(In memoria del prof. avv. Giuseppe Ragusa Maggiore, già direttore della rivista “Il diritto fallimentare e delle società commerciali”)

1. INTRODUZIONE

Due termini, valore e proprietà, che identificano due pilastri della civiltà occidentale e addirittura forse la riassumono nei suoi aspetti economici, sembrano brillare di luci proprie e illuminare separatamente i due mondi dell’economia e del diritto civile. Ci si può chiedere se rappresentandoli, invece, come le due facce della stessa moneta, si possano migliorare, per connessione, i rispettivi significati, che vanno oltre i concetti racchiusi nelle definizioni con i loro relativismi storici.

Dagli etimologi sappiamo che “moneta” era epiteto latino di Giunone, il cui tempio servì da zecca. Ma, a coniare le prime monete furono i greci, che impressero sul recto segni araldici e nel VII secolo a.C. sul verso l’effigie della civetta. Però, non ha importanza che su una delle due facce vi fossero o no segni, perché la sua consistenza fisica, liscia o contrassegnata, è una necessità: se non esistesse, nemmeno la moneta esisterebbe. Il due non esiste senza l’uno. La moneta è “una”, ma le facce non possono essere che due e, se si gioca “a testa o croce”, si può ben dire, in alternativa e senza perdite di significati: “a testa o altro”, dove “altro” può essere “non-testa” o “niente” e ove niente non è un nec ens, cioè un nulla, ma un “nulla effigies” e ciò proprio perché la moneta esiste.

Ora, immaginiamo che invece di testa sia scritto “valore” e invece di croce “proprietà”. Sono le due facce, ma Giunone, allora, cos’è? È il “tempo”. Quindi proprietà e valore sono le due facce del tempo, nella sua accezione economica. Si noti che testa=valore non è sostituibile con testa=proprietà senza rompere l’armonia della similitudine, perché nella moneta l’effigie di testa è quella dell’imperatore, del princeps, del basileus, cioè di colui che attesta che quel pezzo di tondino metallico vale quel tot iscritto.

 

 

2. CONCETTO DI VALORE

 

Forse non c’è un termine più abusato di valore; così il suo significato finisce per diventare equivoco; però, tutti quelli che ne fanno uso: filosofi, moralisti, economisti, sociologi e scienziati in genere intendono sempre un senso positivo. I giuristi non parlano di valore, ma di validità, cioè della constatazione di uno status, di una qualità realizzata, di un valore conseguito in linea di fatto. Una legge, cui sia riconosciuto valore, realizza la condizione di validità. Validità non è confondibile con valore, ma è un giudizio sulla esistenza di un valore, che è una qualità necessaria ed essenziale di una legge o di un contratto. La validità è l’anima dell’efficacia. È ovvio che l’efficacia può esistere pur in costanza di invalidità, ma solo in quanto questa non sia stata rilevata, come dire che l’anima si presume fino a prova contraria. Per arricchire l’interpretazione si potrebbe invertire l’affermazione di Simone Weil: «niente di ciò che è inefficace ha valore » [1] con “niente di ciò che è privo di valore può avere efficacia”.

Le distinzioni classificatorie sono talmente numerose da renderle persino arbitrarie, ma almeno una ha significato: quella tra interpretazione personale e riconoscimento collettivo.

Ogni individuo, non per fantasia, ma per razionalità, ha una sua personale interpretazione del valore in rapporto a fatti, atti umani o enti e sulla pluralità – necessaria perché è impensabile concepire un solo valore, posto che uno ne genera sempre altri – costruisce una scala assiologica. La individualizzazione e interiorizzazione dei valori è segno della razionalità e della spiritualità del singolo. È un suo insopprimibile diritto. Si potrebbe dire che è una conseguenza necessaria della sua libertà ed è il substrato del suo spirito. È, come direbbe Giovanni Gentile, in interiore homine. Ma, se la collettività in cui vive, coltiva nel momento storico valori in tutto o in parte analoghi e li pone su una scala pressappoco corrispondente a quella individuale, allora si crea un ponte tra interpretazione personale e riconoscimento collettivo e poiché questo assume realtà non nelle constatazioni del sociologo, ma nella vitalità e validità di un ordinamento giuridico, ecco che il valore individuale diventa un interesse meritevole di essere protetto, come appunto dicono i giuristi.

