’indebitamento

– MT/MP è il rapporto fra Mezzi di Terzi e Mezzi Propri, cioè l’indice della “leva” finanziaria è trascurato, per semplicità, il prelievo fiscale e R.O.E. è anche pari a RN (Reddito Netto) / MP (Mezzi Propri).

La (2) è ottenuta partendo dalla definizione di

ROI=Reddito Operativo/Capitale investito=RO/CI

sostituendo:

-il numeratore con le componenti: RN (Reddito Netto) + OF (Oneri Finanziari)

-il denominatore con le componenti : MT (Mezzi di Terzi) + MP (Mezzi Propri)

e proponendo alcuni artifizi algebrici.

La (2) dà quindi una interpretazione di ROI in termini di ROE, ma partendo da un ROI che pone al denominatore un capitale investito non qualificato dal punto di vista temporale e che, in ogni caso, proprio per essere sostituibile con le sue componenti MT + MP, deve rispettare la condizione della identità del bilancio e cioè che:

CI = MT + MP .

Tale condizione è senz’altro verificata all’inizio del periodo. Però l’indice applicato con riferimento periodale iniziale è irreale per il dinamismo dei processi produttivi.

Se invece, come sembra, il CI riferito alla fine del periodo la condizione di bilancio non è più verificata a meno di comprendere in MP anche il reddito dell’esercizio, nel qual caso bisognerebbe modificare la definizione di ROI. È in pratica il problema della incidenza della tara sul peso netto o del ricarico sul prezzo di vendita anziché sul costo.

A prescindere dalle critiche espresse, è rilevante la constatazione che il reddito operativo, collocato in posizione centrale nella scala dei valori del conto economico consente, perciò, analisi bidirezionali. Volendo dare una espressione scalare si può esporre il seguente schema:

VENDITE NETTE

________

(meno: costi esterni)

Þ

VALORE AGGIUNTO (V.A.)

_________

(meno: costi interni)

Þ

MARG.OPERAT.LORDO (MOL)

________

(meno: ammortamenti)

Þ

REDDITO OPERATIVO (R.O.)

_______

(meno: oneri finanziari e imposte)

Þ

REDDITO NETTO (R.N.)

_____

La (2) propone un tipo di analisi in termini economico-reddituali e a carattere consuntivo, proprio perché, sviluppando il R.O.I. in termini di R.O.E., prende in considerazione le componenti a valle del reddito operativo. Inoltre pone in evidenza l’effetto della “leva” finanziaria, data dal rapporto MT/MP, che è un moltiplicatore tanto più elevato quanto più alto è l’indebitamento MT rispetto al capitale proprio MP. Ma bisogna osservare che il moltiplicando è un R.O.I. diminuito dell’indice del costo dell’indebitamento OF/MT, che diventa così la variabile determinante. Si conclude che quando l’effetto sottrattivo di OF/MT supera l’effetto moltiplicativo della “leva” finanziaria, la politica della gestione con espansione dell’indebitamento può condurre a pesanti riduzioni della redditività del capitale proprio fino a produrre perdite, come ha dimostrato la più recente storia economica.

2,b) …strategico-commerciale.

Una corrente interpretazione del R.O.I., proposta prendendo in considerazione componenti a monte del reddito operativo, fornisce invece una interpretazione più strategica, seppur sempre con valutazioni consuntive.

Posto ROI= RO/CI, moltiplicando numeratore e denominatore per il valore delle vendite nette si ottiene

ROI=(Reddito Operativo/Vendite Nette)*(Vendite Nette/Capitale Investito) (3)

Il primo rapporto è il noto R.O.S. (Return On Sales), il secondo un tasso di rotazione del capitale investito. Il primo è sempre minore di uno, mentre il valore del secondo dipende da condizioni interne, ma anche da fattori strutturali di settore.

Il significato strategico della (3) è nei suggerimenti che i gestori possono ricavare per il miglioramento del R.O.I., che è un obiettivo intermedio di fondamentale importanza per la realizzazione dell’obiettivo finale: l’incremento del R.O.E.

