Trent’anni fa moriva Dino Buzzati, scrittore eccellente, giornalista capace dell’elzeviro – che è di pochi – pittore dal tratto poetico e mistico, ma, soprattutto, uomo buono, come rivelano quel gioiello di profonda religiosità “I miracoli di Val Morel” e l’imprevedibile conclusione dell’elzeviro “La rivolta dei cretini“, pubblicato il 23 maggio 1967 sul “Corriere della Sera”. Ferdinando Castelli gli ha dedicato l’ottimo articolo Il problema religioso in Dino Buzzati sulla “Civiltà cattolica” del 6 luglio 2002.
Buzzati ha lasciato buoni scritti, che solo l’imperversare di una unilaterale cultura di sinistra è riuscita a mettere in un angolo. Non vedo verso Buzzati qualcosa di diverso nella attuale cultura di destra, che tenta ora di alzare la testa, ma è corta di collo. Ed è un peccato, perché proprio “La rivolta dei cretini” è una dimostrazione di autentico e sereno spirito liberale. Ma in Italia sono molti i liberali che non stanno a destra, se no non si spiegherebbe perché la premiata ditta “Fassino & D’Alema” si senta in diritto di autoproclamarsi neoliberisti.
Allora, nel mio piccolo, tento di ricordare un maestro di umanità, riproponendo la pubblicazione di quell’elzeviro, lontano ma non datato.
Però, l’omaggio a Buzzati non può limitarsi a un’opera di ristampa: deve avere un seguito. Sarebbe stato opportuno un commento, ma quell’elzeviro non ne ammette: è chiaro e completo, parla a chiunque e non ha bisogno di interpreti o chiosatori. Oltretutto è un apologo e, allora, propongo una specie di inverso, “La rivolta degli eguali“, che nelle intenzioni potrebbe essere come il rovescio di un tessuto. Chissà se il mio sarebbe piaciuto a Buzzati! Lui era un uomo buono e tutto sommato ottimista; ma il rovescio del panno è sempre l’opposto, eppure, come la moneta, non esiste per il solo diritto: vuole il rovescio come necessario complemento.
Grazie Buzzati, per la lezione di umanità! Gli uomini di cuore non Ti hanno dimenticato.
Dino Buzzati, LA RIVOLTA DEI CRETINI.
“Corriere della Sera”, martedì 23 maggio 1967
Eliminate che furono le cosiddette ingiustizie sociali, il governo si rese conto di aver fatto, per la felicità della popolazione, poco o niente. Varie altre amarissime ingiustizie rimanevano da sanare.
Ormai non esistevano più ricchi e poveri. Esistevano soltanto poveri. Tecnicamente questa era la soluzione esatta.
La vergogna delle ingiustizie consiste, infatti, soltanto nelle sofferenze che esse provocano. Chi ha fame soffre soprattutto perché sa che altri, coi medesimi suoi diritti, pasteggia a caviale e champagne. Se la fame la soffrono tutti e non c’è più nessuno che mangi a piacimento, il dispiacere è più che sopportabile. Il dolore di chi muore è la consapevolezza che gli altri continueranno a vivere; se tutti dovessero morire insieme con lui, non dico che farebbero una festa, ma quasi.
Ne consegue che l’importante non era già di sfamare i poveri bensì di affamare i ricchi. Come appunto venne fatto.
Ora è innegabile che la scomparsa delle ingiustizie economiche rappresentava un gran passo avanti. Non per questo tuttavia la gente riusciva ad essere felice.
Si erano abolite le ingiustizie dovute a una difettosa o malsana organizzazione, cioè alla inettitudine o iniquità umana. Permanevano le deplorevoli ingiustizie fisiche e intellettuali dovute semplicemente alla natura.
Perché io sono brutta e nessuno mi guarda – si domandava per esempio una ragazza di squallido aspetto – mentre la mia amica, bellissima, è assediata dagli ammiratori, e uomini ricchissimi, importantissimi e affascinanti la chiedono in sposa? Che cosa ho fatto di male? Che maggiori meriti ha quella lì? Non è una ingiustizia?