 

 

3. CONCETTO DI PROPRIETÀ

Con il valore la proprietà, intesa come dominio su una cosa, ha analogie e almeno un rapporto eziologico. L’analogia più appariscente riguarda il suo riconoscimento nel mondo del diritto. L’individuo possiede una cosa e sulla stessa vuole esprimere il suo dominio, poiché egli ritiene che questo rapporto con la cosa rappresenti un valore, anzi un aspetto della libertà. Ma questa volontà è esposta al rischio di affievolimento o di annullamento, se anche per la collettività il dominio sulle cose, ottenuto per acquisizione o per conquista, non è riconosciuto come un valore. E anche in questo caso il ponte tra l’intenzione personale e il riconoscimento collettivo assume realtà nell’ordinamento giuridico, che la collettività si dà e nel quale colloca la proprietà della cosa come interesse meritevole di tutela, nei suoi aspetti sostanziali e formali. Ma la proprietà è sempre riferita a una “cosa” (non esiste la proprietà giuridica della virtù), cioè un ente suscettibile di avere un valore economico. In questo collegamento sta il rapporto eziologico, poiché la proprietà di una cosa priva di valore economico non assume il diritto di tutela, forse perché non lo richiede. L’aria che respiro è senz’altro un bene collettivo, ma non riceve riconoscimento di proprietà privata, perché non è suscettibile di avere un valore economico collegabile a uno scambio. È anche un bene individuale, ma la mancanza di proprietà giuridica, non esclude la sua tutela, poiché chi ne impedisse l’uso commetterebbe un reato (attentato alla salute o alla vita stessa). Quindi, se anche manca il riconoscimento formale, la sua difesa è garantita da norme generali di rango superiore (diritto penale rispetto al civile). Ma una volta creato il collegamento della proprietà al valore, il problema non è esaurito, almeno sul piano formale, perché il riconoscimento della proprietà è collegato, necessariamente, alla sua durevolezza nel tempo. Se ho acquistato, pagandolo regolarmente o ricevendolo in elemosina, un pane per sfamarmi oggi, ho senz’altro diritto di essere riconosciuto proprietario della cosa, ma l’ordinamento giuridico non ha bisogno di scomodarsi più di tanto in atti formali. È il campo, che mi dà il grano per ottenere il pane, l’oggetto di cui si occupa l’ordinamento giuridico e in particolare il Libro III del Codice civile, non tanto i beni di immediato consumo, che nell’atto stesso spariscono. È su questo passaggio di importanza sostanziale che esiste un illuminante precedente storico.

Nell’anno 1322 si verifica un accadimento importante per la storia dell’asse economia-proprietà. Domina il potere dell’Ordine francescano, reso efficace dall’apparente povertà e dalla qualità dei cervelli che stanno sotto la tonsura e dentro il grezzo saio. Uno, ma non è certo solo, è Guglielmo da Occam, mente più affilata di un rasoio. Ebbene, questi frati, nascondendosi dietro la loro istituzionale povertà, pur già godendo di lasciti imponenti, pretendono che la Chiesa di Roma si faccia carico delle spese di manutenzione dei beni immobili, di cui essi frati hanno il godimento, ma, dicono, non la proprietà, perché inibita dal voto di povertà. Per loro sfortuna, a capo della Chiesa di Roma, in cattività ad Avignone, c’è un Papa che non è un campione di ispirata teologia, ma è un giurista raffinato e concreto. Non è un Giulio II, ma è “tosto” lo stesso e appunto in quel fatidico anno 1322 emana la bolla “Ad conditorem canonum“, che è un capolavoro di “arte” giuridica curiale e, ancora oggi, un godimento dello spirito, dopo sudata traduzione, ed esempio di scienza del diritto, da consigliare in lettura agli studenti di economia e giurisprudenza, invece di tanti manuali, da cui si spremono definizioni formali, ma non sempre concetti. Il cuore di questa bolla, dopo aver escluso dalla vertenza il consumo di beni immediatamente consumabili ricevuti come elemosina (uova, latte, pane ecc.), su cui la proprietà non riesce in concreto nemmeno a sorgere, è in questa espressione:

