Di certe pronunzie giurisprudenziali bisognerebbe dire, parafrasando Terenzio Mauro, habent sua fata sententiae. Che dire della sentenza della Corte costituzionale 8 giugno 2005, n. 225? [1] È difficile parlarne bene, soprattutto perché si inserisce nel filone cosiddetto “politico” del “non provocare danni al Fisco” [2], pur con tutto il rispetto del valore e delle buone intenzioni dei componenti di origine magistrale (1/3) e non parlamentare o presidenziale (2/3).

È noto che le sentenze della Corte possono essere:

– reiettive del dubbio sollevato e, quindi, confermative della norma;

– abrogative della norma;

la 225 è reiettiva, perché, dichiarandone la costituzionalità, è stata respinta la questione rimessa dalla Commissione Regionale del Piemonte sull’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui i prelevamenti non giustificati da un conto corrente bancario sono presunti come ricavi. Le motivazioni della Corte sono sostanzialmente due:

– il rinvio alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in caso di accertamento induttivo, si deve tener conto, in ossequio al principio di capacità contributiva, non solo dei maggiori ricavi, ma anche dell’incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno dunque detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati dal contribuente. La Corte costituzionale non dovrebbe aver bisogno di rinviare alla giurisprudenza di legittimità, sia perché il proprio giudizio deve essere autonomo e “genuino” sia perché la sua posizione deve semmai essere dialettica;

– la presunzione stabilita dal citato art. 32 deve essere intesa iuris tantum, quindi il contribuente può dare la prova contraria. È inutile placebo giuridico, perché è noto l’uso che il Fisco fa della presunzione e del rovesciamento dell’onere della prova, con buona pace della par condicio tra esso e il contribuente.

 

Queste critiche non disconoscono, però, che la Corte costituzionale è riuscita a trasformare una pronunzia tipicamente reiettiva in confermativa del principio che i ricavi non sono reddito, ma devono essere correlati a costi secondo una “incidenza percentuale”, che deve essere desunta da parametri esterni o interni alla stessa impresa. E non è poco!

Non si comprende, allora, il motivo per cui vi siano articolisti che tentano di dare fata a una sentenza, che, pur con qualche difetto, non ha bisogno di tanto.

Ci si è messo d’impegno, da ultimo, l’articolista Carlo Papa, che sul Bollettino Tributario, n. 23 del 2006, ha sentito lo strano bisogno di trovare a ogni costo una spiegazione logica della equivalenza prelevamenti=ricavi stabilita nel citato art. 32. L’articolista, dopo aver giustamente criticato la tesi che tale equivalenza non è una “sanzione impropria” comminata al contribuente che non giustifica i prelevamenti, scrive: «Sembra, invece, preferibile ritenere che il fondamento logico-giuridico della presunzione (secondo la quale “i prelevamenti sono posti come ricavi”) risieda nel fatto che il legislatore abbia ritenuto di applicare, nell’ipotesi di costi per acquisto non fatturato di merce o di spese diverse, il ricarico o la redditività del 100%.

Volendo esemplificare:

Prelevamenti per merce euro 100 + ricarico 100% = ricavo lordo 200 – 100 acquisto = ricavo netto 100;

Prelevamento per spesa euro 100 + redditività 100% = ricavo lordo 200 – 100 acquisto = ricavo netto 100.

In conclusione, così spiegata l’equazione prelevamento=ricavi, si comprende che il costo (relativo, restando assorbito nel particolare meccanismo di attuazione della presunzione) risulta riconosciuto dalla stessa modalità di quantificazione della presunzione».

Sennonché, questa spiegazione non è preferibile, ma semplicemente errata sul piano logico e su quello giuridico.

a) sul piano logico, perché se non si può sostenere che A=2A e, per rendere vera l’eguaglianza, si introduce un “diviso 2, allora A=2A/2 non è un’equazione, ma una banale identità, che diventa tautologia, quindi, ragionamento circolare e che i matematici scrivono A≡A

b) sul piano giuridico, perché la norma non autorizza tale ipotesi. Il principio lex plus voluit quam dixit, già da proporre con massima prudenza nel diritto ordinario, diventa impossibile in diritto tributario, che per natura rifiuta l’analogia e a fortiori la pretesa di ritrovare nella norma stessa una volontà nascosta o più ampia, che non potrebbe emergere dall’applicazione dell’art. 12 delle Preleggi, a meno di spezzare la compenetrazione di questa norma generale interpretativa tra espressione grammaticale e intenzione del legislatore. Diversamente opinando si potrebbe sostenere qualsiasi imposizione o tassazione anche non formalizzata nella norma o espanderne i limiti ad arbitrio. Se la presunzione della legge è prelevamento=ricavi cioè 100=100 non si può andare oltre con fantasiose supposizioni. Seguendo, invece, l’improponibile “preferibile ritenere che” del citato autore, si entra in un ragionamento tipico dell’iter circolare, se si propone di giustificare 100 di reddito (ma si noti che è anche il ricavo) sostenendo che i ricavi siano 200, da cui dedurre 100 di costi per ottenere 100 di utile.