Più grave per le donne, questa ingiustizia fisica contristava anche una quantità di maschi, nati tapini, piccoli, gracili, sgradevoli di volto. Costoro vedevano i coetanei fortunati passare vittoriosamente da un amore all’altro, varcare trionfalmente le più ambite ed esclusive soglie mondane, affermarsi negli sport, raccogliere fruttuose simpatie nel campo del lavoro. Anch’essi pensavano perché loro sì e io no? Che cosa ho fatto di male? Non è una ingiustizia?
***
Ardua fu la realizzazione di questa seconda grande riforma. Difficoltà tecniche e psicologiche. Eppure, grazie all’ausilio della scienza, ogni ostacolo venne superato.
Non si potevano trasformare le arpie in veneri, i cercopitechi in apolli. Si poteva però fare il contrario, così da raggiungere un livellamento estetico che non desse più luogo a mortificanti e talora tragiche gelosie. Difficoltà tecniche e psicologiche. Eppure, grazie all’ausilio della scienza, ogni ostacolo venne superato.
L’intera popolazione venne passata al vaglio da apposite commissioni. Uomini e donne favoriti dalla natura vennero schedati, quindi costretti a subire un trattamento per nulla doloroso, approntato dal ministero dell’igiene. Si trattava di semplici iniezioni le quali, a seconda dei casi, provocavano un rapido e deturpante ingrassamento, facevano esplodere repellenti macchie cutanee, rammollivano i muscoli, promuovevano una crescita abnorme dei nasi, deformavano le bocche e il seno, appannavano e rimpicciolivano gli occhi, in base a sapienti gradazioni. Nel giro di pochi anni nel paese non ci fu più una donna che si potesse chiamare bella secondo i classici criteri, né un maschio che potesse primeggiare per prestanza fisica.
Certo, per i minorati artificiali, l’afflizione fu grande. Tuttavia, il loro sacrificio, come già era avvenuto con il livellamento economico, era ampiamente compensato dalla soddisfazione dei minorati naturali i quali costituivano la stragrande maggioranza. Non più invidie, non più odi, non più complessi di inferiorità. Senza contare che, non essendo più disponibili esemplari umani di splendide forme, anche il gusto collettivo ben presto si modificò, accettando per buoni dei corpi e dei volti che un tempo sarebbero stati giudicati disastrosi. Era così tolta di mezzo una fonte inesauribile di amarezze e di scontenti.
Si era infine raggiunta la soddisfazione generale, la serenità di tutti gli animi? Ahimè, una uguaglianza effettiva era ancora di là da venire.
Ben presto si lamentò un inconveniente, che del resto era facilmente prevedibile: anche se nessuno poteva arricchire, anche se nessuno poteva eclissare gli altri con la sua bellezza, anche se le condizioni di partenza erano uguali per tutti, anche se a tutti veniva amministrata una identica istruzione, già nel corso dell’adolescenza si manifestavano da individuo a individuo, allarmanti disparità. C’erano gli intelligenti e gli zucconi, i crani pieni di fosforo e quelli pieni di ovatta.
Chiaro che nella vita i primi, che erano una piccola minoranza, avevano un netto sopravvento, accaparrandosi i posti di direzione e di comando con tutti i vantaggi relativi, sociali e materiali. Ecco dunque ancora un vergognoso privilegio, che faceva ancora più spicco di un tempo, le altre disuguaglianze essendo scomparse.
Anche in questo frangente si determinò una corrente di opinioni che diede vita a un grosso partito politico: sua finalità, abolire questa ultima ingiustizia, fonte di infelicità per una folla immensa di persone. Ma come? Realizzando l’incretinimento artificiale delle persone intellettualmente più dotate?
* * *
Proprio così. Per quanto mostruoso, il progetto, attraverso violente campagne di stampa, movimenti di piazza e perfino attentati, riuscì ad imporsi. E vari scienziati, nella speranza di ottenere una esenzione dalla incombente purga, si prestarono a fornire i mezzi per il ridimensionamento collettivo dei cervelli.
Inutilmente si faceva presente come, tarpate le ali agli ingegni migliori, il paese non avrebbe più fatto un passo sulla strada del progresso. Quale progresso? Si chiedeva. Il progresso scientifico e tecnico, si ris
pondeva. E i riformatori: a quello ci penseranno i paesi capitalisti, noi potremo sempre importarlo.
Il governo, naturalmente, era contrario, anche perché formato da uomini e donne di intelligenza supernormale i quali non avevano alcuna voglia di lasciarsela togliere. Ma le forze armate di cui esso disponeva, esercito, polizia, guardia nazionale, erano invece formate, nella quasi totalità, da teste mediocri se non addirittura da autentici somari.
