Pietro Bonazza

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DINAMICHE DI VALORI E FINALITÀ STRATEGICHE DI OPERAZIONI STRAORDINARIE. DAL BILANCIO ALLA DETERMINAZIONE DEL CAPITALE ECONOMICO
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(articolo pubblicato sulla “Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale”, anno 2002, n. 11/12)
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1. CONCETTO DI VALORE
La scuola italiana di economia di azienda, ma si dovrebbe dire più tradizionalmente di “ragioneria”, anche quando si profonde in anglicismi, mantiene un suo orgoglio palese o recondito, che deriva dalla sua storia plurisecolare. È comprensibile che, quando tratta di valutazioni non riesca a dimenticare – ed è memoria fortunata – che i romani ritenevano che res tantum valet quantum vendi potest e che da papa Giovanni XXII, nel XIV secolo, le cose abbiano valore per quel che rendono (1); principi di un pragmatismo persino superiore al ben noto anglosassone. Ciò spiega perché ci si accosta alla lettura delle ultime opere pubblicate in materia oltre Atlantico con un certo distacco (2).
L’economia, compresa l’aziendale, è, come tutte le scienze, soggetta alle mode. Vent’anni fa i giapponesi erano convinti che chi non avesse adottato il just in time e la “qualità totale” sarebbe sparito dal mercato. Però, da più di cinque anni, il Giappone, che ha sempre fatto credere di avere realizzato quei principi, è preda di una crisi da cui non riesce a uscire. Negli anni Ottanta la parola d’ordine era “automazione” a tutti i costi. Dopo poco più di un decennio tale politica si è rivelata un “bad process” (3). Dopo un’era di “piccolo è bello”, ora scopriamo che la dimensione è condizione di sopravvivenza. Ancora: l’altro ieri sembrava di non poter sopravvivere senza fare una “conglomerata”; ieri correvano le operazioni LBO (leveraged by out); oggi vanno forte le scissioni e le quotazioni in borsa. Ma un concetto non è soggetto a mode: il valore. Forse perché è poco conosciuto, come tutte le cose che, a forza di apparire ovvie, finiscono dimenticate, che è anche un modo efficace per conservarle. Non è forse un caso che in economia di azienda si parli molto di valutazioni e poco di valore. Ciò è comprensibile, perché sul valore si può richiamare lo sforzo concettuale di Sant’Agostino sul tempo: «Se nessuno me lo chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più.» (4)
È significativo anche che Joan Robinson, economista inglese, allieva e collega di John Maynard Keynes, ricordi nel suo libro “Economic philosophy“ questo giudizio sul suo maestro: «…Maynard non aveva mai speso quei venti minuti necessari a comprendere la teoria del valore.»(5) Ma, questo precedente, seppur riferito a uno dei massimi economisti del XX secolo, non ci conforta più di tanto, perché chi sostiene che l’unica durata è quella breve, tanto “a lungo andare saremo tutti morti”- diceva appunto Keynes -, ha poco da insegnare a chi, trattando la vita delle imprese, deve avere come riferimento temporale il “lungo termine”.
Il concetto di “valore” risente anche del ricordo del brocardo riferito a Ulpiano, giurista romano del II secolo d.C., che evidentemente riportava un concetto corrente del suo tempo: « quanti valet…quanti venire posset», da cui l’altro brocardo: « sine praetio nulla venditio » e l’altro, ancora più incisivo già citato: « res tantum valet quantum vendi potest », ancora più espressivo, se volto al negativo, « res non valet si vendi non potest » (le cose non hanno valore, se non puoi venderle. Ma, pur trascurando tutta l’economia classica e neoclassica degli Smith, Marx, Marshall e la nota distinzione tra “valore d’uso” e “valore di scambio”, quei brocardi di diritto romano ridurrebbero la fortuna della recente teoria della “creazione-diffusione del valore” o, per dirla con gli anglosassoni, value-based planning.
In sintesi si propone la definizione di valore come entità economica riferibile a un bene o a un complesso di beni, espressa da un modulo di misurazione costituito da una moneta e in continuo cambiamento.
All’economista, categoria a cui appartiene l’aziendalista, spetta il compito arduo di stabilire le cause della variazione e di misurarne gli effetti. E in proposito non si può non ricordare che John Hicks, premio Nobel per l’economia nel 1972, in “Analisi causale e teoria economica” scrive: « L’economista moderno ha imparato molto, a proposito della distinzione fra stock e flusso, dal lavoro del contabile. Questi, infatti, cercando di adempiere al compito che gli è stato affidato di fornire un resoconto “vero e degno di fede” dei risultati di una attività economica, per primo si è trovato costretto a raccogliere le sue registrazioni in forme di entrambi i tipi, da lui nettamente distinte. Egli teneva, da una parte, un conto di stock, il bilancio; e dall’altra, numerosi conti di flusso (conto commerciale, conto profitti e perdite, eccetera). I conti di flusso mostravano cosa accadeva durante l’anno; i conti di stock qual era la situazione all’inizio e alla fine. Già, in contabilità, esisteva il problema di renderli coerenti fra loro. Il moderno economista ha recepito il suggerimento ed ha quindi imparato a pensare in termini di periodi contabili. Un periodo contabile non è come il “periodo” della statica, che si protrae all’infinito; si tratta invece di un periodo storico, con un inizio ed una fine. » La grandezza di Hicks, oltre per ciò che ha dato all’economia, è anche in questa onestà intellettuale.
La definizione di valore sopra proposta è in effetti un concetto, che ne incorpora un altro, quello della sua relatività al tempo, ciò che ci fa concludere che un valore è una realtà statistica e, allora, ha una natura storica, cioè esige che sia indicato il momento in cui è collocato. Aristotele ci ha insegnato che il verbo temporalizza. Se si dice: il bene X “vale” 100, il verbo coniugato all’indicativo presente esprime già di per sé il concetto di attualità e significa concretamente “vale oggi, in questo momento”. Così dicasi dell’espressione “il valore del bene X “è” 100”. Ma se si usa il linguaggio messo in voga dalla logica formale: “valore del bene X=100”, si deve aggiungere un complemento di tempo. Tutto questo sembra banale, perché ovvio; ma a forza di ovvietà si rischia di dimenticare che il “valore”, se può essere un concetto assoluto e statico per la morale, per l’economia è, invece, un concetto essenzialmente “dinamico”. Dire dinamico, vuol dire “che cambia”, ma la caratteristica fondamentale della nostra epoca è l’accelerazione del dinamismo, come a dire che oggi i valori economici cambiano più in fretta di una volta. Le cause sono molteplici e in genere si cita la tecnica, evoluta o involuta in tecnologia, che sembra essere riuscita ad assorbire persino la scienza. Ma questa spiegazione non basta in economia, perché bisogna aggiungervi almeno la funzione della new economy, l’effetto della globalizzazione o per meglio dire della “mondializzazione” dei mercati e dei processi produttivi. Se mescoliamo questi ingredienti, otterremo quella miscela che è la dinamica economica del nostri giorni, il cui effetto immediato è appunto la “dinamica dei valori”.
