“Imbecillità” è una parola dall’etimo incerto. Contro chi sostiene che viene dal latino in baculus, cioè deambulare in modo insicuro appoggiandosi a un bastone, vi è chi afferma – ed è l’autorevole Devoto – che viene da imbecillus, cioè “debole”, in latino.
Che differenza fa? Sempre latino è e sempre di debolezza “di testa” si tratta! Quindi la parola, in sé, non crea problemi. Problemi ne crea il tentativo di elevare l’imbecillità a metro di misurazione, non tanto perché, derivando da nome latino con suffisso in itas, indica una qualità, quanto per il dubbio a chi applicarlo, o, meglio, vista l’equa distribuzione e la frequenza della sua manifestazione tra i mestieri e le professioni (l’imbecillità può essere una professione), a chi “non applicarlo”. Prendiamo il mondo della carta stampata: qui è dura la gara tra quelli che scrivono e quelli che leggono e poi scrivono lettere ai primi, che raramente le leggono.
Ho capito perché gli insegnanti di lettere vogliono abolire lo studio dei “Promessi sposi”: lì di dimostrazioni di imbecillità non ne trovi e questo vuoto non serve a educare i pupi a scrivere quel che leggiamo su muri e treni imbrattati. È vero: l’alfabetizzazione della società non supera la soglia della lettura e della scrittura delle 21 lettere dell’alfabeto. Quanto a comporle…