L’Istat ha presentato il 21 luglio una “Indagine sulla competività del sistema produttivo italiano”. Per le medio-grandi imprese il rapporto analizza risultati sui bilanci del 1997 (si veda “ItaliaOggi” del 22, pag. 7). Alcuni dati sono significativi per lo stato di salute di questo segmento importante dell’economia e, innanzi tutto, occupazione peggiorata del 2%. A chi vede nel lavoro un fenomeno individuale e collettivo, che va oltre l’economia verso l’antropologia pur senza cadere nella mistica, si stringe il cuore. La freddezza delle statistiche non riuscirà mai a far dimenticare che per gli uomini veri il lavoro è la vita stessa. Ma nemmeno chi guarda alle cifre con cuore di pietra può esultare, perché, se gira la medaglia, non trova lo sperato aspetto positivo che almeno la redditività delle imprese sia aumentata. Come a dire: hanno perso tutti. E bravi i nostri governi, che lavorano con alacrità per distruggere economia, società e nazione. Ma il fenomeno non giunge inatteso, perché, quando: calano gli investimenti, la produttività peggiora e il clup (costo del lavoro per unità di prodotto) aumenta, allora l’economia, che non è un’opinione, è in grado di dire ciò che succederà dopo. Infatti, è successo. Una felice eccezione viene dal Nord-Est. Una volta si diceva dei veneti “faso tuto mi”, con ironia sulla qualità. Ora hanno imparato a fare tutto e bene e i risultati non mancano. Ovviamente a Roma debbono stare attenti, perché i veneti non hanno dimenticato di discendere da una razza orgogliosa e indipendente più antica dei romani (cfr. di Sabatino Moscati, “Così nacque l’Italia”). Altra eccezione sull’occupazione viene dalle Pmi, che, però, debbono pagare gli svantaggi della loro dimensione penalizzante: nell’evoluzione nei mercati e nelle condizioni per starci, nelle produzioni e nei processi per realizzarle, anche se hanno la fortuna di operare in un distretto, che pure sta cambiando nella sua organizzazione e nella rete dei rapporti interaziendali. Il quadro, in alcuni aspetti desolante, non può non spingere al pessimismo, perché, diversamente dalla finanza che è più effimera della moda, l’economia reale ha processi di cambiamento più lenti. Vuol dire, cioè, che, ammesso di invertire la rotta, continueremo a navigare in acque burrascose. Purtroppo, con la politica che abbiamo, il timone è bloccato. Un dubbio al confine della speranza: nell’indagine dell’Istat è compreso il Sud, dove, sarà per accesa fantasia, sarà per la presenza del mare, sanno nuotare anche sott’acqua e senza sommergibile. Vuoi vedere che…? D’altra parte non è facile farla a un napoletano. Provateci! Ci hanno provato recentemente anche in Confindustria. Risultato: i piemontesi han dovuto fare il cammino inverso di Garibaldi. La storia riserva strane vendette. Basta saper attendere! D’Amato, con quella faccia da scugnizzo cresciutello, lo ha capito; il blasonato automobiliere di Torino, no. Anche in questo poniamo speranze per un cambiamento nei risultati delle future indagini dell’Istat. (Questo articolo è stato pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 2 agosto 2000