Ma i valori, per non ridursi a vaghezze metafisiche, oltre che aver bisogno della temporalità, necessitano di un altro concetto: la relatività reciproca. Non ha senso dire il bene X vale 100, se non abbiamo termini di paragone con gli altri beni, i quali o restano fermi o si muovono a loro volta nella stessa o nell’opposta direzione di X e da questa constatazione esce l’ulteriore considerazione che dinamismo e relatività del valore di X possiamo scoprirli solo se esiste un mercato, che è un luogo di informazioni, senza le quali non si formerebbero i prezzi. Con questa considerazione si introduce il concetto di “mercato”, che oltre a luogo di informazioni è il terreno di incontro-scontro delle varie imprese concorrenti, in filiera orizzontale o verticale.
Qui sta il cuore della nostra analisi, nel senso che le informazioni che si colgono sul mercato devono servire a farci capire se la gestione dell’impresa, attraverso l’organizzazione che le è stata data, sia o no adeguata alla velocità del cambiamento in atto e alla forza contraria della c
oncorrenza e del consumatore.
Quando si scopre che la struttura di un’impresa è inadeguata al momento attuale o al futuro, talché ne può derivare un giudizio di declino o di mancata crescita proporzionale agli altri attori del mercato, allora è giunto il momento di pensare a cambiamenti, che si possono progettare solo proponendo una “strategia”, cioè ponendo in essere le condizioni di analisi e decisionali per un “giro di boa”, in altri termini per realizzare un turnaround (6), in cui può essere compreso il caso di un cambiamento del controllo dell’impresa.
Si possono leggere tante definizioni di mercato (7). Per questa analisi interessa quella che lo definisce flusso di tutte le informazioni quali si possono leggere nei prezzi.
2. IL DINAMISMO ACCELERATO DA GLOBALIZZAZIONE E NEW ECONOMY MODIFICA IL RAPPORTO DELL’IMPRESA CON IL MERCATO
2.1. Idea
I fenomeni descritti creano nuove dinamiche, ma queste a loro volta creano continui mutamenti di rapporti esterni (l’azienda con il mercato, compresi i concorrenti; le dimensioni dell’azienda rispetto al nuovo problema della globalizzazione) e interni (tra soci) (8). Questo ulteriore fenomeno è causa di mutamenti di scenari e di esigenze che comportano cambiamenti di strategie. Non cogliere il momento del cambiamento può essere esiziale per l’impresa di qualsiasi dimensione. Basti pensare al caso Polaroid, inventrice della fotografia a sviluppo istantaneo, che vinse anche un’annosa causa legale contro la Kodak, ma non riuscì a convertirsi in tempo con l’avvento della fotografia digitale. Il risultato è che nell’ottobre 2001, al Tribunale di Los Angeles è stata presentata istanza di fallimento (9). Altro esempio californiano è dato dal crollo della Chiquita, la ex regina delle banane, che deve fare i conti con errori strategici non legati alla frutta esotica (10). Ma sul punto delle cause che possono esigere un cambiamento, imposto dal dinamismo del tempo e dal mutamento del rapporto tra l’impresa e il mercato, ve n’è sono due particolarmente pressanti:
– la struttura familiare di gran parte delle imprese italiane, che fondendo e confondendo la proprietà con la direzione, ne rende impossibile una vera managerializzazione, con problemi crescenti fino all’indilazionabile momento in cui l’imprenditore con mentalità da “padrone delle ferriere” si scopre troppo invecchiato e inadeguato a un salto generazionale. Questo si verifica anche quando, pur avendo preso per tempo le misure opportune, vi è comunque da risolvere un problema successorio; – la dimensione delle nostre imprese.
In un saggio recente (11), si legge che la dimensione delle imprese italiane è meno della metà della media UE, lasciando, per conseguenza, anche la produttività sotto la media, per il rapporto di correlazione, statisticamente rilevato, tra dimensione e produttività. Questo fenomeno, descritto e interpretato da fonte istituzionale e professionale come l’Ufficio Studi della Banca d’Italia, è già da solo elemento sufficiente per prevedere che le operazioni straordinarie diventeranno una necessità, peraltro già in ritardo, per recuperare il terreno perduto nei confronti della concorrenza internazionale. Queste constatazioni sono riassunte nel giudizio corrente, secondo cui “piccolo è bello”, sarebbe un concetto superato, perché ciò che valeva ieri può non essere più sostenibile oggi e domani.
Però non si deve dimenticare il fenomeno patologico dei fallimenti delle grandi istituzioni finanziarie giapponesi e, nel campo della distribuzione, dei grandi magazzini Sogo e delle case automobilistiche dell’Oriente.
2.2. Strategia
Si afferma con frequenza che per risolvere i complessi problemi dell’azienda occorre una strategia, cioè un programma globale elaborato dal “direttivo” (management) (12) con individuazione di fini e di mezzi, implicante una riorganizzazione generale dell’impresa tale che, dopo la realizzazione, in genere nel periodo medio-lungo, questa conseguirà un posizionamento sul mercato, diverso da quello in cui si sarebbe trovata mantenendo lo statu quo ante.
Inoltre, si deve fare una constatazione importante: esiste un raccordo tra strategia, operazione straordinaria e verifiche di fattibilità ed è la valutazione del capitale economico, perché il mantenimento dello statu quo oppure i giri di boa (turning point) trovano la loro sintesi nella valutazione del capitale economico; cioè: non ha senso cambiare, se il cambiamento non migliora il valore del capitale economico.
In genere, definita una strategia, si forma un “piano industriale”, che non è lo stesso proponibile in caso di start-up, cioè di creazione di nuova impresa, perché il nostro tema riguarda cambiamenti con operazioni straordinarie di imprese già operanti sul mercato e talvolta pericolosamente “invecchiate”. La constatazione che il contesto è cambiato ci fa balenare l’idea di una operazione straordinaria. Il business plan o piano industriale in genere è redatto in questa fase.
Si deve però ricordare che in molti casi l’adozione di una strategia è suggerita da un’intuizione, cioè da un’idea iniziale che precede le analisi. Nelle imprese meglio organizzate esiste addirittura una divisione strategica, ove la strategia è pianificata e non lasciata solo all’intuizione o alla fantasia di qualcuno. Qui dobbiamo considerare che in realtà i piani strategici sono inizialmente almeno due: il primo considera il non-cambiamento, il secondo il cambiamento ed entrambi possono assumere una veste quantitativa solo se si redigono i progetti esecutivi.
La partenza del progetto esecutivo è un’analisi dei bilanci storici, con rilevazioni di indici e parametri per fare, con altre informazioni di natura extracontabile, un check-up dell’azienda. Questa analisi potrebbe consentire di mettere in luce punti di forza e di debolezza dell’azienda. Si devono proiettare nel futuro dati economici e patrimoniali con il criterio del coeteris paribus, e ciò per rispondere alla domanda: come si collocherebbe (quale sarebbe il destino) dell’azienda nel contesto di mercato prevedibile, se l’azienda non modificasse la sua struttura? La risposta avvia il processo di interazione critica tra l’intuizione-idea avuta dall’imprenditore e la previsione nel caso di non-cambiamento. Come a dire che: se le proiezioni sono ottime, si può dubitare della validità o dell’urgenza di passare a un cambiamento. Ma se le proiezioni sono negative, si ha la conferma della necessità dell’idea di cambiamento.
Pertanto la prima fase dell’analisi riguarda le proiezioni senza mutamento dell’esistente (coeteris paribus), se non altro per l’elementare principio di buon senso che, prima di proporre cambiamenti, bisogna conoscere in modo approfondito l’esistente.