I battaglioni schierati a contenere la « rivolta degli asini », non resistettero, facendo subito causa comune con gli insorti: dopo tutto, anche i soldati e le guardie soffrivano di quella superstite ingiustizia.
Una giunta, di idioti naturalmente, si impadronì delle leve del potere. Le galere non bastarono a contenere tutti i cittadini intelligenti o sospetti di intelligenza, che furono dichiarati nemici della patria. Alla periferia delle città sorsero vasti campi di concentramento.Quindi i malcapitati furono tratti, a scaglioni, negli istituti dove, con appositi trattamenti fisici o chimici, si trasformavano le aquile in marmotte.
Dopodiché tutti si trovarono a essere ottusi pressappoco allo stesso identico livello: con giubilo universale perché ormai anche « i castrati di mente » non erano più in grado di apprezzare i vantaggi dell’intelligenza.
Ci si accorse poi con molta soddisfazione che, non emergendo più spiccati talenti, la amministrazione della cosa pubblica procedeva di gran lunga più ordinata e spedita di un tempo, insomma che un certo clima di cretinismo diffuso era favorevole, anziché controproducente, all’attività governativa.
Ora, finalmente, nessuno più poteva lamentarsi di ingiustizie, tranne quelle attinenti alle malattie, le quali però, in confronto al passato, erano molto ridotte di numero e di virulenza. Ci si doveva dunque attendere l’avvento di una serenità, se non di una felicità generale.
* * *
Eppure non era così. Tra uomo e uomo, tra donna e donna rimanevano ancora delle insospettate differenze. A parità di soldi, di bellezza, di capacità mentale, c’era però sempre l’uomo buono e l’uomo cattivo. Era venuta a sparire quel genere di bontà, che potremmo chiamare squisitamente intellettuale, alla quale porta infallibilmente l’intelligenza superiore. Ma esisteva ancora, sparsa qua e là nella moltitudine, quell’altro tipo di bontà, congenito e inconsapevole, che, che risplende talora negli sguardi di persone di estrema semplicità come certi montanari, certi contadini, certi barboni, certe suore.
Ora si sa benissimo come la virtù, che è conseguenza diretta della bontà, susciti intorno a sé fastidio e insofferenza, tanto che, se la si possiede, conviene praticarla di nascosto per non destare scandalo. E’ una mortificazione, una cocente offesa, per l’animo meschino, assistere a un gesto nobile, generoso, altruista, che a lui sembra quasi una rampogna. E si sa pure che purtroppo i meschini, i gretti, i cattivi sono i più. Il mondo infatti, diceva Leopardi, è una lega di birbanti contro pochi uomini dabbene.
Ed eccoci finalmente alla postrema invidia sociale che non poteva essere eliminata da nessuna legge. La scienza aveva insegnato il modo di abolire le ricchezze, la bellezza, l’intelligenza, ma di fronte alla bontà si trovava impotente. Tanto più dolorosa e mortificante era perciò la condizione dei malvagi, che non potevano sperare di veder ridotti i buoni al medesimo loro livello morale. Inutile far cortei di protesta e gesti di violenza, sperare in un intervento del governo. Quanto più i buoni fossero stati perseguitati e conculcati, tanta più luce sarebbe stata irraggiata dal loro animo puro.
Bene. Uomini e donne, dopo il livellamento di cui sopra, erano più o meno tutti dei bietoloni di assai precaria efficienza mentale. Gli era rimasto però quel tanto di cervello per capire che se era negato trasformare i buoni in malvagi, era pur sempre possibile che un malvagio diventasse buono.
E così per l’appunto accadde, sebbene la cosa possa ancor oggi, dopo tanti anni, apparire incredibile.
Per togliersi di dosso il tormento di quell’invidia, poiché constatavano come i buoni fossero incommensurabilmente più allegri e in pace col mondo, anche le persone più abbiette si sforzarono disperatamente di avvicinarsi a loro. E dapprima, come è ovvio, furono tentativi velleitari, atteggiamenti esterni sostenuti soltanto dall’ambizione e dall’ipocrisia. In seguito, indossata la maschera della bontà, lentamente alla maschera cominciarono ad assomigliare veramente. Finché un bel giorno, senza accorgersene, si trovarono puliti, tranquilli, pieni di benevolenza verso il creato e i suoi abitanti.
