Schopenahuer, per il colpevole ritardo con cui la comunità dei filosofi del suo tempo aveva riconosciuto la sua opera, confidò all’amico-biografo Gwinner che il tempo – e indicava i suoi capelli canuti – aveva portato rose anche a lui, ma bianche. Nicolás Gómez Dávila, solingo aforista colombiano, ebbe ancora minor fortuna, perché gli arrivarono, post mortem, mazzi di crisantemi. Destini quasi analoghi di due figure eminenti, accomunate da alcuni collegamenti di pensiero significativi.

A togliere polvere dall’opera di Gómez Dávila ha concorso in Italia la casa editrice Adelphi, pubblicando recentemente Tra poche parole, con pregevole prefazione di Franco Volpi, anche curatore di In margine a un testo implicito per la stessa casa editrice.

Scrisse solo aforismi, inclusi nelle Notas stampate a cura del fratello Ignacio e qui è evidente un parallelo con la sorte delle opere pittoriche invendute di Vincent Van Gogh e l’intervento del fratello Theo.

Bisogna però intendersi sul significato della parola “aforisma”, troppo abusata. Si può cercarlo per esclusione, constatando che Gómez Dávila non ha l’intento di didascalismo scettico di Montaigne, suo santo patrono, né quello moraleggiante di Baltasar Gracián né quello di Schopenhauer, che eleva i suoi Aphorismen a brevi testi filosofici, né quello di Nietzsche, che finge di scrivere aforismi con il fine implicito di fare opera sistematica. Invece, il nostro autore scrive secondo una ispirazione contingente, fuori da ogni schema, talché i suoi “pensieri scritti” non possono essere sistemati a mo’ di dizionario come molti usano fare. Semmai, per un accostamento, vengono in mente gli aforismi di Lichtenberg. I “pensieri scritti” di Gómez Dávila sono ellittici, sintetici, immediati, secchi come schiocchi di frusta, brucianti, provocatori, ma celano un più lungo concatenamento di pensieri, costringendo il lettore a un itinerario che sgrani tutti i chicchi del rosario. Il riferimento al rosario non è metaforico, perché l’autore è un convinto cattolico tradizionalista, che disdegna il modernismo e la sua progenie, madre di un relativismo vuoto e privo di speranza trascendente. Il marxismo e ancor più il cattocomunismo sarebbero impietosamente sommersi, se dovessero fare i conti con Gómez Dávila.

Poiché è privilegio del lettore scoprire e apprezzare la carica espressiva dei pensieri dell’autore, è opportuno concentrare, per accostamenti e distinzioni, solo l’attenzione sulle caratteristiche della sua opera.

Gómez Dávila non è pensatore fuori del tempo, è fuori del suo e nostro tempo, ma questa consapevolezza non lo allontana dal suo scetticismo radicale verso l’uomo, a cui fa da contrasto, ma non dialettico, una incrollabile fede in Dio. Nell’autore, che dichiara: «il filosofo è fatto per vivere indifferente a tutto», si ritrovano così alcuni elementi della filosofia stoica nell’evoluta interpretazione dei romani fino a Marco Aurelio e il verso di Dante: «…non ragioniam di lor, ma guarda e passa». I grandi non sopportano l’ingombro della mediocrità umana. Questo spiega la sua preferenza per la lettura e la conseguente meditazione, che esigono il silenzio e l’isolamento. L’accostamento al Borges che ammette: «…credo che comunque la massima felicità risieda nella lettura…», è evidente, come lo è l’accostamento alla scelta del nostro Martinetti di vivere in solitudine ai piedi del Gran Paradiso. Le bazzoffie pseudoculturali televisive sono inaccostabili come il siero al latte!

Gómez Dávila è molto sensibile al tema della sessualità, che interpreta al di là della carnalità e ne ipotizza una tensione verso la trascendenza. Il richiamo allo Schopenhauer della Metafisica dell’amore sessuale è immediato, ma subito si notano differenze profonde con l’irreversibile pessimismo del filosofo tedesco, che interpreta l’atto come una soggezione irrazionale alla mera riproduzione della specie, come condanna al wille della natura, che, seppur salva la continuità, schiaccia anche l’uomo sul destino di una mera strumentalità cosmica.

Ben altri possono essere i richiami, i rimandi, gli stimoli che Gómez Dávila suggerisce, ma i suoi pensieri non devono essere confusi con gli pseudoaforismi di autori o comici à la page, che oggi ingombrano i banconi delle librerie e i magazzini di editori alla rincorsa del guadagno facile di pubblicazioni che non hanno sprezzo nemmeno del ridicolo, valgono meno di volgari barzellette e sono in attesa del macero. Il nostro autore, proprio per la ingannevole brevità dei suoi pregnanti pensieri, esige una lettura lenta e ripetuta, da prendere con attenzione, come certi medicinali, che, diversamente dalla camomilla, richiedono il costante controllo degli effetti sul proprio organismo. Un aforisma, quando è veramente tale, contiene sempre quel tanto di veleno, che, però, stimola a un cammino verso l’alto. È un processo di mitridatizzazione contro la banalità del presente.

 

Pietro Bonazza