Partiamo dalla prima analisi: quella dei bilanci. Si debbono scegliere i materiali e gli strumenti, gli attrezzi, per l’analisi. Innanzi tutto i materiali sono una serie di bilanci storici, che devono rispettare il criterio di omogeneità di forme e criteri. Si tenga presente che il riferimento di primo livello è in genere il bilancio approvato dall’assemblea e pubblicato, al quale devono essere apportare le modifiche, le correzioni e le integrazioni per passare dal bilancio formato a sensi di codice civile e principi contabili a quello più adatto per l’analisi. Fatta questa ricostruzione, non ancora proiettata alla determinazione del capitale economico, ma preordinata alla valutazione critica della strategia pensata, si deve passare alla riclassificazione dei valori in voci adatte alla applicazione dei ratios. Ovviamente prima della riclassificazione finalizzata ai ratios si deve avere l’idea dei ratios da impiegare e qui l’analista dei bilanci deve esprimere tutta la sua professionalità e specializzazione. Per esempio, si deve scegliere se orientare l’analisi a indicatori tipo ROI, ROS, ROE, EVA ecc.
In genere è inevitabile un’opera di assestamento critico, possibile solo se si conoscono
le politiche seguite dagli amministratori per conseguire obiettivi (in genere almeno due) di livellamento dei redditi nel tempo e di fruizione di benefici fiscali. Così si deve, quasi normalmente, intervenire con rideterminazione di spalmature di costi a “fecondità ripetuta”, quali spese di pubblicità, R&S (Ricerca e Sviluppo), di riqualificazione del personale, ammortamenti anticipati, ecc.
Proseguendo nell’analisi, constatiamo di aver riclassificato ed eventualmente corretto i bilanci in modo che aggregazioni o scomposizioni in nuove voci si prestino alla applicazione di un’analisi per rapporti e indici.
Oggi, con la diffusione del computer, le serie di indici sono alla portata di tutti, non così la loro interpretazione. È su questa che si differenzia l’intuizione e la professionalità del vero analista, rispetto al lettore superficiale.
Fatta la diagnosi corretta dei mali dell’impresa, si deve passare alla terapia, che può essere clinica o chirurgica. La considerazione è importante, perché può costituire l’anello di congiunzione con la valutazione del capitale economico, che, come per tutte le valutazioni, varia secondo il fine.
Facciamo esempi:
se la terapia consiste nel reperimento di capitali dovremo stabilire se ci rivolgiamo a privati finanziatori (pool di banche, merchant bank, investment bank, istituzioni finanziarie, fondi di investimento chiusi), che ragionano secondo un’ottica prevalentemente finanziaria, nel qual caso sarà realistico prevedere che la valutazione dovrà scartare capitalizzazioni di spese di R&S, di pubblicità e propaganda, di addestramento e qualificazione del personale. Se, invece, si pensa a reperire i fondi con operazioni in borsa, si può ipotizzare che, con opportune spiegazioni, tali capitalizzazioni possono essere fatte accettare. Se la terapia consiste in un ingresso di nuovi soci industriali con processi complementari, orizzontali o verticali, le spese capitalizzate di R&S, pubblicità e qualificazione del personale, possono essere anche apprezzate, in una certa misura e a certe condizioni, comunque, solo da chi ha una visione imprenditoriale ed economica e non puramente finanziaria.
Nella fattispecie non basta l’analisi dei bilanci della società, proprio perché l’impresa è un “relativo”, cioè le sue avanzate o i suoi ritardi sono per confronto al cammino dei concorrenti; quindi in genere si debbono analizzare anche i bilanci di questi, ovviamente scelti tra i più significativi e “meglio” posizionati sul mercato, per tentare di scoprire le cause del nostro rallentamento “attuale” rispetto alle imprese, che, invece, corrono di più. Questa analisi, che si svolge mediante paragoni e raffronti di dati sull’esterno, in genere dei concorrenti, più che su dati storici dell’azienda stessa, è frequentemente denominata con il termine benchmarking. (13) Quasi sempre i bilanci non bastano e occorrono altre informazioni di natura non contabile per analizzare l’intero fenomeno.
Sul tema degli indici osservo che è diffusa l’opinione che EVA rappresenti un efficace strumento per valutare criticamente la convenienza economica delle possibili strategie d’impresa (14). Senza negare la validità di tale strumento, ritengo che anche il tradizionale ROI possa fornire adeguati riferimenti di valutazione critica.
L’analisi precedente potrebbe darci conto solo dell’attuale e, quindi, bisogna aggiungervi un’altra fase: stabilire se i dati consuntivi possono essere proiettati in futuro, operando con budget flessibili, per verificare quale sarebbe lo scenario in assenza di cambiamenti strutturali e ciò per rispondere alla domanda: come si posizionerà la nostra impresa nei prossimi anni? Solo con questa analisi si può concludere il giudizio di validità della intuizione originaria, che ha suggerito di avviare la elaborazione di un piano strategico. Si potrebbe anche verificare che il giudizio concluda con un “non vi è luogo a procedere”, perché il cambiamento potrebbe rappresentare un peggioramento della situazione e i condizonamenti interni o esterni possono costituire vincoli di irrealizzabilità di una strategia. Si rammenti che lo scopo finale è quello di incrementare il valore della società nel medio-lungo periodo e, quindi, dovranno essere scartate tutte le ipotesi che non realizzerebbero questo obiettivo. Quindi, questa analisi costituisce la risposta alla domanda: se un cambiamento strutturale sia, non tanto necessario, quanto possibile.
2.3. Necessità di compiere un’operazione straordinaria
Posto che si debba cambiare, arriva la seconda analisi: l’idea della operazione straordinaria (per esempio: un conferimento o una fusione), che dà luogo a una previsione di un diverso scenario. Se questa proiezione fa emergere dati soddisfacenti, si ottiene la conferma della validità della scelta. In genere le operazioni straordinarie, che non sono tra di loro intercambiabili, avendo ognuna caratteristiche sue proprie e rispondendo a finalità diverse o subendo condizionamenti dalla struttura organizzativa attuale dell’impresa, sono quelle elencate nella legge 358/1997. Non se ne fa qui nemmeno una descrizione, trattandosi di operazioni note, ma si attira l’attenzione sulla loro idoneità a realizzare gli obiettivi della strategia, di cui sono strumento:
2.3.1. Cessione di azienda o suo ramo
Poiché le strategie sono in genere proiettate a un allargamento del business, è più facile immaginare un acquisto di azienda, anziché una cessione. Ma si sono osservati casi frequenti di cessioni in un piano di riordino e di riorganizzazione. Si può cedere un’azienda o un ramo aziendale operante in un settore, per acquisirne in altri, nei quali vi sono più spazi di mercato e dove l’impresa è più forte. È noto lo slogan: concentrarsi sul proprio core business. Può trattarsi di un vero e proprio rimescolamento di carte. Si faccia l’esempio di un’industria che produce automobili e ciclomotori. Potrebbe rientrare in un piano strategico logico e condivisibile la cessione del ramo ciclomotori, sul cui mercato l’impresa subisce una forte concorrenza, con o senza la prospettiva di una acquisizione di un’azienda di produzione di gruppi ottici, che può costituire una integrazione verticale del proprio core business nel settore automobilistico. La storia economica recente ci fornisce molti esempi di riorganizzazione di imprese conglomerate trasformate in gruppi mediante operazioni di cessioni e di acquisizioni.