La leva più immediata per un miglioramento del R.O.I. può essere per la (3) un incremento delle vendite, evidentemente con una diminuzione dei prezzi o con un incremento di spese commerciali, possibilmente fermo o almeno contenuto, il valore del capitale investito. Data quest’ultima condizione, il secondo rapporto è destinato a migliorare per una aumentata velocità di rotazione del capitale ed in particolare dei magazzini. Più difficile, invece, una previsione sull’andamento del primo rapporto, data la difficoltà di mantenere l’originaria redditività delle vendite con una politica di riduzione dei prezzi o di aumento dei costi. Le risposte che i gestori possono darsi ai vari interrogativi sono in relazione con la struttura a disposizione. In pratica il R.O.I. consuntivo riflette la struttura esistente, con i suoi vincoli di difficile rimozione nel breve periodo, soprattutto per quanto riguarda il valore del tasso di rotazione, legato ad organizzazioni interne consolidate nel tempo. Vi è anzi il rischio, soprattutto nel caso di incremento delle vendite con inserimento di nuovi prodotti, che il tasso di rotazione non migliori in termini adeguati, se le strutture organizzative interne restano quelle consolidate.

Si può osservare che, ponendo come condizione il contenimento del capitale investito, si è implicitamente posta l’ipotesi di un mantenimento della struttura produttiva esistente, da sfruttare con un incremento della produzione, per soddisfare una più aggressiva politica delle vendite, anche nel caso in cui la proposta di marketing preveda inserimento di nuovi prodotti.

La (4), incentrata in pratica sulla variabile “vendite nette”, pone condizioni di miglioramento del R.O.I. legate al breve-medio periodo: da qui la sua funzione principale di interpretazione di politiche strategico-commerciali, seppur condizionata dai vincoli strutturali ricordati.

2,c) …microeconomica.

L’indice R.O.I., proposto dagli analisti di bilancio, è rimasto strumento utilizzato solo nell’ambito di ricerche di economia aziendale. Probabilmente il suo diretto legame con i dati di bilancio della singola azienda e la mancanza , almeno in Italia, di sistemi uniconti atti alla formazione di bilanci consolidati di settore non hanno certo agevolato estensioni dell’uso dei dati alle valutazioni macroeconomiche.

Come tutti gli indicatori di bilancio uno strumento per il gestore di valutazioni di fenomeni storico-aziendali e le sue proiezioni difficilmente superano il breve periodo. Ma, come si vedrà, può avere impieghi più vasti.

3 – PROPOSTE DI INTERPRETAZIONE DEL R.O.I.

Non come contrapposizione alternativa, ma come estensione alle tre caratteristiche della corrente interpretazione del ROI, esaminate nel precedente capitolo, sono qui esposte ipotesi di un indice con applicazioni di:

– programmazione economica

– strategia tecnico-produttiva e strutturale

– macroeconomia.

3,a …programmazione economica.

La definizione corrente del R.O.I., come indicatore di una efficienza gestionale consuntiva, già mette in evidenza la sua importanza nelle valutazioni che il gestore deve compiere per analizzare criticamente le politiche realizzate.

Disponendo di più dati storici relativi a periodi omogenei, perché caratterizzati dalla stessa struttura produttiva, si possono determinare: sia un valore standard interno, nel caso di un raggiunto assestamento, sia un trend, nel caso di evoluzione in atto. Comunque il R.O.I. non può non entrare con importanza determinante in un budget, in cui è posto l’obiettivo della redditività finale. La natura del reddito operativo, proprio perché “lorda” degli oneri finanziari, attribuisce al R.O.I. importanza anche per la direzione finanziaria, che è così posta in grado di valutare il valore del margine di contribuzione alla remunerazione del capitale di credito. Oltre alle valutazioni esposte al paragrafo 2,b) il gestore può utilizzare un R.O.I. storico per estrapolarne uno prospettico quando, avendo elaborato programmi di investimento, deve scegliere le fonti di approvvigionamento dei capitali. L’economicità della gestione trova nel R.O.I. un punto di verifica particolarmente critica.

