Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista “Diritto e pratica delle società”,

n. 14-15 del 2006

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1 – Interesse a “fare” e a “non fare”

La presente nota esamina rapporti conflittuali limitatamente al modello di società per azioni tradizionale o latino, constatato che il dualistico e il monistico non hanno trovato favorevole accoglimento, almeno nei primi tempi della riforma introdotta dal D.Lgs. 6/2003.

La conflittualità dell’amministratore può manifestarsi essenzialmente in due direzioni:

a) il compimento di operazioni (fare);

b) l’inerzia (non fare).

Le norme ante riforma davano massima importanza alla patologia del fare (conflitto di interessi) e lasciavano il “non fare” solo implicitamente regolato da un rinvio al rapporto di mandato, che dottrina e giurisprudenza avevano però superato, creando la categoria autonoma del rapporto organico di amministrazione (si vedano, per esempio, le sentenze della Cassazione civile 12.10.1992, n. 11115; 28.4.1997, n. 3652; 3.7.1998, n. 6519; 14.2.2000, n. 1662). In dottrina si leggeva nel classico Imprenditori e società di Francesco Ferrara j. che nonostante la diligenza che gli amministratori: «…devono usare nell’adempimento dei loro doveri sia determinata con riferimento alla figura del mandatario, pure sembra inesatto considerarli come mandatari. Gli amministratori hanno una posizione sotto certi aspetti autonoma e indipendente rispetto all’assemblea che mal si concilia col mandato…». Inoltre, già nel 1985, Franco Bonelli scriveva nel testo Gli amministratori di società per azioni: «…agli amministratori, e solo ad essi, spetta l’esclusiva e inderogabile competenza per la gestione sociale: e ciò in armonia con l’evoluzione che, nel passaggio del c. comm. del 1882 al c.c. del 1942, ha visto gli amministratori trasformarsi da “mandatari” dei soci ad autonomi “organi” i cui poteri derivano direttamente dalla legge [in nota: quest’ultima affermazione (gli amministratori non sono mandatari dei soci, ma organi autonomi con propri inderogabili poteri), è oggi praticamente pacifica; essa porta a ritenere gli amministratori (non già obbligati, ma liberi) di dare, o di non dare, esecuzione alle deliberazioni che l’assemblea abbia preso ex art. 2364, n. 4, c.c.]».

Si noti che il rigore della norma sul fare era circoscritto nell’art. 2391 cod. civ. da riferimenti a una “determinata operazione”, quindi escludendo situazioni astratte e solo potenziali. È noto che la giurisprudenza nell’affrontare la varietà dei casi concreti aveva dato interpretazioni estensive, soprattutto sullo stimolo di patologie fallimentari, che si sviluppano generalmente per comportamenti che riguardano serie di operazioni.

Partendo da questo contesto normativo e giurisprudenziale, il D.Lgs. 6/2003 è così intervenuto sulle due direttrici.

a) il fare, modificando l’art. 2391 cod. civ., che ha attenuato il precedente rigore sul conflitto di interesse, però mantenendo il riferimento a “una determinata operazione”. L’obbligo di astensione è stato sostituito con un obbligo di informazione e di motivazione. Il senso della norma, come della omologa precedente, è “positivo”, cioè si esprime su una proposta di fare una certa operazione, che, essendo conflittuale, genera per il consigliere delegato un obbligo dell’astensione dalla sua esecuzione. Il comma 4 prevede una responsabilità dell’amministratore “in genere” per danni derivanti alla società “dalla sua azione od omissione”, ove “azione” si riferisce al compimento di un’operazione vietata mentre “omissione” acquista significato se riguarda un’azione lecita, che sia stata previamente deliberata. Infatti, si può parlare di una “omissione” per un’operazione la cui esecuzione è stata resa obbligatoria, non per operazioni in genere, che avrebbero potuto essere deliberate, ma non lo furono. Per ciò che è in realtà e non in potenza! Quindi, nemmeno il comma 4 consente di uscire dall’ambito del fare;