Ma vi sono casi di cessioni, che si prestano ad analisi critiche più delicate. Sappiamo che vi sono manager remunerati almeno in parte in relazione a risultati conseguiti. La scelta di benefit rapportati a indici di tipo ROI o ROA o RONA, che sono caratterizzati dall’avere al denominatore valori globali di asset, potrebbe spingere i manager a smagrimenti di attivo nel tentativo di migliorare l’indice a proprio vantaggio anche a costo di ridurre il valore globale dell’azienda (15) oppure a non fare investimenti, che incrementerebbero comunque il valore complessivo (16). Non dimentichiamo mai il concetto di “marginalità”, che è centrale per la microeconomia. Ogni dose che può produrre miglioramenti sul totale, sia esso la produzione, il ricavo e per sintesi finale il valore, deve essere considerata. Si ricordi la rivoluzione concettuale portata dall’analisi dei costi condotta con il criterio del direct costing, anziché con il full costing, da cui può conseguire l’apprezzamento di prodotti o settori o centri in grado di assorbire costi fissi, quindi meritevoli di conservazione, mentre l’analisi del full costing ne avrebbe decretato l’espulsione.
2.3.2. Cessione di partecipazioni di controllo
In genere questa operazione è una modalità di realizzazione dell’operazione di cessione di azienda vista nel § precedente, solo che avviene cedendo il pacchetto di comando anziché dell’universitas. 2.3.3. Conferimento di aziende e/o partecipazioni di controllo
Si tratta di operazioni attuate per realizzare ri
organizzazioni di gruppi societari oppure per creare nuove società con confluenza di rami di più imprese.
2.3.4. Permuta di partecipazioni
Anche questa operazione rientra in una operazione di piano strategico. Si prenda come esempio lo scambio avvenuto tra FIAT e General Motors nell’anno 2000. Il vantaggio di questa operazione, coeteris paribus, può essere anche nella sua realizzabilità senza movimenti finanziari.
2.3.5. Fusione
La fusione è operazione impiegata per vari motivi. Si astrae, per la nostra analisi, da fusioni per incorporazione di società già controllate e che si ritiene di assorbire formalmente per conseguire risparmi nei costi di gestione, poiché la finalità non può essere considerata nel tipo di strategia qui esaminata. Ma se è collegata a un piano strategico di vasto respiro, si può considerare che la fusione è in molti casi una operazione finale di un piano strategico che ha posto l’obiettivo dell’allargamento del business, a parte il suo collegamento necessario a una operazione di Leveraged Buy Out.
2.3.6. Scissione
Qualcuno la definisce l’operazione inversa della fusione. Spesso viene chiamata spin-off, che, però, potrebbe essere operazione diversa. A stretto rigore con lo spin-off si genera una nuova impresa per partenogenesi, con a capo un nuovo imprenditore, mentre sappiamo che la scissione è il distacco di una universitas immessa in altra società e le cui azioni sono attribuite ai soci della società scissa. In termini biologici una specie di sporulazione.
Alla scissione si ricorre talvolta, quando la strategia impone un frazionamento delle attività produttive o l’espulsione di enti attivi e passivi non direttamente coordinati o coordinabili con la gestione caratteristica e, ancora, per ridurre il denominatore di ratios tipo ROI, ROA, RONA e, quindi, migliorare gli indici. La scissione, in tal caso, ha molti punti in comune con la “cessione”. Una scissione si può proporre anche quando si intenda valorizzare attività disperse nel totale degli attivi di varie società di un gruppo, come, per esempio, gli immobili, che si decide di far confluire con operazioni di scissione, aggregate o no con conferimenti, in società generalmente di nuova costituzione. Ricordo i recenti esempi di “Assicurazioni Generali” e RAS. Generali, nel settembre del 2011, ha deciso di scindere, in parallelo ad analoga operazione (chiamata spin-off) imposta alla controllata “Alleanza Assicurazioni”, il parco immobiliare, si dice nel comunicato: «…per una gestione ancora più integrata e una più dinamica attività sui mercati.» (17). Pochi giorni dopo RAS ha annunciato un’operazione analoga e con le stesse motivazioni (18).
Le operazioni prima elencate sono quelle che il legislatore della 358/1997 ha inteso agevolare o neutralizzare sul piano fiscale, purché esistano “valide ragioni economiche”. A queste si possono aggiungere, tra le tante possibili: il Leverage Buy Out (LBO) e l’OPA.
2.3.7. Leveraged Buy Out (LBO)
Oggi se ne sente parlare un po’ meno, ma fino a qualche anno fa è stata operazione molto seguita, con oscillazioni di dottrina e giurisprudenza sulla sua legittimità, negata da chi ritiene l’operazione in contrasto con l’art. 2358 cod. civ., su cui non bisogna però cadere in facili generalizzazioni (19). Poiché operazioni del genere continuano a essere effettuate, soprattutto nelle varianti MBO (Management Buy Out) e FMO (Family Buy Out), ne ricordiamo la struttura. Anche in questo caso i raider americani hanno fatto scuola sull’esempio delle operazioni realizzate da “KKR”, che negli anni 80 guadagnò miliardi di dollari aggredendo la catena di supermercati Safeway, il gruppo Beatrice, il colosso Rjr Nabisco, poi smembrando le società acquistate e distruggendo migliaia di posti di lavoro. Il tutto con la collaborazione finanziaria delle grandi banche. È ovvio che non basta il “pelo sullo stomaco” e nemmeno basta la collaborazione dei banchieri, ma occorrono momenti storici particolarmente favorevoli: un prolungato ristagno nelle quotazioni dei corsi di borsa e un costo del danaro relativamente basso, che in genere è fenomeno coesistente con il ristagno, che lascia in circolazione ingente liquidità, impiegabile dalle banche a basso costo. In genere l’incursore individua una società ricca di liquidità, la aggredisce con operazione quasi sempre ostile (raider significa appunto “incursore”), attingendo al mercato dei capitali di prestito per realizzare l’acquisto, quindi largamente indebitandosi. Oppure, ciò che è ancora più criticabile, acquista una società sottovalutata, poco indebitata, ma con grande capacità di credito; la indebita in misura pari all’esborso sostenuto per acquisirla e gira la liquidità con finanziamento integruppo alla società raider, che ne ha acquisito il controllo, affinché questa possa rimborsare i prestiti ottenuti per l’operazione.
Fatta l’acquisizione, spesso completata con OPA per irrobustire il pacco azionario (talvolta anche per raggiungere il 100% e avere mani libere nelle deliberazioni assembleari), viene realizzata una complessa operazione di fusione, per “mettere le mani sulla liquidità”, che, così passa nelle casse sociali della incorporante, che ha compiuto l’incursione. La liquidità acquisita viene subito impiegata per rimborsare i debiti contratti per l’incursione e non sono mancati casi in cui la società raider ha in pratica acquistato la società con le risorse finanziarie della stessa società acquisita. In genere poi seguono anche ristrutturazioni e smembramenti, che alimentano operazioni di scissione o cessione. Come si vede in una manovra LBO possono stare più operazioni straordinarie. Meno aggressive si presentano le varianti FBO e MFO, spesso attuate con il consenso degli azionisti, perché servono per superare, specie in aziende a capitale familiare, difficili sistemazioni di pacchi azionari nell’interesse della continuità dell’impresa.