Soprattutto in periodi di tensione occupazionale, storicamente coincidenti con fenomeni di ristrutturazione conseguenti a fasi di stagnazione, si agita il problema della moralità del profitto come unico fine dell’azienda. A parte la considerazione che l’unicità non può comportare di per sé un giudizio negativo, si può osservare che il problema dei moralisti è speculare a quello posto dagli economisti applicati, che rilevano come nelle grandi aziende: multinazionali, corporations etc., governate dal management e non dalla proprietà l’espansione dell’azienda tacitamente motivata da un obiettivo di allargamento del potere, più che dalla economicità. Si nota quindi che la variabile strategica diventa il fatturato, da incrementare a qualsiasi condizione, con un aumento degli occupati, meramente conseguenziale e quindi nemmeno moralmente meritorio. Esperienze anche recenti consentono di constatare come il successivo ciclo economico discendente, inevitabile ancorché non deterministico, imponga dolorose ristrutturazioni, che riportano le dimensioni a livelli di compatibilità economica.

Si potrebbe dire che tali errori dipendono da programmazioni insensibili al R.O.I., che è importante indicatore di fatti avvenuti solo se, come ogni fatto storico dinamicamente interpretato, entra nella razionale e critica proposizione di nuovi obiettivi.

3,b) …strategia tecnico-produttiva e strutturale.

Si osservato, con evidenza grafica al termine del paragrafo 2,a), che il reddito operativo occupa una posizione centrale nella sequenza delle variabili del conto economico. Si è pure rilevato che l’interpretazione corrente ha proposto elaborazioni con analisi a valle, di contenuto esclusivamente reddituale e a monte, privilegiando strategie di natura commerciale e di breve periodo. A mio avviso, se viene posto un obiettivo più legato alla struttura che alle vendite il R.O.I., deve essere analizzato nelle componenti a monte del reddito operativo, ma ponendo in evidenza la variabile strategica: valore aggiunto.

La crisi dei sistemi produttivi organizzati dei primi anni ’80 pareva superabile con processi di deverticalizzazione industriale e di smembramento aziendale, più sollecitati dall’intento di contrapposizione a una logica sindacale diventata perversa, che da razionalità economica. Si traduceva la scelta in slogan del tipo :”piccolo è bello”, probabilmente confondendo il piccolo con il “flessibile”. Ci si è però accorti che una industria di assemblatori e di lavoranti a domicilio non è più un’industria nemmeno in senso economico, anche prescindendo da orgogli imprenditoriali legati a visioni materiali di dimensioni spaziali e occupazionali. È innegabile che il profitto può essere conseguito anche con preminenza di commesse di lavoro esterno, ma il grado di condizionamento e di dipendenza dell’impresa possono diventare in molti casi più pesanti di una forza occupazionale interna sindacalizzata. Ci si è accorti che il “valore aggiunto”, indicatore del grado di verticalizzazione aziendale, tornava a essere la variabile strategica per la ristrutturazione delle imprese.

In questa ottica il R.O.I. può essere reinterpretato nel modo seguente.

Posto:

VA = Valore Aggiunto = Vendite – costi esterni

CL = Costo Lavoro

A = Ammortamenti

CF = Capitale Fisso

CC = Capitale Circolante

CI = Capitale Investito = CC + CF

e sostituendo, si ha :

ROI= RO/CI=(VA/CI)*(CL/CI)*(A/CI) (4)

La (4) offre una rappresentazione in cui, diversamente dalla (3) la variabile strategica non è più il fatturato, ma la struttura produttiva, anche legata alle vendite che compongono il VA.

