L’abuso di sigle e acronimi, oltre che violazione di chiarezza è ormai stimolo di repulsione. Dico, allora, Documento di Programmazione Economica-Finanziaria, che, in teoria, dovrebbe essere quel documento, vincolante anzichenò, con cui il governo enuncia i suoi obiettivi e che dovrebbe, costituire la premessa per il bilancio dello Stato e la Legge finanziaria. Non è un documento contabile, come sembra enunciare il titolo; cioè non è un budget, che ogni sana impresa, grande o piccola, fa ogni anno per darsi un itinerario. È un documento politico e, come quasi tutti i documenti politici, è importante ciò che tace e non ciò che dice. Viviamo un momento particolarmente delicato e, come mai, privo di una sia pur àncora logica. Il governo non rappresenta neppure la maggioranza, che lo delegittima continuamente nei fatti, sostenendolo a parole. D’altra parte la maggioranza è solo una gara tra saprofite, che intendono succhiare il massimo da una pianta a forma di stivale e ciò si giustifica anche perché il capo di gabinetto, nemmeno membro del Parlamento, non è espressione di alcuna forza politica, che faccia parte del groviglio della maggioranza. Ma nemmeno il Parlamento rappresenta il paese, perché la massa fluttuante di peones, che si sono venduti al miglior offerente del momento come al mercato del pesce, sono sempre pronti a migrazioni secondo spirar di vento. Oggi il paese è rappresentato più precisamente nelle Regioni e questo è l’unico fatto positivo di un federalismo di fatto, che sarebbe realtà politica, se derivasse da una volontà centrale di realizzare un disegno organico e costituzionale e, invece, è solo il riflesso storto della debolezza e della inerzia del centro, che, purtuttavia, si abbarbica al potere, sfruttando la legge e la burocrazia romana.In questo quadro, da impero in disfacimento, ma anche di assalto alla diligenza, come dimostra la corsa alle promozioni dei burocrati, è semplicemente impossibile che un DPEF sia ciò che è previsto dalle istituzioni. Nelle sue apparenze è un nulla di nulla, di cui solo un umorista involontario come Amato riesce a vantarsi. La sostanza è ciò che non dice o finge di non prevedere. Qui sta il punto. Perché un’impresa che non riesce a prevedere componenti fondamentali del suo programma, farà a meno di realizzarli, ma per un intero paese valgono regole diverse. Per esempio, se un DPEF non prevede interventi legislativi essenziali per risanare il settore pensionistico e non si cura delle coperture finanziarie, non per questo, venuto il momento del pagamento, si potrà dire che, siccome il DPEF era carente, non si possono pagare le pensioni. Semplicemente si farà ricorso all’inflazione e in un modo o nell’altro le pensioni verranno pagate. Ecco, perché un DPEF preoccupa più per quello che tace che per quello che dice. E di problemi gravi, ormai giunti al pettine ce ne sono tanti. Ce lo dicono i Monti della Ue, i Tanzi del FMI, i Padoa-Schioppa della BCE e in questi giorni anche Prodi, che tanto vorrebbe essere a Roma, perché nella broda capitolina ci sguazzerebbe come un fagiolo nel minestrone. Che dicono i nostri? Per tutti risponde Dini, il più diplomatico dei nostri governanti, capace di arrabbiature bibliche. Lui sì che, ben conoscendo il dialetto fiorentino, difende il nostro governo nazionale, avvolto nel tricolore, come trinciato in una foglia di tabacco. Ce lo fumiamo domani anche se siamo atabagici e tanto per fare un dispetto a quel simpaticone di Veronesi, il meno costoso dei ministri, perché è vegetariano.

Fonte: G. Pelosi, “Amato: il governo sta facendo il suo dovere”, in “Il Sole-24ORE”, 4.7.2000, pag. 3.