La critica che viene mossa all’LBO, oltre ad aspetti etici, è la complessità dell’operazione che esige spesso pattuizioni contrattuali difficili e che comunque comporta l’assunzione di rischi elevati per l’assunzione di ingenti debiti, la cui durata potrebbe anche non essere breve, quando insorgono complicazioni di carattere giuridico e il carico degli interessi diventa moltiplicativo dell’indebitamento (20).
2.3.8. OPA
L’altra operazione straordinaria, che va molto di moda e non è sempre dettata da una necessità emergente dall’insoddisfacente posizionamento attuale dell’impresa sul mercato, è l’OPA, che può sì preludere a una strategia di integrazione sostanziale attraverso il controllo di un’altra impresa, destinata o no alla fusione, ma spesso è stimolata da una finalità di mera aggressione finanziaria.
3. REALIZZAZIONE DELL’OPERAZIONE STRAORDINARIA
3.1. Relazione di stima ex articoli 2343, 2343 bis, 2498, 2501, 2501 bis, 2504- septies cod. civ.
La scelta di una ben identificata operazione societaria straordinaria può comportare una perizia (per esempio nel caso di conferimento o fusione con concambio) ex art. 2343 c.c., formalmente ordinata dalla società, oppure una valutazione sostanziale, nel caso in cui ci siano movimenti azionari (cessioni di pacchetti a nuovi soci) nell’ambito di una operazione, che di per sé non la richiederebbe (per esempio una scissione contestuale e proporzionale ex art. 2504-novies ultimo comma c.c.). A questo punto può essere richiesta la determinazione del capitale economico. Si deve fare una osservazione: vi possono essere casi in cui debbano esistere le due perizie, perché l’operazione straordinaria scelta la esige ex art. 2343 c.c., ma il perito nominato dal Tribunale deve rispettare vincoli tali che non gli consentono di esprimere tutti i valori potenziali. In questo caso la corretta determinazione del capitale economico passa attraverso una seconda valutazione extra art. 2343 c.c., che può essere anche una integrazione
della prima. È comunque a questa seconda il riferimento di questa analisi, che, si ripete, potrebbe essere anche diversa da quella impiegata per verificare criticamente la strategia, proposta in una fase anteriore del processo di avanzamento dell’operazione straordinaria e finalizzata a verifiche interne o, addirittura, alla determinazione del prezzo definitivo, condizionato a una eventuale successiva due diligence.
Che si tratti di valutazioni diversamente orientate e, quindi, con conclusioni su valori non necessariamente coincidenti, ce lo dimostrano i tanti esempi di contratti riguardanti il cambiamento del controllo dell’impresa, che spesso precedono la relazione di stima ex art. 2343 c.c. e l’operazione formale che la richiede. Nei contratti “sostanziali” spesso si legge che le parti si obbligano a operazioni di riassetto delle relative partecipazioni mediante ritrasferimenti a titolo sostanzialmente gratuito o a versamenti di conguagli in danaro successivamente al compimento dell’operazione formale, al fine di realizzare il posizionamento tra le parti, quale deriva dal contratto sostanziale rispetto al successivo atto formale, che, invece, deve riflettere i valori della perizia ex art. 2343 c.c. eventualmente diversi. Per esempio: se da una trattativa conclusa in contratto emerge che A e B devono pervenire a un assetto finale di 60 e 40 dopo un’operazione di conferimento delle rispettive aziende e dalle due perizie ex art. 2343 c.c. consegue un atto notarile, in cui le proporzioni sono 50 e 50, è evidente che per rispettare il preminente accordo sostanziale, che prevede per B la perdita del controllo della sua PMI, successivamente all’atto notarile dovrà intervenire un passaggio gratuito del 10%.
3.2. Valutazione dell’azienda
In relazione all’esigenza espressa nel precedente punto (ultima proposizione del titolo) scattano le problematiche di valutazione con le scelte dei criteri opportuni per realizzare il fine, che è il filo conduttore di tutta la strategia fino al conseguimento dell’obiettivo finale. Valutare un’azienda vuol dire senz’altro esprimere un giudizio di valore. Ma come ogni altro giudizio umano deve essere dichiarato il fine per cui lo si emette. Abbiamo prima considerato due valutazioni: quella per l’analisi critica della strategia e quella del perito che opera nell’ambito dell’art. 2343 cod. civ. Ma, dopo aver concluso sulla operazione straordinaria più adeguata in relazione agli obiettivi da raggiungere, in genere si deve avviare una trattativa in termini dialettici, perché un’operazione straordinaria ha quasi sempre degli svolgimenti con vecchi o nuovi e potenziali stakeholder, con il che non si intende affatto affermare che le valutazioni debbano essere manovrate o manipolate, ma onestamente orientate al proprio fine. Trascuriamo pure i metodi di elaborazione patrimoniali, misti e reddituali, noti a tutti, adeguati a stimare aziende del settore commerciale e manifatturiero, non certo per le imprese della new economy o delle utilities. Consideriamo, invece, per il carattere innovativo (ma, poi, dietro ci stanno i soliti concetti):
DCF, EVA, MVA, REVA, CFROI, MOL.
3.2.1. DCF (Discounted Cash Flow)
Questa tecnica di valutazione consiste nell’attualizzare i flussi di cassa attesi a un tasso che tenga conto anche del rischio che possano non verificarsi. Si basa sulla formula
Value = Sommatoria per t da 1 a n di (CF /(1+r)elevato a n))
che, come si nota, è la stessa impiegata per attualizzare i flussi di reddito. Si basa sulla variabile free cash flow, che gli anglosassoni così ottengono
Net Operating Profit After Tax (NOPAT)
+ depreciation and amortisation
– capital charges or costs of capital
– changes in the working capital requirement (WRC) (21)
= FREE CASH FLOW
Contro questa tecnica si leva, in genere, la critica (22) che si attualizzano valori incerti, critica che non condivido, poiché sempre il valore è incerto per natura, essendo comunque fondato sul tempo futuro. Come a dire che un’incertezza vale un’altra. È l’onestà del valutatore che non deve essere incerta!
La figura del free cash flow merita attenzione sul piano finanziario, a prescindere dal suo impiego per la determinazione del valore del capitale economico. Infatti, può essere anche interpretato come il flusso finanziario che rimane all’impresa dopo il pagamento dei dividendi, il finanziamento dei bisogni in capitale circolante e il finanziamento degli investimenti nuovi o di rimpiazzo. Pertanto, il free cash flow misura la capacità dell’impresa di rimborsare i prestiti ed è tenuta in concreta considerazione da parte dei prestatori di fondi, che possono attendersi il rientro solo se quel valore residuale è positivo; diversamente l’impresa sarà costretta a rifinanziare i debiti. Ne sanno qualcosa i giganti giapponesi dell’auto. Giganti nei debiti, ma poco liberi, perché con scarso free cash flow e, quindi, costretti a patteggiare penosi interventi da parte dei concorrenti europei e americani. (23)
3.2.2. ROE (Return On Equity)
La redditività del capitale proprio è sempre stata un punto di riferimento fondamentale per la determinazione del valore di un’azienda, secondo il principio che un bene vale per ciò che rende in prospettiva. Ultimamente sono state proposte nuove tecniche e nuove analisi. Il ROE ha perso interesse, ma solo in apparenza, perché non si può cancellare un principio, che sta dietro, in forma più o meno esplicita, agli altri criteri di valutazione. Prova ne sia che il Presidente della “Morgan Stanley Asia”, trattando nell’ottobre 2001 della crisi delle imprese asiatiche ha evidenziato che per risollevarsi devono elevare il loro return on equity in modo da avvicinarlo a quello dei concorrenti americani ed europei (24). Un recente studio di BNL rivela che il ROE delle banche, che hanno realizzato operazioni straordinarie, è risultato drogato dalle componenti straordinarie evidenziate dalle operazioni stesse (25). Quindi il vecchio ROE è ancora un punto di riferimento significativo.
