Osservazione critica su abuso del diritto ed elusione fiscale

 

Premessa

 

La scuola italiana di scienza delle finanze distingue tre cause di riduzione del gettito fiscale: erosione, evasione ed elusione dell’imponibile sul reddito annuale del contribuente. La prima è promossa dalla stessa Amministrazione finanziaria e non richiede commenti perché strumento di politica e scelte sociologiche; la seconda è una decisione del cittadino che intende passare dalla categoria dei contribuenti potenziali a quella dei non-contribuenti effettivi ed è la più difficile da combattere perché il contribuente si nasconde lasciando o non lasciando traccia nel sistema; la terza, la più flessibile è anche quella che può essere meglio contrastata dall’Amministrazione, perché il contribuente è palese.

Se ci concentriamo su quest’ultima figura, notiamo che, dopo provvedimenti normativi incerti, l’Amministrazione finanziaria ha ottenuto dal legislatore l’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, che, come si vedrà, per filogenesi è stato assorbito nell’art. 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente).

L’abrogato art. 37-bis prevedeva:

«1. Sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare, anche mediante abuso del diritto e pur se non venga violata alcuna specifica disposizione di legge, obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere, riduzioni di imposte, rimborsi o risparmi, altrimenti indebiti. Costituisce abuso del diritto l’utilizzo distorto o artificioso di una o più disposizioni di legge, precipuamente finalizzato ad ottenere vantaggi fiscali illegittimi o, comunque, contrari alle finalità perseguite dalla normativa tributaria. 1-bis. E’ fatta salva la facoltà per il contribuente di scegliere le forme giuridiche negoziali o i modelli organizzativi che comportino l’applicazione del regime di imposizione più favorevole. 2. L’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse o aggirate anche mediante abuso del diritto, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione. E’, in ogni caso, preclusa l’applicazione di qualsivoglia sanzione, anche penale».

Il nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente recita:

«1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni.

  1. Ai fini del comma 1 si considerano:
  2. a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato;
  3. b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.
  4. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
  5. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale…».

Il confronto formale tra le due norme consente di rilevare più differenze, ma quello sostanziale evidenzia uniformità di impianto concettuale, sicché si può sostenere che la giurisprudenza affermata sotto il regime dell’art. 37-bis può essere oggetto di valido riferimento sostanziale anche successivamente.

 

 

 

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Analisi

 

Il concetto di “abuso del diritto” non è facilmente traducibile in una definizione, vero è che ha potuto alimentare una corrente di pensiero che lo definisce una contradictio in terminis. Pur rifiutando posizioni assolute, la scuola italiana è sempre stata prudente sul concetto e lo ha accettato a condizione che sia stato identificato preventivamente il “limite del diritto” per verificare, quando non formalmente espresso in una norma, la sua area implicita. Quindi di abuso del diritto si può parlare solo quando esista un valicamento del limite. Ma in questo caso non c’è nemmeno bisogno di ricorrere a un concetto di abuso, perché si tratta di situazioni semplicemente illegittime o praeter legem, per le quali esistono nell’ordinamento strumenti consolidati e collaudati. In sintesi l’abuso del diritto si tradurrebbe in comportamenti per cui una norma viene applicata contro il fine propostosi dal legislatore, però confondendo l’abuso con la realtà che è una violazione di legge. Se come è stato prima accennato, l’abuso richiede una preventiva ricerca del limite, è su questo che va concentrata l’attenzione, da lasciare a chi è ben attrezzato in filosofia del diritto. [vedi in Novissimo Digesto Italiano, M. d’Amelio, vol. I, pag. 95, voce “Abuso del diritto”]

La scuola italiana, ha guardato in pratica con scetticismo a questo preteso istituto, ma a lanciarne la moda è stata la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che non si è sempre dimostrata un “giudice di Berlino” né un “fine giurista”.

La nostra Corte di Cassazione, in sentenza 4 aprile 2008, n. 8772, ricorda che il principio dell’abuso di diritto si è «…affermato in ambito europeo…», da cui traspare un mero adeguamento a una giurisprudenza sopranazionale, condivisa con trasparente freddezza.

 

Invece, l’Amministrazione finanziaria deve essere rimasta soddisfatta dell’ingresso dell’abuso di diritto nel nostro sistema, perché si presta, con facilità seppur superficiale, a essere esteso all’applicazione delle norme tributarie.