« […] respondet legi dicenti, non posse usum vel usumfructum a domino perpetuo separari, quia dominium dominis semper abscedente usu inutile redderetur: quae quidem lex de rebus illis intelligitur, quarum penes unum usus rei et penes alium dominium possit (licet inutile) remanere, quod nequanquam in rebus usu consumptibilibus potest esse, cum in illis per usum vel abusum usuarii substantia talis rei esse desinat et per consequens proprietas inutilis non existat.

Cum enim usufructus, prout est actus in re constitutus, qui servitus dicitur personalis et pro quo reales competunt actiones, nihil aliud sit, quam ius utendi tantum rebus alienis, salva rerum substantia, id est ius percipiendi fructus et utilitatem aliam aliquam in totum vel pro parte suo nomine, qui possunt ex re, in qua usufructus seu usus constituitur, provenire: propter quod proprietas reputatur inutilis, a qua perpetuo usufructus abscedit.»,

che si può tradurre liberamente così:

« […] è conforme alla legge vigente il fatto che uso o usufrutto non possano essere separati da una proprietà duratura, perché altrimenti il dominio sarebbe attribuito inutilmente ai proprietari da un uso che si estrania loro sempre di più: questa legge è certamente da interpretare in relazione a quei diritti per i quali, avendo usato la cosa per una volta e successive continuative volte, ne possa sussistere la proprietà (…); questo non può affatto verificarsi per le cose consumabili con l’uso, perché in loro la sostanza della cosa stessa cessa di esistere con l’uso o il consumo dell’usufruttuario; di conseguenza, non può darsi proprietà svuotata.

Infatti, poiché l’usufrutto, in quanto atto compenetrato nella cosa, essendo un diritto personale e per il quale spettano azioni reali, altro non è che il diritto di utilizzare appunto le cose di altri, fatta salva la loro sostanza, è pure diritto di percepire i frutti e altre utilità, che possono provenire dalla cosa nella quale si concretizza l’usufrutto o l’uso, in tutto o in parte in nome del proprietario: per cui è ritenuta proprietà svuotata quella della quale l’usufrutto si facesse via via sempre più estraneo al proprietario.»

Che significa proprietas inutilis? Significa che si è veramente proprietari delle cose di cui si può avere la disponibilità e il godimento dei frutti. Ma di quali frutti? Giovanni XXII precisa: i futuri. Ecco che emerge in tutta la sua pregnanza il concetto “tempo”. Basta che facciamo un passo in avanti rispetto a quel papa giurista, che, peraltro, lascia intendere di aver intuito oltre le righe, e si constata che la proprietà non può essere un vago concetto filosofico, ma riguarda un bene concreto (il nostro codice civile all’art. 810 direbbe: una “cosa” e qui ci sarebbe da disquisire a lungo!). Ma un bene è tale, se ha un valore. Quale valore? Quello che si può attribuire determinando il valore attuale di tutte le rendite future, scontate a oggi a un certo tasso di interesse. Anche chi non è ferrato in matematica finanziaria sa che il valore “oggi” di un titolo obbligazionario, che scade, per esempio, nel 2010, è pari al valore attuale di tutte le cedole e del rimborso del capitale alla scadenza finale, secondo un certo parametro costituito dal “saggio” d’interesse applicato al tempo e sa anche che, se si vende quell’obbligazione, sono elevate le probabilità, per motivi di razionalità economica e ragionevolezza istintiva, di vedere riconosciuto come corrispettivo della cessione appunto quel valore.