Il collegamento logico, seppure non unico, del secondo rapporto componente la (3) fra vendite al numeratore e parte circolante del capitale investito al denominatore. L’analogo collegamento nella (4) fra valore aggiunto al numeratore e parte fissa del capitale investito al denominatore. Il rilievo reso pi evidente con una sostituzione di CI con le sue componenti. La (4) diventa:

ROI=[(VA/CF)*(CL/CF)*(A/CF)]*(CF/CI) (5)

in cui:

– VA/CF è un indice del grado di verticalizzazione già raggiunto e può rappresentare anche la produttività lorda del capitale fisso investito. Coeteris paribus, ogni incremento del VA agisce positivamente sul R.O.I.;

– CL/CF prescindendo da fenomeni di vischiosità sindacale (blocco dei licenziamenti, non mobilità del fattore lavoro), che sono realtà politiche più che economiche, il rapporto determina un indice del grado di automazione dei processi produttivi. In settori a stasi tecnologica o comunque a lenta evoluzione dell’innovazione di processo il rapporto tende a essere relativamente più elevato. In settori dove sono privilegiate la creatività e la fantasia (esempio: sartorie di alta moda, aziende di progettazione) il quoziente è strutturalmente elevato;

– A/CF è un indice di rotazione del capitale fisso e, in ipotesi di corretta politica di ammortamento, il valore del rapporto è legato alla velocità di evoluzione tecnologica. Pur essendo, come CL/CF, sottrattivo di VA/CF, assume, invece, andamento inverso. Infatti, il valore del numeratore tende ad aumentare in presenza di valori elevati del denominatore e con velocità accelerata in settori a turbolenza tecnologica o con previsione di innovazioni di processo;

– CF/CI è un coefficiente di rigidità con effetti demoltiplicativi della rimanente parte del R.O.I. Il suo valore “tende” all’unità in aziende che effettuano esclusivamente lavorazioni per conto di terzi, senza uso di materie prime proprie e con pronta smobilizzazione dei relativi crediti e “tende” allo zero in aziende che fanno scarso impiego di capitale fisso ( atelier di alta moda). Poiché il suo valore normale è comunque sempre inferiore all’unità, il coefficiente ha un valore riduttivo del R.O.I.

Tentando ora un’interpretazione di assieme e di sintesi della (5) si può considerare che il valore della parte di indice espressa dai quozienti fra parentesi è costituita dalla produttività delle immobilizzazioni in termini di valore aggiunto diminuita da indici che misurano rendimenti del fattore lavoro e di incidenza del grado di ammortamento.

Il valore fra parentesi può essere ritenuto un R.O.I. lordo che rettificato dal riduttivo coefficiente di rigidità. Ovvio che la sua misura resti definitiva nel caso limite di CF=CI (alcune singolari imprese di lavorazione ‘a façon’) e sia ridotta negli altri casi in relazione alla presenza del capitale circolante non considerato nella parte fra parentesi.

Ma la (5) acquista particolare importanza quando il R.O.I., parallelamente alle osservazioni descritte al paragrafo 3,a), è posto come variabile strategica per future politiche aziendali.

Differentemente dalla (3), sono qui poste in maggiore enfasi le problematiche legate alla struttura dell’azienda e si possono realizzare considerazioni collegate a programmi di medio-lungo termine. Posto un obiettivo di R.O.I. e verificato che non sia raggiungibile con un valore aggiunto ottenibile con la struttura produttiva a disposizione, deve essere indicato un piano di investimento in capitale fisso, che modifica tutti i rapporti legati a fattori di rigidità, come il rendimento del fattore lavoro e la flessibilità e il grado di evoluzione tecnologica prevedibile in futuro, ricordando che l’obsolescenza incide sul R.O.I. in termini riduttivi. Nuovi investimenti portano a riconsiderare criticamente, non solo organizzazioni commerciali e finanziarie come già avviene con la (3), ma, soprattutto, l’organizzazione dei processi produttivi. Il gestore ridiscute tutte le politiche gestionali, che sono coinvolte in un R.O.I. programmatico incentrato su obiettivi intermedi di valore aggiunto, a loro volta variabili strumentali per il raggiungimento dell’obiettivo finale di un miglioramento del R.O.E.