3.2.3. EVA (Economic Value Added)
EVA è un’invenzione (si fa per dire!) accreditata a Steward Stern, che sarebbe riuscito a integrare il famoso studio Modigliani-Miller, privo, nella sua formulazione astratta e generale, di una tecnica per misurare il reddito dell’azienda. Con Stern Steward, si ebbe la soluzione che non era venuta in mente a entrambi. A parte le critiche al concetto base della teoria di Modigliani-Miller, secondo cui un’azienda indebitata vale più di un’altra coeteris paribus, si ha l’impressione che EVA sia anche un’abile opera di riciclaggio.
« Eva è il motore principale del valore azionario.» Se questa affermazione è corretta (26), ritengo sia difficile non collegare a EVA la valutazione dell’impresa societaria. Infatti, EVA è il reddito residuo dopo aver dedotto il costo di “tutto” il capitale investito, sia quello fornito dagli azionisti e sia quello di debito. I sostenitori hanno cura di avvertire che «…Calcolare il costo del debito è facile…il calcolo del costo del capitale proprio è più complesso…» (27), quindi, suggeriscono di ricorrere a costi medi ponderati (28). Ovviamente i fautori ne indicano anche tante virtù, tra le quali, la principale sarebbe che EVA è in grado di misurare il rendimento della società su dati effettivi, anziché su proiezioni, come avviene per il DCF e per i criteri reddituali di valutazione (29).
In sintesi, nel testo di J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, si legge questo esempio:
« EVA è definito come il profitto netto operativo dopo le tasse (NOPAT) meno l’onere del capitale che riflette il costo del capitale dell’azienda. Per cui, se il capitale di una società è $ 5,000 e il suo costo è il 12 per cento, il costo del capitale è $ 600. Se NOPAT, supponiamo, è $ 1,000, l’onere di 600 è sottratto e il risultato è un EVA di $ 400.» (30) .
Faccio un’osservazione: la scuola italiana ha sempre dato prioritari
a importanza al reddito e, quindi, all’uso dell’indice ROE. Ebbene, se indaghiamo con attenzione constatiamo che la differenza tra EVA e ROE si traduce alla fine in un EVA pari al ROE, da cui abbiamo sottratto il costo figurativo del capitale proprio.
Poiché, alla fine, la differenza tra EVA e ROE è soprattutto nel fatto che il primo considera il costo di tutti i capitali, propri e altrui, mentre il secondo solo quelli di prestito, è opportuno considerare che il valore di quel “tutto” rispetto alla parte può essere la causa della differenza di valore del capitale economico dei due criteri. Si è prima ricordato il giudizio corrente che «…Calcolare il costo del debito è facile…il calcolo del costo del capitale proprio è più complesso…». Ma, poiché l’incertezza della parte si riversa sul tutto, è da considerare saggia la scelta di chi impiega il ROE, che tale incertezza esclude. Sul tema si potrebbe richiamare anche la teoria tradizionale classica dei costi medi e dei costi marginali, che il teorema Modigliani-Miller non è riuscito a rivoluzionare fino a vanificarla. Semmai si tratta di considerare gli effetti sul valore prodotti dalla deducibilità degli interessi passivi sul capitale di prestito dalla determinazione del reddito imponibile fiscale, che nessun regime politico potrà mai disconoscere in termini assoluti a meno di negare al “capitale” la natura di “fattore della produzione”, con il che negheremmo l’economia stessa.
Applicata al costo del fattore capitale, la teoria tradizionale afferma che l’indebitamento esterno può essere interpretato come la variabile indipendente del costo del capitale di prestito costante fino a un certo valore e crescente oltre, mentre il costo del capitale proprio di rischio è crescente al crescere dell’indebitamento proprio per il rischio di perdita del capitale proprio che il leverage spinto oltre un certo livello può costituire per la sopravvivenza dell’impresa. Se si inserisce nel concetto la componente della imposizione fiscale sul netto, si può constatare che a parità di capitale investito (mezzi propri+debiti) e, quindi, di “reddito operativo”, la redditività netta dell’impresa, che ha maggiori interessi passivi da corrispondere fiscalmente deducibili, può essere superiore a quella dell’impresa “gemella” ma con più capitale proprio. La conclusione può essere errata, almeno oltre un certo livello di indebitamento, perché il rischio può superare il vantaggio della minor tassazione e così rendere inaccettabile il teorema Modigliani-Miller, più presente nei fascicoli delle cancellerie fallimentari dei tribunali che nelle elaborazioni degli analisti finanziari.
Però il nostro interesse per EVA, non è fine a se stesso, ma è la sua strumentalità alla determinazione del valore del capitale economico o di quello che gli anglosassoni chiamano il Market Value. Allora, può essere utile riprendere dal testo EVA and Value-Based Management di Young-O’Byrne le precisazioni seguenti:
« Market value = capitale investito + valore attuale degli EVA futuri
…Gli EVA futuri provengono da due fonti: una ripetizione dei livelli di performance già conseguiti e i miglioramenti di EVA. Quando il capitale investito è aggiunto al valore capitalizzato di EVA corrente (EVA/WACC), noi abbiamo il valore delle operazioni correnti (Current Operations Value: COV) dell’impresa. Questo è ciò che il valore di mercato dell’impresa sarebbe se i mercati del capitale attendessero la stessa performance di EVA in perpetuo come la società ha acquisito nell’anno più recente. COV eguaglia la somma del capitale investito e il valore capitalizzato dell’EVA corrente. Il valore capitalizzato dell’EVA corrente è uguale al livello di EVA corrente diviso per il costo del capitale. La capitalizzazione dell’incremento di valore di EVA è nota come future growth value (FGV) (incremento futuro di valore). Perciò
Market value = current operations value + future growth value = invested capital + capitalized value of current EVA + future growth value

[Valore di mercato = valore delle operazioni correnti + valore del futuro incremento = capitale investito + valore corrente di EVA + incremento futuro di valore]
In breve, FGV è il valore attuale dell’incremento atteso di EVA su tutti i periodi futuri….
Possiamo ora riformulare il valore di mercato di un’impresa come segue:
Market value = invested capital + capitalized value of current EVA + capitalized value of expected EVA improvement

[Valore di mercato = capitale investito + capitalizzazione del valore corrente di EVA + capitalizzazione del valore dell’incremento dell’EVA atteso].»
