In Europa la crisi economica scoppiata a fine 2007 è superata o no? La risposta a questa domanda è fondamentale e trascende, nella sua necessaria oggettività, le flatulenze politiche, che disturbano le diagnosi corrette. Rispondiamo che fuori della crisi ancora non siamo, soprattutto in Italia, ma le cose vanno meglio di alcuni mesi fa, anche perché la Germania è tornata a fare la locomotiva della Ue e si intravedono, seppur in prospettiva, spiragli, che alimentano un giustificato ottimismo, soprattutto se si rispetterannodue condizioni:

a)      Il risanamento delle finanze pubbliche, che significa sostanzialmente il contenimento della spesa pubblica e il controllo con rientro del debito pubblico dei vari paesi della Ue, che è esploso negli ultimi anni. Si dirà: anche negli Stati Uniti le cose vanno molto male in termini di debito pubblico, ma le cause sono diverse: il debito statunitense è alimentato dalle guerre, quello europeo da un welfare dissennato da panem et circenses;

b)       la riforma del “modo di fare banca”, che è argomento ampio e comprende riorganizzazione e dotazione di capitali.

Prendiamo in considerazione questo secondo punto.

Le banche italiane hanno sofferto meno della crisi rispetto alle altre europee, forse perché, essendo più piccole, hanno avuto minori possibilità di farsi prendere la mano. Se questa spiegazione di estrema sintesi può riflettere la realtà, si deve comunque dedurre che, dimensione grande o media, le banche devono tornare a “fare banca” e non speculazione o supporto alla stessa, se non si vuol piangere alla fine sul latte versato. Non che i portafogli delle banche italiane non contengano titoli spazzatura o che i loro armadi siano sgombri di scheletri: diciamo che ne hanno di meno. Di contro anche gli azionisti devono tornare a fare gli azionisti e non gli speculatori, per il che già ci pensare i fondi di investimento e le stesse banche. Una vecchia regola sostiene che a lungo andare il cassettista viene premiato, mentre chi si abbandona all’alternanza quotidiana con mentalità di “gratta e vinci” alla fine difficilmente si trova in mano un saldo attivo.

Ora, bisogna considerare che le banche si trovano in situazioni contraddittorie:

  • da un lato hanno necessità di capitali freschi per sostenere la loro funzione creditizia di appoggio a una ripresa economica e per affrontare i regimi restrittivi di Basilea 3. Ma i capitali si chiedono al mercato o, meglio, ai risparmiatori, che devono essere solleticati con prospettive di dividendi, oltre che di capital gain. Se il mercato non risponde, è inevitabile una politica di ritenzione dei dividendi per alimentare l’autofinanziamento, cioè la patrimonializzazione dall’interno. È una strada, però dipende molto dai numeri e dalle alternative. Il Governatore Draghi, per prudenza e senza fare analisi quantitative che comunque spetta alle banche fare, è da tempo che batte il chiodo della moderazione nella distribuzione dei dividendi, ma è evidente che anche la moral suasion non ha più la presa di un tempo. È un discorso circolare, una specie di quadratura del cerchio;
  • d’altro lato le banche devono anche affrontare il problema della pulizia dei loro attivi di bilancio, intasati da “titoli spazzatura”, derivati e altra carta straccia, ma soprattutto la eliminazione dei crediti deteriorati, che sono l’eredità della crisi delle imprese affidate. Così si è rivelata vera la battuta di Keynes: “se devi a una banca una sterlina il problema è tuo, ma se ne devi mille il problema è suo”. Il timore delle aziende è il fallimento, quello delle banche è rilevare perdite di bilancio difficilmente sostenibili. Il rischio, che per l’Italia vale 60 miliardi di Euro, li ha accomunati e questo spiega perché nell’agosto 2009 è stato siglato tra Abi e Confindustria un accordo di moratoria, scaduto il 31 gennaio 2011 e prorogato di 6 mesi. La moratoria tra banche e imprese in difficoltà è una realtà quotidiana da sempre; la novità è che gli accordi singoli sono stati sostituiti da un accordo generale.  Ma non è come nel finale delle fiabe ove tutti  “furon felici e contenti”, perché la scadenza prima o poi viene. Ora accadrà che le banche “puliranno” i loro bilanci con massicce operazioni di cartolarizzazione, inondando il mercato di carta straccia, che i risparmiatori, acquisteranno pro-quota ideale. Un detto popolare dice che:  “chi va al mulino s’infarina” ed è vero, ma si tratta di misura. Che le banche debbano mettere in conto una percentuale di perdite è insito nel loro mestiere, ma non che debbano compromettere i loro bilanci. E, allora, dov’è la causa? A mio avviso risale ai primi anni Novanta, quando le banche hanno incominciato a trascurare il territorio di elezione, attratte da miraggi finanziari e dalla riorganizzazione, che ha centralizzato ogni decisione con uso di programmi informatici, pretendendo di sostituire valenti e stabili collaboratori agenziali, con nomadi impediti di consolidare il contatto con la realtà del territorio. Questa è l’eredità di tutte le consulenze esterne della varie società di advisory, che hanno incassato miliardarie parcelle per insegnare ai banchieri ciò che i banchieri avrebbero dovuto insegnar loro, perché il mestiere si impara con l’esperienza e vivendo sul campo, non sulle slide riciclate da giovanotti imbottiti di teorie universitarie. Ricordiamo il Segretario della Difesa McNamara, che preferì elaborazioni informatiche alle strategie sul posto. Così gli Stati Uniti persero la guerra del Vietnam! Oggi ci sono banche che non lasciano ai loro capifiliale un minimo di spazio di manovra autonoma e decidono tutto in sedi centralizzate e lontane. I risultati si vedono e non è solo problema delle banche, ma dell’economia generale. La scarsità del credito è di sempre e la banca si giustifica socialmente se sa farne selezione professionale senza deleghe al computer.

Non esiste la scienza del banchiere, ma l’arte del banchiere e spesso il “naso”, se c’è, è meglio del computer, al quale vanno delegate le elaborazioni dei dati e non anche le decisioni.