Cosicché la folle mania dell’uguaglianza, dopo essere passata attraverso inverosimili assurdità, stoltezze e turpitudini, assicurò finalmente agli uomini una specie di paradiso. Tutti poveri, brutti e cretini, però galantuomini di cuore, con l’animo in pace.
Pietro Bonazza, La rivolta degli eguali
4 novembre 2002
Il popolo, proclamato sovrano con massima solennità formale e costituzionale, si illudeva di autogovernarsi mediante i partiti, ma non per questo si illudeva di essere felice. Perché troppi, la maggioranza democratica compresa, erano i poveri e gli affamati; i brutti e gli sbilenchi; gli allocchi e i cretini; gli atei e gli agnostici; i cattivi e i manigoldi, mentre i pochi ricchi, i rari belli, gli intelligentoni, i credenti e i buoni, stavano in vetrina esposti alla visione dei primi, quasi a stimolarne l’invidia. Non si considerava che gli uni e gli altri erano figli del loro destino, perché la natura è sempre un po’ casualista: si ferma dove capita. Per gli sfortunati il destino ha sempre un significato solo negativo e chi nasce con la camicia è complice della sua fortuna: va odiato, perseguitato e possibilmente azzerato.
Il governo era molto sensibile all’infelicità dei governati; perché, suvvia, il popolo è il popolo, e per di più sovrano! O no? È lui che ti dà il potere, anche se non ce l’ha e questo è il bello, o secondo la disposizione d’animo: il comico, della democrazia. Ricevere da chi non ha niente è il massimo della politica, anche se la logica un po’ ne soffre. E se il potere glielo rubi, chi mai ti potrebbe accusare di furto, se il derubato non aveva il bene sottratto? È pur vero che qualcosa non quadra nel concetto di democrazia, ma nessuno ha mai saputo spiegare l’aporia, nemmeno il professor Bobbio, filosofo del diritto e ancor più: santone.
Il premier, prudente nella conservazione del potere e perciò apparentemente scettico, avanzò dubbi che l’interpretazione dell’infelicità del popolo fosse corretta, perché nell’era dell’informazione e della comunicazione non si possono assumere decisioni politically correct sulla base di mere sensazioni o intuizioni; ma occorrono demoscopie, interviste, rilevazioni e dati, se no perché esisterebbe quella scienza così esatta che si chiama sociopsicologia e che tanti problemi occupazionali ha saputo risolvere?
Detto e fatto! Subito furono ordinate indagini di ogni genere, sguinzagliati intervistatori in ogni angolo, stazioni ferroviarie, aeroporti, scuole, fabbriche e ospedali compresi, sotto l’occhio vigile e coordinatore di partiti e sindacati. Insomma una indagine quasi più impegnativa di un censimento o di un referendum. Risultato: il popolo era in maggioranza infelice proprio per i motivi intuiti.
Allora? Agire! Il governo costituì cinque commissioni formate dai migliori economisti; estetisti e chirurghi plastici; neurologi e ingegneri genetisti; teologi; etici e moralisti. Gli ordini erano precisi: studiare le soluzioni per convertire:
– i poveri in ricchi;
– i brutti in belli;
– i cretini in intelligenti;
– gli atei in credenti;
– i cattivi in buoni.
Si chiedevano cinque miracoli laici diversi, che all’epoca di Dino Buzzati potevano avvenire solo all’inverso. Ma, ormai, le scienze ec
onomiche, medico-chirurgiche, neurologiche e biogenetiche, teologiche e persino quelle dell’etica, consentivano risultati impensabili poche decine di anni prima.