Ma l’opportuna utilizzazione della (5) per porre in luce le variabili strutturali dell’azienda può trovare un interessante completamento in una diversa formulazione della (3). Infatti

ROI=ROS*(Vendite Nette/Capitale Investito)

può essere scritta :

ROI=ROS/[ROS/(Capitale Investito/Vendite Nette)] (6)

o più semplicemente:

ROI=ROS/Intensità di capitale (7)

L’intensità di capitale è una categoria normalmente utilizzata dagli studiosi di economia politica, particolarmente macro-economisti ed economisti industriali e pertanto verrà analizzata nel successivo capitolo, che proporrà l’intensità di capitale come ponte fra argomentazioni di micro e di macroeconomia. Qui è necessario ricordare che gli economisti non ne danno una definizione uniforme.

Il denominatore della (7) risponderebbe alla definizione di intensità di capitale come rapporto fra capitale investito e volume delle vendite e, con alcune precisazioni, a quella parallela di rapporto fra capitale investito e volume della produzione.

In questo caso la (6) potrebbe essere scritta:

ROI=ROS/[Capitale Investito/(Produzione effettiva ± differenz. rimanenze)]= (ROS/Intensità di capitale)± ROS*(Differenz. Rimanenze/Capitale Investito) (8)

in cui:

vendite nette = produzione effettiva ± differenziale rimanenze.

In caso di equivalenza delle rimanenze iniziali rispetto a quelle finali di periodo, equivalenza normalmente realizzata nel medio periodo e in presenza di politiche razionalizzate e stabilizzate di inventory management, il differenziale dei valori di rimanenze tende a zero e quindi la (8) tende alla (6).

Utilizzando, invece, la definizione di intensità di capitale come rapporto fra capitale investito e capacità produttiva la (8) dovrebbe essere così modificata:

ROI=[ROS/(Capitale investito/(Capacità produttiva*tasso utilizz.)] ± ROS*(Differenz. Rimanenze/Capitale investito) (9)

in cui :

produzione effettiva = capacità produttiva . tassa utilizzazione

Ma posto:

u = tasso di utilizzazione delle capacità produttiva

P = produzione effettiva

P’ = capacità produttiva

I = intensità di capitale

e

u=P/ P’ (10)

e differenziale rimanenze tendente a zero,

la (9) può essere scritta:

ROI=(Redditività vendite/Intensità capitale)* grado utilizz. capacità produttiva

e in simboli:

ROI=(ROS/I)*u (11)

L’intensità di capitale racchiude, seppur in termini meno evidenti, i significati della (5) e, pertanto, la (11), dato il numeratore, esprime anche le evidenze della (3), fornendo inoltre utili indicazioni sullo sfruttamento del potenziale produttivo.

Un R.O.I. così inteso ed analizzato in tutte le sue implicazioni fornisce uno strumento di potente analisi per una indagine storica ed in termini di ‘target’ per un programma di modificazione strategica della struttura produttiva.

3,c) …raccordo con l’economia teorica

Gli anni ’60 hanno lasciato nella storia delle teorie economiche il segno di una teoria: “il ritorno delle tecniche”, incrostata da vivaci polemiche, alimentate più che da implicazioni logiche da pregiudiziali ideologiche, da cui spesso si lasciano condizionare gli economisti.

Paragonando un investimento ad alta intensità di capitale secondo una certa tecnologia ad altro con diversa intensità, la citata teoria ha inteso dimostrare che in periodo di saggi di interesse calanti il primo può diventare meno conveniente, per ritornare preferibile nel caso di ulteriore discesa o, in altri termini, che una diminuzione del tasso di interesse non sempre fa aumentare l’intensità di capitale, cioè non sempre spinge a investimenti con tecniche più meccanizzate e labour-saving. La teoria è accettabile, se si considerano le condizioni e le ipotesi pregiudiziali, forse non altrettanto alcune strumentalizzazioni volte ad affermare l’invalidità assoluta, o quanto meno la mancanza di validità generale, della relazione inversa fra saggio di interesse e intensità di capitale, sostenuta dalla scuola neoclassica.

