Giulio Cesare è tra i pochi uomini a cui è permesso di affermare: io sono la Storia. Con i Commentari persino la scrisse, forse perché, come dice Carl Schmitt: la storia la scrive sempre il vincitore (ma prima di lui lo aveva già affermato Benjamin, che forse si ricordava di Radolico, “I ciompi”). La Storia è comunque impietosa: chi perde ha sempre torto anche se gli si dà l’appellattivo di “Magno”. Si prenda l’esempio di Gneo Pompeo. L’appellativo non gli servì a niente e non perché perse, ma per la causa della sua sconfitta. Ora, indagando i fatti del passato è comunque improponibile ricavare leggi della Storia. Il determinismo dello storicismo è una mistificazione. Tuttavia, senza pretesa di ricavare impossibili leggi, vi è una ragione comune per cui Cesare vinse (potremmo aggiungere alla sua serie: Alessandro, Napoleone, Gengis Khan, ) e specularmente perché Pompeo perse: vivere con i propri collaboratori e sottoposti. Cesare, pur di debole costituzione fisica, marciava alla testa dei suoi soldati, ne condivideva il vitto, le fatiche, la stanchezza, il freddo e le privazioni. Molti li conosceva persino per nome. Se vinceva, vincevano insieme, se perdeva, perdevano insieme (Plutarco, Cesare, 38,7). Lo avrebbero seguito ovunque, non perché così comandava, ma perché sapeva chiedgue. In otto giorni portò un esercito da Roma alla valle del Rodano. Probabilmente gli bastò un verbo: Ademus! Andiamo! Che anche quando è perentorio non è mai un ordine, ma un invito. Per diventare signore di Roma e del mondo intero, fece dieci anni di guerre lontano da Roma, ma vicino al popolo e ai soldati. Tutto il contrario di Pompeo, proconsole di Spagna e comandante delle legioni là dislocate, che, invece, viveva e tramava a Roma, attaccato alle tuniche dei senatori e senza nulla conoscere dell’esercito e del popolo. Viveva in alto, senza vedere ciò che stava sotto. Giusto che Cesare abbia vinto e Pompeo abbia perso. Sono fenomeni storici grandi, inadatti per un paragone, seppur, previa riduzione ai minimi termini, con la nostra attuale democrazia. Però una riflessione si impone: abbiamo in Parlamento più di un migliaio di rappresentanti del popolo. Vi sono poi politici locali: presidenti di regioni e di provincia, sindaci di città con ambizioni da podestà o governatori; presidenti di autorità di vario genere. Tutta questa pletora che avrebbe il compito di far funzionare la macchina amministrativa dei servizi pubblici del paese e soddisfare, al meglio, i bisogni del popolo, vive lontana dal popolo. Tutti viaggiano in carrozze riservate, in auto blu; se si ammalano vanno a farsi curare in cliniche straniere o in uno degli ospedali del nord dove la sanità funziona ancora. I figli li mandano a studiare all’estero o in scuole private. Che ne sanno di come funzionano i servizi pubblici, al cui buon ordine sono preposti e con costi enormi a carico della collettività? Cesare vince. Pompeo perde. Che poi finiscano morti ammazzati entrambi è fatto secondario. Alla fine è sempre la massa che vince e il capo che la sa interpretare. Anche Cesare aveva bisogno del popolo. Non si può governare senza il consenso, ma non si può avere consenso senza condivisione. I sacrifici, insieme sopportati, uniscono; la ricchezza e l’agio dividono.