Innanzi tutto si deve osservare che l’abuso di diritto è connesso al business purpose a sua volta collegato all’economic substance [Si veda di P. Bonazza, Le “valide ragioni economiche” nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, in “Bollettino Tributario”, n. 13/2006]. Negli Stati Uniti, i concetti sono applicati al diritto tributario e per economic substance si intende l’interpretazione che il giudice fa del comportamento del contribuente e gli nega il riconoscimento di benefici fiscali se l’operazione che origina quei benefici è priva di sostanza economica, instaurando così una operazione simulata. La dottrina del business purpose, collegata alla precedente, è indagine soggettiva volta a scoprire se il contribuente ha programmato l’operazione sospetta per realizzare un qualche fine di sottrarsi all’imposta.

La Corte europea ha recepito questi principi, innestandovi il concetto di “abuso del diritto”, che soffre però delle critiche che l’hanno lasciato al margine della scuola italiana. Su un punto c’è un comune denominatore tra Stati Uniti, UE e applicazione italiana: il suo uso nel diritto tributario, lasciando fuori altre aree del diritto civile per le quali l’abuso di diritto diverrebbe applicabile, se si usasse pari disinvoltura.

In diritto tributario è evidente il tentativo di utilizzare il concetto di abuso per allargare le maglie dell’ex art. 37-bis DPR 600/1973 fino a trasformare un principio antielusivo specifico in generale dell’ordinamento.

La norma italiana contiene, quasi fosse un rinvio recettizio, i due principi statunitensi dell’economic substance e del business purpose secondo i significati sopra richiamati, come si evince dall’espressione letterale dell’art. 37-bis: «Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti».

È evidente che l’economic substance è il compimento di operazioni prive di “valide ragioni economiche” e il business purpose è lo scopo di realizzare risparmi di imposte. Anzi, la norma italiana è meglio espressa, perché pone un collegamento tra i due principi nel senso che se le operazioni compiute sono sorrette da valide ragioni economiche, esse sono opponibili all’Amministrazione finanziaria, ancorché ne derivino eventuali risparmi di imposte, la cui liceità è già scontata a priori dall’esistenza delle valide ragioni economiche. Se, come tenta l’Amministrazione finanziaria, bastasse il risparmio di imposta non avrebbe senso la premessa delle valide ragioni economiche, perché l’inopponibilità sarebbe assorbita nel risparmio di imposta. Invece, accertata la condizione preliminare dell’esistenza delle valide ragioni economiche delle operazioni, il fatto che ne derivi un risparmio d’imposta non fa venir meno l’opponibilità all’Amministrazione finanziaria. Ovviamente l’Agenzia delle Entrate tende a porre il risparmio di imposta come condizione preliminare con l’obiettivo di allargare l’area dell’inopponibilità e addirittura a rendere l’art. 10-bis citato norma antielusiva di portata generale per l’intero sistema tributario, anche contro la logica del sistema statunitense dell’economic substance e del business purpose. Riconoscere validità incondizionata all’abuso del diritto è introdurre nel sistema dell’antielusione una componente non necessaria e confusionaria.

Si tenta di giustificare l’esistenza, giuridicamente assai dubbia, dell’abuso di diritto come un principio generale dell’ordinamento. A parte il fatto che dall’ordinamento non si può dedurre ciò che fa comodo, perché generalizzando il fenomeno si possono realizzare tutte le integrazioni ed estensioni desiderate vanificando persino le norme positive. Il principio dell’ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit, che è uno dei cardini del diritto positivo e della certezza del diritto, sarebbe facilmente vanificato, ma l’irreparabile danno ricadrebbe anche sul Fisco, perché l’abuso può essere imputato anche all’Amministrazione finanziaria e perché se può esistere un abuso ne deriva la possibile esistenza dell’ “abuso dell’abuso”. Per fare un esempio: se l’applicazione che l’Agenzia delle entrate fa dell’art. 10-bis valica i limiti della letteralità e della logica della norma stessa, si potrebbe sostenere che compie un abuso di diritto, anche se di tale strumento non c’è bisogno, perché si tratta semplicemente o di violazione di legge o di errore logico di interpretazione. Se l’Amministrazione pretendesse di rifugiarsi nell’abuso di diritto cadrebbe nell’ “abuso dell’abuso”,
ma, ammesso e non concesso di riconoscere fondatezza alla teoria dell’abuso, resterebbe sempre l’obbligo sottolineato dalla miglior dottrina italiana della ricerca dei limiti.