3.2.4. REVA (Refined Economic Value Added)
EVA non è certo indenne da critiche (31) e ne sono state proposte correzioni e varianti. In una versione modificata si è proposto di calcolare il capitale investito non sulla base del valore corretto di libro ma sul valore di mercato dell’impresa. Da qui l’aggiunta di “refined”, cioè “raffinato” (32). Ma i limiti di fondo di EVA restano. 3.2.5. CFROI (Casflows Return On Investment)
I critici di EVA imputano a quel parametro il difetto di essere espresso in termini monetari e, così, propongono un tasso di redditività, appunto il CFROI (33), che confronta, dopo le imposte, i cashflow corretti dall’inflazione disponibili per gli investitori della società con gli investimenti lordi, sempre corretti dall’inflazione, realizzati con i capitali da essi forniti. 3.2.6. MVA (Market Value Added)
L’inventore di EVA, Steward Stern, è anche l’inventore del Market Value Added (MVA) (34), che indica la differenza tra il valore di mercato di una società e le somme investite in essa negli anni. L’acronimo MVA è anche inteso come Management Value Added, a significare il valore aggiunto agli attivi netti affidati alla responsabilità del management. Per determinare il valore di mercato, il capitale è preso al prezzo di mercato alla data in cui è fatto il calcolo – il che è possibile solo per le società quotate in borsa mediante la capitalizzazione dei corsi – e il debito al valore di libro. L’investimento totale della società dal giorno iniziale è allora calcolato – debito fruttifero e capitale azionario, includendo gli utili ritenuti. Il valore di mercato attuale è allora raffrontato con l’investimento totale. Il MVA avrebbe anche un collegamento molto significativo con EVA e ciò in quanto MVA è anche il valore attuale degli EVA futuri, per cui aumentando EVA aumenta anche MVA seppur con correlazione non 1 a 1, per le oscillazioni non sempre economicamente giustificabili dei corsi di borsa che determinano il valore di mercato, che è uno dei due termini di MVA (35).
3.2.7. MOL
Si tratta di variabile molto grossolana e lorda, adatta per certe analisi, ma da usare con massima cautela nella determinazione del valore del capitale economico. Vi sono valutatori che la impiegano come riferimento principale per la valutazione di azienda, pretendendo di stimare il valore del capitale economico, moltiplicando il MOL per un certo parametro (tot volte). Credo che, considerando la natura del MOL e la sua composizione, sia un criterio di valutazione del tutto improponibile. A titolo di esempio, ricordo che nei primi anni Novanta, si aprì una specie di “caccia” all’acquisizione di impresa del settore della produzione di formaggi freschi e vi furono casi di pagamento di prezzi pari al valore delle “vendite nette” in un anno. Rendere il capitale economico pari al fatturato è un criterio di valutazione “improponibile”. Quello ottenuto con il MOL non sarebbe poi tanto diverso. La stampa economica ci offre numerosi esempi in questi ultimi mesi. Si pensi al caso TELECOM, che chiude il bilancio consolidato semestrale 2001 con un MOL aumentato del 9,6% e un utile crollato del 50% (36). Possiamo proporre di valutare TELECOM sulla base del MOL? Possiamo farlo se stiamo vendendo la società, ma non certo se intendiamo comprarla.
Da uno studio d
i Nomisma riferito agli anni 1998, quando le borse non erano ancora in crisi, si apprende che AEM di Milano, che alla quotazione valeva 8,15 volte il MOL e dopo il collocamento, 36,23 volte, cioè 4,5 volte in più; così dicasi per ACSM di Como da 8,12 prima e 22,67 post; AMGA di Genova da 7,12 a 11,90; ACEA di Roma da 10,57 a 17,59. Che significa? Che la società era stata sottovalutata dall’advisor, con grave danno per il Comune di Milano? Oppure la borsa aveva esagerato successivamente con solo vantaggio degli speculatori? Oppure – ed è più credibile – che il MOL è una variabile inaffidabile per questo tipo di valutazioni?
Certo, una valutazione è pur sempre un fatto discrezionale, ma la disciplina delle “valutazioni di azienda” si propone proprio l’obiettivo di rendere il più possibile oggettivi o meno discrezionali i percorsi, che portano ad affermare il valore di quella universalità dinamica di beni avvinti in sistema che è l’azienda.


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Note bibliografiche:
(1) Bolla pontificia Ad conditorem canonum, firmata ad Avignone l’8 dicembre 1322
(2) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, New York, 2001 e S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001
(3) Cfr Joel M. Stern-John S. Shiely, The EVA Challenge, pag. 30.
(4) Confessiones, Libro XI, 14-17.
(5) Axel Leijohnufvud, L’economia keynesiana e l’economia di Keynes, Torino, 1976, pag. 32.
(6) Vedi: S. Pivato-A. Gilardoni, Elementi di economia e gestione delle imprese, Milano, 2000, pag. 192.
(7) Vedi Ronald H. Coase, Impresa, mercato e diritto, Bologna, 1995, pagg. 41 e segg.
(8) Si nota che la globalizzazione rende più frequenti le crisi a livello macroeconomico e, come ricaduta, a livello microeconomico. Il fenomeno è ovvio: quando il mercato diventa il mondo, si moltiplicano le prospettive di crescita della singola impresa, ma anche i pericoli diventano più incombenti e subdoli. Nelle nuove condizioni operative, l’impresa familiare e l’imprenditore “padrone delle ferriere” sono inadeguati. Occorre un’organizzazione di uomini preparati e specializzati. In questo senso va anche inteso il concetto di “professionalizzazione della cultura economica”. Sul fenomeno di accrescimento del rischio come effetto della globalizzazione si veda: M. Platero, Krugman: le crisi rese più frequenti dalla globalizzazione, in “Il Sole-24 ORE”, 25.8.2000.
(9) D. Roveda, Libri in tribunale per Polaroid, in “Il Sole-24 ORE”, 13.10.2001, pag. 26
. (10) D. Roveda, Chiquita scivola sui debiti e sfiora il fallimento, in “Il Sole-24 ORE”, 13.11.2001, pag. 33.
(11) Patrizio Pagano e Fabiano Schivardi ,“Firm size distribution and growth”, pubblicato dalla Banca d’Italia nel febbraio 2001.
(12) Per “direttivo” si intende l’organo o il complesso direzionale in grado di elaborare un piano e di realizzarlo, avendone i poteri, o di farlo approvare dall’organo volitivo dell’impresa.
(13) Vedi: S. Pivato-A. Gilardoni, Elementi di economia e gestione delle imprese, Milano, 2000, pag. 129.
(14) M. Reboa, L’economic value added (EVA) come strumento di valutazione delle strategie¸in “Rivista dei dottori commercialisti”, 1998, pag. 755.
(15) S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001, pag. 68: «…Invested capital decreases when a business or division is sold or closed down. If the reduction in capital is more than compensated for by the improvement in the spread between RONA and WACC, EVA increases.» Inoltre, cap. 4, pag. 113.