Placate le dispute, ciascuna teoria rimane valida nelle condizioni che le sono proprie e si può richiamare il rilievo dell’economista Ricossa, secondo il quale la controversia per il “ritorno delle tecniche” non costituisce una dimostrazione contro l’economia neoclassica, che, invece, si limita ad affermare una probabile diminuzione del tasso di interesse di equilibrio come effetto di un aumento dell’intensità di capitale.

Il richiamo di queste dispute incentrate sull’intensità di capitale, ha lo scopo di verificare se le teorie possono trovare un collegamento con la comune esperienza aziendalistica. Le economie occidentali hanno vissuto una crisi generalizzata fino agli anni ’80, probabilmente anche a causa di una esasperazione della conflittualità del fattore lavoro, sia nel processo produttivo che in quello distributivo.

Dagli anni ’80 si sono avviati processi di ristrutturazioni, che hanno consentito recuperi di redditività dei capitali investiti. Non è questa la sede per una verifica della ricordata controversia alla luce dei fatti storici, ma si può riconoscere che i nuovi investimenti sono stati in prevalenza labour-saving e che vi è stato un recupero dei livelli di profitto. A parte la difficoltà di distinguere tra tassi di profitto e tassi di interesse, che per la teoria economica dovrebbero costituire un unico valore di equilibrio, almeno come tendenza di fondo dell’economia, pare evidente che la storia economica anteriore agli anni ’80 abbia confermato la tesi neoclassica, secondo la quale un’alta intensità di capitale, per effetto di una diminuzione del valore della produzione posto al denominatore del rapporto, determina una perdita di valore del saggio di profitto, come pure è evidente che una perdita del saggio di profitto spinge a ridurre l’intensità di capitale con investimenti, mirati a eliminare la causa della perdita di redditività.

Sul medio-lungo periodo la teoria neoclassica non potrà non ritrovare la sua conferma, allorché l’aumento della produzione e quindi della dotazione di beni, ridurranno il saggio di profitto.

può essere anche interpretato come una spiegazione della (11). Infatti poste le condizioni, apparentemente particolari per l’economia d’azienda, ma generalizzabili per l’intera economia, di:

– equivalenza del capitale investito con il capitale proprio dell’azienda, ciò che si verifica quando non vi capitale di credito, o il capitale di credito assimilato al capitale di rischio

– e quindi di inesistenza di oneri finanziari, in quanto la remunerazione del capitale investito destinata al capitale netto

si ha

Reddito operativo = Reddito netto = Profitto

e quindi ROI = ROE = saggio di profitto = saggio d’interesse

La (11) definisce anche in termini formali l’assunto dell’economia neoclassica di un rapporto inverso fra redditività ed intensità capitalistica e la constatazione pare non inutile per affermare la opportunità che l’economia di azienda cerchi di riconoscere le sue teorie nell’ambito generale dell’economia politica, di cui specializzazione.

3,d)… macroeconomia

Si può osservare che, come l’analista di bilancio trascura l’intensità di capitale, così l’economista ignora il ROI seppur per i motivi già espressi.

Riferendoci ancora alla crisi economica degli ultimi anni ’70 e agli interventi di ristrutturazione attuati, che in parte sono già storia, possiamo rilevare che due sono state le politiche poste in atto dalle aziende per sopravvivere ai rivoluzionari cambiamenti impositivi di una nuova cultura industriale:

una politica finanziaria

una scelta di nuovi investimenti

Qui l’analisi da micro si fa macroeconomica, per la generalizzazione che il processo ha ottenuto.

Con la fortunata coincidenza di favorevoli circostanze legate a evoluzioni dei mercati finanziari e monetari, le imprese hanno potuto ridurre l’incidenza degli oneri finanziari a valle del reddito operativo. Ciò ha consentito una modificazione strutturale delle fonti di approvvigionamento dei capitali, riducendo in prospettiva il divario fra R.O.I. e R.O.E..