Nel caso dell’art. 10-bis i limiti sono chiaramente espressi dalla legge: l’inesistenza di operazioni prive di sostanza economia (l’esistenza di valide ragioni economiche, secondo l’art. 37-bis).

 

Ma il concetto di abuso di diritto coinvolge anche il concetto di prova. Imputare al contribuente di aver compiuto un preteso abuso di diritto e pretendere anche che lo stesso fornisca la quantificazione delle soluzioni alternative costituirebbe un “abuso di prova”. Ma la Corte di cassazione con sentenza 24 gennaio 2009, n. 1465, ha ben chiarito i termini del problema. Si devono ricordare tre sentenze, di cui è importante osservare anche la sequenza temporale:

  • 17 ottobre 2008, n. 25374, che ha affermato: «la figura dell’abuso del diritto costituisce un mezzo di contrasto all’elusione fiscale, che ha un carattere di accertamento semplificato per l’amministrazione, il quale, come avviene per i meccanismi presuntivi di cui la legislazione fiscale fa largo uso, non impedisce certamente l’uso di strumenti più penetranti, nei quali si fanno valere le categorie di patologia negoziale, quali la nullità delle varie ipotesi». La sentenza, come si nota facilmente, sottolinea la finalità e la funzionalità dell’art. 37-bis, perché o ne definisce la superfluità, essendo superata dall’abuso di diritto, o ne certifica la insufficienza, come avesse bisogno dell’abuso di diritto per raggiungere l’obiettivo di contrasto all’elusione; ma, si sa che così non è, perché l’elusione è contrastata dalla norma espressa senza bisogno di ricorso a principi generali. Inoltre, si nota che la sentenza non si cura di indagare e di rilevare eventuali limiti inespressi dell’art. 37-bis, forse proprio perché la Cassazione sa che nell’art. 37-bis il limite è chiaramente indicato nelle “valide ragioni”;
  • Unite, 23 dicembre 2008, n. 30055, che invoca l’ordinamento quando esiste la norma ad hoc stabilita dall’art. 37-bis. Afferma, ma si ripete è un pleonasma, che: «…non può non ritenersi insito nell’ordinamento, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale». La sentenza non aggiunge alcun contributo nuovo rispetto alla letteralità della norma, a cui intende offrire una superflua giustificazione, anzi ne ripete la contraddittoria proposizione, perché giustifica il comportamento del legislatore, che finisce per sanzionare l’impiego di forme non contrastanti “con alcuna specifica disposizione”; ma se non c’è contrasto non c’è nemmeno violazione, semmai c’è carenza legislativa, ma non si può pretendere che il contribuente sia anche autolesionista. Ecco perché se si abbandona la priorità assorbente delle “valide ragioni economiche” si cade non in abuso di diritto ma in “abuso di abuso”. Si può anche affermare, sul piano della valutazione sociale, che la norma è un derivato dalla ideologia dell’elusione, ma questa è considerazione fuori dal diritto positivo. La norma è quello che è: o la si ritiene giusta è allora ogni commento è inutile, o la si giudica ingiusta e va cambiata. Punto e basta. Però la sentenza della Corte è importante, perché conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che se esistono “valide ragioni economiche” ogni altra valutazione e indagine sono superflue;
  • la citata 24 gennaio 2009, n. 1465, che, senza smentire le precedenti, ha affermato che: «…è onere dell’amministrazione finanziaria non solo prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche di reddito ma anche le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato». La sentenza ha il pregio di mettere in chiaro l’importante principio della prova. Il fatto che l’art. 37-bis dichiari la non opponibilità al fisco di certe scelte giuridiche legittime non evita che l’onere della prova della irragionevolezza, entro una “logica di mercato”, incomba a chi rifiuta l’opponibilità e ripristina quell’asse di equilibrio tra il fatto e la prova, che è una garanzia di comportamento corretto e logico sul piano dell’applicazione formale e processuale del diritto.

 

Come si può notare agevolmente l’abuso del diritto non è istituto necessario per aggiungere gli obiettivi dell’art. 10-bis dello “Statuto del contribuente”, norma che ha assolto il suo compito ben prima dell’invenzione della Corte europea. Precipitarsi a innestare il concetto nel nostro sistema suona più come atteggiamento ideologico a favore del Fisco che come necessità di chiarimento.

  

Pietro Bonazza