(16) S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001, pag. 26: «…Invece di impiegare il “net present value” (NPV) per scegliere gli investimenti di capitale da assumere, molte società preferiscono per la valutazione una alternativa all’approccio al DCF, ‘the internal rate of return’ (IRR) (tasso interno di rendimento)…Il criterio IRR porta alla stessa conclusione della regola NPV, assumendo che il tasso hurdle sia lo stesso del tasso di attualizzazione per determinare NPV. Infatti, così deve essere. Se IRR è più alto del tasso di attualizzazione (cioè il tasso di costo del capitale della società), il NPV deve essere positivo. In entrambi i casi la decisione è ovvia: fare l’investimento.Un importante svantaggio di questo approccio è che, se il management concentra la propria attenzione a massimizzare IRR e non NPV, esiste un rischio significativo nelle società o nelle divisioni dove il return on investment (ROI) è maggiore del weighted-average cost of capital (WACC) che i managers rinunzieranno all’investimento in progetti che prospetti un guadagno più alto del WACC ma inferiore al reddito sull’attivo esistente. La mira per il valore preferito dal manager sarebbe di investire in un qualche progetto con NPV positivo, e questo significa un progetto nel quale l’IRR atteso sia maggiore del costo del capitale. Lo scopo non è di massimizzare IRR sul ritorno dell’investimento, ma di massimizzare NPV. Un altro problema con IRR è l’implicita assunzione che tutti i cashflow ricevuti sull’orizzonte dell’investimento saranno reinvestiti allo stesso IRR. Quando IRR è è sostanzialmente più alto del costo del capitale della società, questa assunzione è altamente non realistica. Per esempio, se IRR è stimato essere il 20%, tutti i cashflow ricevuti sull’intera durata dell’investimento saranno attesi di essere investiti al 20%, anche il WACC della società è, poniamo, solo l’8%. Un’assunzione più realistica è che i cashflow provvisori guadagneranno solo l’8%, o il costo del capitale. UN aggiustamento matematico alla formula IRR può tener conto di questo, ma molte società si scocciano nel farlo. Come risultato, i tassi IRR resi notiper particolari progetti di capitale sono spesso sopravvalutati. »
(17) “ItaliaOggi”, 14.9.2001, pag. 8.
(18) “Il Sole-24 ORE”, 20.9.2001, pag. 33.
(19) Si veda, da ultimo, Corte cass. penale, 15.11.1999, n. 5503 e in dottrina: Giovanni Paolo Accini, Operazioni di leveraged buy out ed un preteso caso di illiceità penale, in “Rivista delle società”, 20001, n. 1, pagg. 193 e segg.
(20) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, New York, 2001, pag. 14. Inoltre M. Onado, Acquisizioni selvagge castigate dal mercato, in “Il Sole-24 ORE”, 27.9.1992, pag. 22.
(21) Il working capital può essere inteso come “capitale di esercizio”, cioè l’insieme di tutti i mezzi economici e finanziari, che concorrono al funzionamento dell’azienda. Il “capitale di esercizio addizionale” sarebbe quello richiesto per l’ampliamento dell’attività produttiva, da qui la traduzione di working capitale requiremet con “variazione nel fabbisogno di capitale di esercizio”. La definizione non è però precisa. Può essere utile ricordare lo schema riprodotto a pag. 45 del testo di S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, da cui si desume: WRC = capitale circolante – debiti a breve non produttivi di interessi.
(22) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, cit., pag. 18.
(23) Pascal Boulard, I giganti dell’auto strangolati dai debiti, “ItaliaOggi”, 21.3.1992.
(24) L. Vinciguerra, «La crisi asiatica peggiorerà » in “Il Sole-24 ORE”, 30.10.2001, pag. 2.
(25) R.R., Il Roe? È un po’ « drogato », “Il Sole-24 ORE”, 7.11.2001, pag. 37.
(26) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, cit., pag. 16: «…Eva is the prime mover of sharholder value…», che alla pag. 15 hanno anche definito EVA: «…is the profit that remain after deducting the cost of the capital invested after deducting the cost of the capital invested to generate that profit. »
(27) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, cit., pag. 15: « Calculating the cost of debt is easy…The equity calculation is more complex…»
(28) S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001, pag. 43: « As mentioned, EVA equals NOPAT, less capital charges. (You will recall NOPAT is the company’s operating profit, net of tax, and measures the profits the company has generated from its ongoing operations.) Capital charges equal the company’s invested capital (also called capital or capital employed) time the weighted-average cost of capital [WACC]. The WACC equals the sum of the cost of each component of capital –short –term debt, long-term debt, and sharholder’s equity—weighted for its relative proportion, at market value, in company’s capital structure.
Invested capital is the sum of all the firm’s financing, apart from short-term, non-interest-bearing liabilities, such as accounts payable, accrued wages, and accrued taxes. That is, invested capital equals the sum of shareholders’ equity, all interest-bearing debt, both short-term and long-term, and other long-term liabilities.

(29) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challa
nge, cit., pag. 18: « The virtue of EVA is that it is a system for gauging corporate performance based on the hard data rather than projections …»
(30) Cfr. M. Reboa, cit., pag. 752: Il concetto di EVA, sin qui inteso come indicatore del valore generato nel periodo da una strategia ( o da un’impresa), può essere utilmente applicato anche in sede di valutazione del capitale economico complessivo dell’azienda. In particolare, si procede dapprima a stimare il valore economico attribuibile al capitale investito, calcolato come somma del valore iniziale del capitale operativo – alla data cioè di riferimento dell’analisi – e del valore attuale degli EVA attesi in prospettiva; vale a dire stimati sulla base dei dati ricavabili dal piano di medio-lungo periodo. Il valore del capitale economico aziendale (vale a dire del capitale proprio) sarà conseguentemente pari al valore economico del capitale investito rettificato, in diminuzione, per tenere conto dei debiti finanziari e, in aumento, di eventuali ‘surplus asset’, presenti nel patrimonio aziendale, ma estranei al capitale operativà. Come messo in luce in uno scritto di Massari [1995], la metodologia valutativa proposta muove in una logica economica ampiamente consolidatasi nella scuola aziendale italiana… Nel caso di specie, non si ravvede quindi l’opportunità di rettificare il valore corrente delle attività per considerare gli EVA futuri ovvero, con terminologia più familiare, per considerare eventuali goodwill o badwill. Nell’ipotesi in cui la redditività sia superiore al tasso di redditività giudicato “normale” per investitori razionali (si è in presenza cioè di condizioni di “sovrareddito”), il valore economico del capitale investito è fatto pari al valore corrente delle attività che lo costituiscono aumentato degli EVA futuri o, in altri termini, del più familiare goodwill… Ciò premesso, il ricercato valore del capitale economico aziendale (W) è pari a: COI+Pv EVA futuri – Debiti finanziari + Surplus asset, dove la somma del capitale operativo investito (iniziale) e del valore attuale degli EVA futuri esprime la grandezza attribuibile al valore economico del capitale investito.» COI (Capitale investito+Debiti finanziari).
(31) Si vedano, tra l’altro, J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, cit., pag. 159 e S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001, pagg. 263 e 342.
(32) S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001, pagg. 260.
(33) S.D. Young-S.F. O’Byrne, EVA and Value-Based Management, New York, 2001, pagg. 375.
(34) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, cit., pag. 16: « There is an other measure, also originated by Stern Stewart, that precisely capture the gains or losses accruing to a company’s shareholders. It is called Market Value Added and is defined as difference between the market value of a company and the sums invested in it over the years …»
(35) J.M. Stern-J.S. Shiely, The EVA challange, cit., pag. 16: « …MVA and is defined as the difference between the market value of a company and the sums invested in it over the years. To determinate market value, equity is taken at the market price on the date the calculation is made , and debt at book value. … There is a significant link between EVA growth and growth in MVA… Put another way, the basic theory is that MVA is the present value of future expected EVA…»
(36) “ItaliaOggi”, 13.9.2001, pag. 9.


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Pietro Bonazza