Esiste un rapporto tra bontà e intelligenza? Esiste!
Un cretino buono è, al meglio, un buon cretino. La bontà richiede sforzo, quindi sofferenza dell’intelletto, non perché l’uomo sia cattivo di natura, nonostante l’ascendenza a Caino, o possa diventarlo con fatica, ma perché la bontà deve essere riconosciuta tale più che dal beneficiato dall’autore e questo passaggio esige impegno autovalutativo. È raro che il cretino riesca in questa autocritica. Giovanni Gentile ha scritto più di una pagina densa di spiritualità sull’autoctisi o volontà di fare il bene. Io penso al dopo che il bene è stato fatto e, per rimanere nel linguaggio gentiliano, il “buono” deve eseguire l’autocritica dell’autoctisi.
Questa riflessione mi pare uno dei modi per dire con parole diverse il pensiero tragico di Dostoevskji, che nei “Demoni” così si esprime nel colloquio tra Kirillov e Vsevolodovic: «…gli uomini non sono buoni perché non sanno di essere buoni…», ripreso anche da Henri de Lubac nel “Dramma dell’umanesimo ateo”. Dietro le parole del grande russo possono esserci anche significati più reconditi, come se contenessero una sfida alla filosofia morale e all’inesauribile circolo ermeneutico, ma la conclusione potrebbe essere sempre la stessa e cioè che l’intelligenza non pretende la bontà, ma questa senza l’intelligenza è orfana.