Non si intende affermare che Giovanni XXII abbia inventato la matematica finanziaria, ma riconoscere che abbia dato al concetto di proprietà una matrice economica sembra giusto.

Ovviamente i raffinati cultori che distinguono la proprietà dal possesso in ogni piega avrebbero molto da dire. Non è che qui si sono voluti confondere i due istituti, ma, al fine di trovare un cuore economico al fenomeno di proprietà, la distinzione diventa non necessaria. Se si pensa che la definizione si avvantaggerebbe della metafora più che delle sottili puntualizzazioni dei giuristi, non ci si stupisce che i romani assorbissero i due concetti nell’unico dominium. D’altra parte, si può pensare la proprietà come un dominio normalmente di maggior durata del possesso, quando i due non coincidono nello stesso soggetto. Si può rivolgere ai giuristi l’invito a pensare il diritto dall’interno e non dall’esterno. Ma forse è un consiglio banale, perché in qualsiasi scienza, anche la classica fisica, il tempo va vissuto dall’interno. Tutto diventa più fallibile, almeno secondo Popper; più probabilistico che certo; meno dogmatico [2] e meno neoilluminista. Più umano e soggetto alla dispersione, per dirla con Prigogine [3].

La società civile va verso uno stato di crescente complessità, nel quale ci potrà aiutare la cibernetica, la scienza dell’organizzazione efficace. E il diritto come potrà collocarsi in tale contesto? Non sarà più la nave dei dogmatici, ma almeno la bussola, strumento tuttora adatto anche alla navigazione d’altura e in grado di tener lontano ogni “Grande Fratello”.

A questo modo di porsi davanti al diritto può giovare un maggior riferimento al valore, almeno per quanto riguarda il diritto di proprietà e senza rischio di cadere in un materialistico utilitarismo.

4. IL TEMPO

È stata posta nell’introduzione la similitudine alla moneta e si è ipotizzato che nel nostro caso essa corrisponda al tempo. Si noti che non lo si prende in considerazione come evoluzione storica del valore e del diritto di proprietà, ma si intende il tempo come dimensione reale, come ente di cui valore e proprietà sono le due facce, tra l’altro, interconnesse. Ovviamente si tratta del tempo dell’economia (valore) e del diritto civile (proprietà).

Si può constatare che non esiste valore senza tempo, così come la faccia di una moneta non può esistere se non c’è il tondino di metallo. Analogamente per il diritto di proprietà. Ma, si può ritenere esistente il rapporto inverso, cioè che il tempo esista senza valore e proprietà? Riprendendo la similitudine: può essere ritenuta moneta un tondino privo di qualsiasi segno sia sul recto e sia sul verso? Non lo sarebbe, perché quel pezzo di metallo avrebbe sì un valore economico, ma anziché essere metro di altri valori, dovrebbe invece essere misurato da qualcos’altro, che fosse riconosciuto come vera moneta. Così il tempo economico-giuridico. Se lo pensiamo senza le facce del valore e della proprietà, abbiamo ancora una dimensione temporale, ma quella dell’orologio, degli astri da cui deriva.

Valore e proprietà generano, invece, il tempo economico e da questo sono generati in un rapporto biunivoco e compenetrato, che dà realtà alla cosa. Si noti che non si tratta di una triade e che non serve rievocare la dialettica hegeliana, ma, molto più semplicemente, di una realtà esistente, che attraverso i caratteri di valore e di proprietà acquista una qualificazione giuridica, una nuova identità.