Si potrebbe ritenere in prima superficiale approssimazione: fermo il R.O.I. è migliorato il R.O.E. Ma un miglioramento della redditività del capitale investito è solo illusorio. Infatti, tutto il capitale, di credito o di rischio, deve essere prima o poi remunerato in termini non inferiori ad investimenti alternativi, tenuto anche in considerazione, nella determinazione del tasso, della componente di rischio.

Se l’investimento dei capitali di rischio, che hanno rimpiazzato parte dei capitali di credito nelle fonti dei bilanci delle imprese, avranno trovato o troveranno quelle collocazioni razionali nell’ambito di politiche di rinnovamenti strutturali esaminati nel precedente capitolo in chiave microeconomica, si potrà sperare che anche l’intero apparato produttivo del Paese possa raggiungere i livelli di competitività che la sfida sui mercati mondiali impone per una sopravvivenza in condizioni di crescita economica. Ma se le singole imprese avranno inteso attuare solo operazioni di ingegneria finanziaria, il ricambio sarà stato inutile. Per l’intera economia non hanno significato distinzioni fra capitale di rischio e capitali di credito, poiché a livello macroeconomico si considerano allocazioni e impegni di risorse a prescindere dai soggetti detentori delle ricchezze, la cui qualificazione può interessare aspetti politici e non economici. Per il macroeconomista è interessante in via immediata il valore della produzione e in via mediata una sua equilibrata distribuzione. Il R.O.I. è allora la variabile da tenere in immediata considerazione, per controllare le evoluzioni dei processi produttivi aziendali. Se l’indice è importante per ogni singola azienda, non può non esserlo per vasti aggregati, almeno a livello settoriale.

Il R.O.I. è variabile particolarmente importante per momenti di transizione delle politiche aziendali e, quando siano coinvolti interi comparti, per una politica industriale generale. Si potrebbe affermare che le determinazioni di linee di intervento settoriale come agevolazioni fiscali o facilitazioni di sostegno o incentivazioni per ristrutturazioni, possono avere razionalità se sono fondate su valutazioni di R.O.I. consuntivi e programmatici. Forse mancano dati derivanti da affidabili aggregazioni, ma se una variabile è determinante per la singola impresa non può essere ignorata nelle sedi in cui si decidono politiche generali.

Ciò è tanto più importante per l’economia italiana e bresciana in particolare, strutturate su settori “maturi”, che abbisognano di interventi attenti e mirati per continuare a giustificare il sostegno, sia dall’imprenditore singolo, sia dall’economia generale. La definizione di settore maturo, come molte definizioni economiche, è relativa. Già è problematico definire che cosa è maturo, anche se, purtroppo, la maturità esiste. Ancora più rischioso sarebbe azzardarne diagnosi di sopravvivenza. Il settore automobilistico insegna! Vi sono maturità vigorose, talvolta anche… affascinanti. Ma ciò si verifica sempre in presenza di oculate politiche gestionali fondate su strategie che riservano particolare attenzione al R.O.I.

Di fronte alla constatazione di esigenze di investimenti di nuovi capitali, per attuare le ristrutturazioni necessarie ad uscire dalla crisi, in conflitto con la scarsità di capitali a tali investimenti riservabili da una finanza pubblica in progressivo spiazzamento di quella privata, economisti industriali e policy-makers hanno auspicato la realizzazione di investimenti riducendo nel contempo l’intensità di capitale. Hanno indicato negli investimenti flessibili il mezzo per superare l’apparente contraddizione. I robot, i processi CAD/CAM, le isole automatiche sembrano in grado di risolvere il problema. Anche i settori maturi ringiovaniscono se gli interventi sono razionalizzati. Ma l’intensità di capitale è la variabile strategica della (11) ed il R.O.I. è di quella auspicata razionalità l’indice misuratore.

Pietro Bonazza