Un tempo, nemmeno tanto lontano, quando i comunicatori (1) non facevano da amplificatore di ogni fatto anche di scarsa importanza, le sentenze della Cassazione le conoscevano solo alcuni giuristi e tra gli alcuni: qualche giudice, qualche avvocato, qualche commentatore accademico. Oggi, non appena una sentenza viene, non dico depositata in Cancelleria, ma solo pronunciata, è immediatamente preda dei cronisti a caccia di “notizie sensazionali” (2) . Così, quel che un tempo era una conoscenza ristretta diventa un fatto di costume, che fa tendenza. Pare giusto! Se fa tendenza una “squinzia”, che, con finto candore intimista (3) , confessa all’amabile conduttore televisivo il suo senso di “liberazione artistica” mentre si spoglia davanti alla cinepresa, perché non dovrebbe farlo la Cassazione? Abbiamo o non abbiamo una ministra delle “pari opportunità”? E che vorremmo discriminare i giudici di cassazione? E, allora, interpretiamoli! Ma non è facile: · il 29 ottobre 2000, abbiamo appreso che gli studenti che occupano la scuola non commettono reato, anzi in scuola possono entrare quando vogliono; · il 5 novembre 2000 sappiamo che, se il ragazzino non va a scuola, il padre commette reato. Ci si chiede se tra le due sentenze, destinate a incidere sul costume di questo strano popolo, nel cui nome sono state emesse (4), esista un collegamento logico. Esiste! Perché, vedi caro papà, tu devi mandare a scuola tuo figlio e non devi aver paura che lì possa apprendere cattivi insegnamenti. Puoi mandarlo liberamente. Se poi occupa la scuola, come allenamento per occupare domani la fabbrica, non preoccuparti, perché non è reato e ciò che non è reato non è male. Vai tranquillo. D’altra parte, deve aver pensato il giudice di cassazione: ‘sti ragazzi debbono pur applicare ciò che apprendono dalla televisione. Pare tutto consequenziale. O no?

Note: (1) Assicuro che né l’Accademia della Crusca, né Niccolò Tommaseo c’entrano. Uso questo termine invece di mass-media per non dar soddisfazione a tutti gli anglofoni del globo, che dimenticano o non hanno mai saputo, che più di metà del vocabolario inglese deriva dal latino e ce lo riciclano ogni giorno intorbidito da un biascicamento incomprensibile, che mi ricorda povere vecchiette sdentate, analfabete però sante, intente a pregare in latino. Mi capita spesso di sentire termini incomprensibili pronunciati da seriosi finanzieri con l’aria del piccolo furfante, che dopo aver rubato la mela ti guarda per avere conferma se ti ha fatto o no fesso. In questo giochino un po’ stupidello la Regina Elisabetta non ha gran colpa, già le basta quella di “reggere” (si fa per dire!) l’Inghilterra. Colpevoli sono i suoi stallieri.

(2) Scoop in inglese; ma ricordiamoci che la parola significa “cucchiaio, sessola, pala” e anche “mestolata, palettata “. A essere precisi uno scoop è una palettata di broda, di melma, per usare un gentile eufemismo, e rende bene l’oggetto delle attenzioni del cronista ansioso di metterci su la “mano”.

(3) Posso garantire che non esiste alcun nesso intenzionale con l’ “intimo”, riferito all’abbigliamento.

(4) Anch’io faccio parte del “popolo”, ma non ho mai concesso a nessuno di usare indirettamente il mio nome per emettere sentenze di alcun genere. E Voi, dialoganti, avete mai rilasciato tale mandato? Dite che non è necessario, perché lo prevede l’art. 101 della Carta costituzionale? Forse la colpa è mia, perché sono fermo all’art. 13 in attesa di vederlo realizzato. Sono schiavo dell’idea che è inutile accendere la lampadina n. 14, se non riesco prima a spengere la n. 13. Logica deteriore, di sapore teutonico! Però “spengere” è verbo usato nell’Italia mediterranea e mi piace più di “spegnere”.