La presunzione che i ricavi siano il doppio per far tornare il conto ad ogni costo non è prevista dalla norma, ma è una proposta ermeneutica, tra l’altro errata.

Se si accedesse a tale interpretazione bisognerebbe dimenticare il divieto del praesumpto de praesumpto. Infatti, bisogna associare a una presunzione di legge (ricavi=reddito) l’ulteriore presunzione dei ricavi doppi. Proprio questo saltus non è basato sulla legge. Infatti, la norma di riferimento è l’art. 32, comma 1, n. 2, DPR 600/1973, che in riferimento a prelevamenti da conti correnti bancari: «…sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, i prelevamenti annotati negli stessi conti e non risultanti da scritture contabili…». Il legislatore tributario ha cioè posto l’eguaglianza prelevamenti=ricavi e per l’esempio prima fatto: prelevamenti 100=ricavi 100.

La norma è stata interpretata come “doppia presunzione legale” [3]. A mio avviso questa qualificazione è giuridicamente contraddittoria, perché o si tratta di due presunzioni non collegate e allora il legislatore ha la libertà di porre le presunzioni che vuole, purché non incostituzionali, oppure il significato di “doppia presunzione legale” è da intendersi come due presunzioni, di cui la seconda collegata alla prima da un nesso eziologico, cosicché si realizza una illegittima presunzione di presunzione, perché violerebbe il principio di certezza della prova. Si supponga, con il ragionamento provocatorio dell’ “ammesso e non concesso”, che al legislatore sia consentita tale infrazione. Però, l’interprete non deve cadere nella violazione del praesumpto de praesumpto aggiungendo un’ulteriore “sua” presunzione. Infatti l’art. 32 citato pone l’equivalenza prelevamenti=ricavi e non doppio dei ricavi.

Rigettata, perché inaccettabile, l’ipotesi dell’articolista citato, resta la semplice presa d’atto della giurisprudenza di legittimità, confermata dalla sentenza 225/2005 della Corte costituzionale e cioè che, a prescindere dalla possibilità del contribuente di dare la prova contraria in regime di presunzione iuris tantum, l’equivalenza dei prelevamenti non giustificati con i ricavi non esaurisce il processo di accertamento, ma semplicemente lo inizia, facendolo rientrare nella prassi dell’accertamento induttivo prevista dall’art. 32 DPR 600/1973. A esso deve far seguito, per doverosa iniziativa del Fisco, il riconoscimento dei costi correlati. Il ragionamento riconosciuto dalla giurisprudenza è semplice e logico ed è del tipo:

tu contribuente non sei in grado di giustificare un prelievo di 100, quindi si può presumere, salvo prova contraria, che abbia conseguito equivalenti ricavi in “nero” di 100, però, siccome l’incidenza percentuale costi-ricavi rilevata nelle serie ricavata dai dati della tua stessa impresa è del 90%, si deve ritenere che tu abbia sottratto reddito imponibile ai fini dei tributi diretti di 10, cioè il 10% dei ricavi. Non si deve cioè confondere il traguardo con la linea di partenza.

Si noti anche che, seguendo l’ipotesi del citato articolista dei ricavi moltiplicati per due:

– si viola la lettera della legge che non ha previsto la triplice identità prelevamenti=ricavi=reddito

– e nel contempo si contraddice la logica (nessuno guadagna il 100%) e la incidenza percentuale degli altri ricavi. Infatti, si supponga che in sede di verifica l’Agenzia delle entrate abbia rilevato e accettato che la percentuale di redditività dei ricavi sia stata nell’anno in questione pari al 10%. Come si potrebbe sostenere che per un prelevamento, magari anche solo marginale, di 100 la percentuale di redditività sullo stesso diventi il 100%? L’unica giustificazione potrebbe essere ricercata in una tesi di “sanzione impropria”, che l’articolista citato ha definito come insostenibile.

In conclusione, si deve affermare che la dichiarazione di costituzionalità di una norma da parte della Corte, non esaurisce il processo interpretativo e applicativo della giurisprudenza di merito e di legittimità. La Corte, quando respinge come infondato un dubbio di costituzionalità, non fa altro che lasciare la norma nel suo status originario creato dal legislatore e all’interprete e all’esecutore permane il compito dell’applicazione secondo i canoni ordinari, senza valicamenti o costruzioni fantasiose.

Non si possono forzare i limiti previsti dai principi generali dell’ordinamento giuridico, perché: se tale attività è legittima, si apre una nuova indagine di costituzionalità della norma; se non legittima, si avviano prassi che la stessa norma e la ratio non consentono.

La presunzione di equivalenza: prelevamenti=ricavi (redditi) rientra in questa impostazione.

 

Brescia, 23 febbraio 2007.

 

Studio di consulenza aziendale, societaria e tributaria

dott. Pietro Bonazza


[1] In Boll. Trib., n. 13/2005, pag. 1081.

[2] Si veda di E. De Mita, Guida alla giurisprudenza costituzionale tributaria, Milano, 2004.

[3] Vedi D’Andrea, in “Il Sole-24 ORE” 18.12.2004, pag. 37.