Il tempo è un problema risalente nella storia dell’evoluzione dell’animale-uomo. Quando l’uomo ancora non aveva inventato il concetto di numero, è plausibile che comunque avesse l’intuizione del fluire del tempo, una dimensione non ancora quantitativamente determinata, ma nemmeno puramente qualitativa. Nella mitologia il tempo non era una qualità di Zeus, ma una divinità specifica: Kronos. Quando l’uomo fu in grado di impiegare i numeri, gli fu anche possibile dare al tempo una dimensione quantitativa, una scansione; per esempio: il viaggio tra Atene e Siracusa poteva richiedere tot lune. Quindi, un tempo astronomico, scandito, quantificato, che cancella il tempo mitologico e lo riduce a mero parametro, unità di misura delle azioni umane.

Forse la perdita di innocenza del divenire, la causa del nichilismo della civiltà occidentale, non è opera della techne, su cui insistono i filosofi [4], ma della nascita del tempo cronologico. Da allora, il tempo non è più innocente per l’uomo, che vi si immedesima al punto che nascita e morte sono iscritti sulla sua tomba.

I greci non rinunciarono però a un concetto meno meccanico del kronos e lo racchiusero, come a difenderlo, nel kairos, cioè: una giusta dimensione, un tempo opportuno [5], più legato all’equilibrio dell’uomo, più a misura dell’uomo e dimensione della sua progettualità, che non l’uomo misurato dal kronos.

Nonostante la dilagante prevaricazione del tempo meccanico, ormai materializzato nell’orologio e nel calendario, un concetto di tempo, indeterminato non perché indeterminabile, ma perché non richiede una dimensione numerica, è rimasto anche nella nostra civiltà cosiddetta occidentale. Cosicché non pare una esercitazione metafisica pensare al tempo economico-giuridico come a una moneta contrassegnata da valore e proprietà.

Il concetto, una specie di kairos, esige certamente uno sforzo di superamento del tempo dell’orologio e del calendario, senza però cancellarlo. In economia e in diritto il tempo meccanico ha una presenza necessaria, se si intende conoscere fenomeni quantitativi. Così, se voglio determinare il valore di una obbligazione che rende il tot per cento ed è rimborsabile nell’anno x, non posso prescindere dal tempo residuo quantificato e se voglio acquisire un immobile per usucapione devo contare gli anni da un dies a quo a un dies ad quem. Ma per attingere al concetto di valore e di proprietà non ho bisogno di macchine del tempo.

Può essere utile il richiamo del capitolo III, Parte seconda, dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel. Il filosofo affronta il problema del tempo con il deliberato proposito di concludere: « Perciò solo le cose naturali sono soggette al tempo, essendo finite: il vero, per contrario, l’idea, lo spirito, è eterno ». La conclusione non interessa la nostra analisi, ma Hegel la fa precedere dalla considerazione che il tempo è una forza distruttrice: « Tutto, si dice, nasce e muore nel tempo…Ma non è già nel tempo che tutto nasce e muore: il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire; è l’astrarre che insieme è; è Kronos, produttore di tutto e divoratore dei suoi prodotti…». Hegel, conscio delle difficoltà di spiegare il fenomeno “tempo”, scrive uno Zusatz al paragrafo del tempo e precisa: «…L’idea, lo spirito è sopra il tempo, giacché di tal sorta è il concetto stesso del tempo: ciò è eterno, è in sé e per sé, non è trascinato nel tempo, perché non si perde in una sua parte del processo. Nell’individuo come tale invece, accade altrimenti: esso è solo da un lato la stirpe; e l’aspetto più bello della vita è ciò che unifica compiutamente in un’unica forma l’universale e la sua individualità. Ma l’individuo è anche diviso dall’universale: in tal modo esso è solo una parte del processo, è la mutevolezza; dopo questo suo momento mortale, esso cade nel tempo. Achille, il fiore della vita greca, Alessandro Magno, questa individualità infinitamente potente, non resistettero; solo le loro gesta, le loro azioni rimangono, cioè rimane il mondo creato da loro…»