Tutti quelli che risultavano poveri, brutti, cretini e menomati nella fede e nella bontà, furono costretti a sottoporsi gratuitamente ai trattamenti prescritti dai commissari. D’imperio, perché il popolo è sì sovrano, ma anche piuttosto inconsapevole. Non fu politicamente difficile. Superate incredulità iniziali, i menomati si offrivano con entusiasmo ai programmi governativi, mentre nei fortunati aumentava il timore per la prossima fine del loro oligopolio. In pochi anni i cinque miracoli furono realizzati concretamente. Gli ultimi due si rivelarono anche più facili, perché i primi tre erano già diventati realtà e si sa, quando tutti sono ricchi, belli e intelligenti, è quasi una conseguenza essere credenti e buoni. Insomma, una specie di eden, in cui nemmeno il premier avrebbe sperato, almeno in così poco tempo, talché sentiva garantita, per merito suvvia, la continuità del suo potere, perché a un successo così straordinario è dovuto un concreto apprezzamento da parte del popolo sovrano. O no? Ma, abituato a praticare lo scetticismo per finzione, un po’ scettico lo era diventato per davvero. E allora, come fare a ricevere prove dello stato di felicità del popolo? Riavviare la gioiosa macchina dei sondaggi, neanche parlarne. A parte i costi, avrebbe significato instillare il proprio dubbio nel popolo e questo sarebbe stato forse politically correct, ammesso di capire il senso di questo anglicismo, ma non conveniente e questo lo capivano anche gli anglofobi. E fu per evitare la diffusione del dubbio che ebbe il colpo di genio di assoldare un medium specializzato in colloqui con Carlo Marx. Pensava che da lui – che aveva sognato al compimento della sua rivoluzione un mondo perfetto senza disuguaglianze classiste tra sfruttatori ed ex proletari diventati finalmente uomini felici – si sarebbe potuto avere un giudizio critico affidabile. Marx, analizzato attentamente il nuovo status, rilasciò il suo laconico giudizio e proclamò il successo: « al di sopra di ogni più rosea previsione » e aggiunse: « la mia utopia non arrivava a tanto ». Il premier, rassicurato da cotal referto, tirò un sospiro di sollievo, perché, nonostante ormai fosse caduto in oblio, il giudizio del vecchio Carlo era per lui come la legge mosaica per un ebreo.
La vita proseguiva in un clima di democrazia compiuta. Però, dopo poco tempo incominciarono a manifestarsi strani fenomeni: il popolo era sì sazio e uomini e donne belli, intelligenti, pii e buoni, ma sui volti si disegnava una specie di maschera inespressiva, né intelligente né beota, né buona né cattiva; insomma: una maschera di indifferenza e di apatia; una specie di noia ineffabile e, con la noia, una indifferenza totale alla solidarietà morale; infine una mancanza di amore.
Venne reinterpellato il vecchio Marx, ma l’ex santone non seppe dare una qualsiasi risposta. Per lui era semplicemente inconcepibile. La felicità o è o non è e lì lo era, anzi: doveva essere.
Il premier si ricordò allora di un vecchio barbone, che aveva visto aggirarsi furtivo sotto un ponte del Tevere. Era l’unico superstite della vecchia generazione, che, fuggendo al momento opportuno, era riuscito a evitare i trattamenti per la pianificazione della felicità, rimanendo se stesso: appunto un barbone e felice di esserlo, perché in gioventù aveva studiato i classici e condiviso la scelta di Diogene e del suo barbonismo. Calmate le acque, era rientrato in città, compiaciuto della sua aristocratica diseguaglianza, ed era tollerato dalle autorità, perché una eccezione conferma sempre una regola e poi, tutto sommato, non dava fastidio a nessuno, anche se il suo stato di evidente serenità incominciava a dare fastidio.
Il premier lo fece convocare in gran segreto e lo interrogò, spiegandogli il problema e chiedendone l’opinione. Il vecchio barbone allora con gran semplicità sentenziò: « L’amore è il dono più grande ricevuto dall’uomo, perfino più grande della libertà, perché una libertà senza amore è vuota, ma l’amore ha un nemico: la noia e la noia è figlia dell’uguaglianza. Dio creò ogni uomo diverso da ogni altro, perché, partendo dalla diversità, potesse amare. La diseguaglianza è ciò che rende possibile l’uguaglianza nell’amore, ma dopo, mai prima. Tentare di migliorare la società – concluse – può essere opera apprezzabile, ma non si deve mai violentare la Natura, né surrogare la Provvidenza. » Il barbone salutò il premier con educazione non ossequiosa e se ne andò.
Non si è mai saputo il seguito della storia. Forse stanno ancora cercando la soluzione, senza rivolte di popolo, perché l’eguaglianza rende cretini e indifferenti. Ma è difficile tornare indietro, soprattutto quando si corre il rischio di perdere la maschera.