Il richiamo a Hegel può essere giudicato una superfetazione o una pretesa di erudizione, peraltro assai rischiosa, date le note difficoltà di capire quel filosofo, oppure una implicita ammissione che l’analisi sul tema tempo-valore-proprietà è zoppicante o poco convincente e richiede supporti autorevoli. Qui si è voluto solo ricordare che anche Hegel ha riconosciuto che non esiste solo il kronos e che l’idea di tempo non è limitata a una misurazione del transeunte. Per non essere giudicati hegeliani (collocazione tutt’altro che disonorevole a condizione di capire e saper criticare quel filosofo, che fallì anche sul concetto di tempo [6]), basta non spingersi allo spirito, livello peraltro non necessario per l’analisi del problema prosaico qui sollevato. Ma, si ripete, lo scopo di questo richiamo è un altro: è come se, camminando per una strada impervia ci si accompagnasse a un altro viandante, che, giunto a un bivio, prende una direzione diversa, ma per il breve tratto in comune ci ha fatto compagnia. Ma quanto può essere lungo questo tragitto? Nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel affronta l’arduo tema della “proprietà” e, dopo aver collegato volontà e libertà esterna dell’individuo con la “cosa”, afferma: «…l’interesse particolare del possesso è il lato particolare per cui Io rendo Mio qualcosa sulla base di bisogni e impulsi naturali e dell’arbitrio. La determinazione della proprietà – la quale in questa sfera costituisce il vero aspetto giuridico -, invece, è il lato per cui Io, nel possesso, sono ai miei occhi oggettivamente come volontà libera…»

Potremmo constatare che Hegel dimentica il concetto di valore, ma non quello di bisogno. Ora, il valore è in un certo senso l’anima del bisogno, quindi, dietro di esso, il valore riemerge anche in Hegel e se mettiamo valore e proprietà sulle due facce della moneta, non facciamo poi grande sforzo a considerare che quella moneta può essere il tempo, transeunte, perché in esso e nella sua caducità cadono valore e proprietà, che sono pur sempre della realtà relative, appunto nel tempo.

Sembra, quindi, che la metafora moneta-tempo non sia in contrasto nemmeno con il filosofo del diritto meno attuale e la sua distanza dalla nostra cultura è sempre utile per una prova di resistenza dei concetti.

 


[1] In Quaderni, Milano 1982, vol. I, pag. 334.

[2] Per l’analisi della jurisprudentia dogmatica si veda: D. Farias, Interpretazione e logica, ed. Giuffrè, 1990, pagg. 114 e segg. A mio avviso, togliere dal diritto l’ipostatizzazione del dogmatismo non significa abbandonare l’auctoritas delle esperienze faticosamente costruite nel tempo passato, ma sollecitare un continuo confronto tra il passato, il presente e il futuro nella loro tensione agostiniana. L’opera del potatore non è quella del boscaiolo. Il rapporto del giurista con il dogmatismo ripropone quello tra l’amministrazione della giustizia e la giurisprudenza analitica di matrice anglosassone, ma, soprattutto, ripresenta il fondamento della teoria di Kelsen, così attento a tener fuori dal diritto la “sociologia del diritto”, la cui invasione ha non poca responsabilità sullo stato attuale della giustizia in Italia.

[3] Ilya Prigogine, L’analisi del tempo, ed. Theoria, 1988, pagg. 80 e segg.

[4] Il tema dei rapporti di causalità tra techne e nichilismo è dominante, direttamente o indirettamente, in tutta l’opera del filosofo Emanuele Severino. Si rinvia, in particolare, a La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, 1988; Il declino del capitalismo, Milano, 1993 e in Gloria, Milano, 2001.

[5] Cfr. Vincenzo Vitiello, Topologia del moderno, Genova, 1992, pagg. 197-198.

[6] V. Vitiello, cit., pag. 209: « Il fallimento dell’impresa hegeliana mostra che Kant aveva visto più lontano.»

Pietro Bonazza