b) il “non fare” implica la definizione dell’attività di amministrazione. L’art. 2392 cod. civ. ante riforma pur nel contesto patologico della responsabilità, prevedeva che gli amministratori dovessero “adempiere i doveri a essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza del mandatario”. Nel nuovo art. 2392 cod. civ. il rinvio è ora “alla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. Gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza, che ritenevano incongruo il rinvio alla diligenza del “mandatario” sembrano così accolti. Però, non si può non rilevare che il rinvio al “mandatario”, pur nella sua limitazione, era a una ben precisa e collaudata figura giuridica del diritto privato, mentre l’attuale formula è solo la cornice di una tela in bianco, in cui il pittore del diritto può disegnare con metafisica libertà.

 

2 – Normativa e inerzia

 

Ci si deve chiedere a questo punto e data la contrapposizione tra il fare e il non fare precedentemente delineata, se trovi previsione normativa il comportamento dell’amministratore che abbia un interesse a “non fare” una determinata operazione, non nel senso della “omissione” di cui all’art. 2392 comma 4 cod. civ., ma a nemmeno proporla o bocciarla o anche abbia un più generale interesse a limitare l’attività della società per agevolarne altre, magari concorrenti. Questa posizione non è di facile qualificazione, perché l’amministratore potrebbe sempre accampare pretestuosi motivi di prudenza o inadeguatezza di mezzi, risorse e strutture, bloccando così il naturale sviluppo della società. Che il legislatore non possa intervenire con norme che prescrivano specificamente le attività di amministrazione in termini definitori o elencativi, ma si debba fermare alla soglia di un obbligo generico di operare per il raggiungimento dell’oggetto sociale, è fuori di dubbio, valendo la regola che l’amministratore è nominato dalla società e se non risponde alle aspettative non sarà rinnovato alla scadenza o revocato anche prima, ricorrendone le condizioni o, in mancanza, pagando il risarcimento. Il legislatore rispetta così la libertà di scelta e determinazione degli azionisti, peraltro non potendo fare diversamente. Ma di quali azionisti? Quelli di maggioranza potrebbero essere interessati positivamente a un comportamento rilassato dell’amministratore di loro espressione. Quelli di minoranza sono ovviamente svantaggiati dall’assenza di norme impositive (obbligo di fare), non essendo certo sufficienti, almeno a questi fini, le norme previste, per esempio, dall’artt. 2367 del codice civile o quelle statutarie, che eventualmente prevedano il voto di lista. Né si può pensare che il problema potrebbe trovare una soluzione con una remunerazione proporzionale a un ben precisato risultato. La legge non potrebbe prevedere in tal senso e anche l’assemblea o il Consiglio di amministrazione a sensi dell’art. 2389, comma 3, cod. civ., trovano alcuni limiti. Per esempio sul piano concreto, la remunerazione di consiglieri delegati (i non sempre felicemente famosi CEO americani) in relazione a determinati obiettivi ha spesso privilegiato un eccessivo attivismo verso il loro conseguimento, costituente anche la base di riferimento della loro remunerazione (quasi sempre obiettivi di breve periodo) a scapito di finalità di consolidamento di struttura e potenzialità (quasi sempre obiettivi di medio-lungo periodo). Ma si ricordano anche precedenti giurisprudenziali anteriori alla riforma, da ritenere tuttora validi, sulla illegittimità di alcuni parametri; per esempio il Tribunale di Milano con sentenza 17 settembre 1987, confermata da Corte di Appello di Milano 18 dicembre 1990, ha ritenuto illegittima la delibera di remunerazione di amministratori proporzionale al fatturato dell’esercizio della società.

 

3 – Limiti della normativa

 

I limiti della normativa sono evidenti. L’art. 2380-bis, comma 1, cod. civ., inserito dal D.Lgs. 6/2003, è norma enfatica, illogica e scorretta:

a) enfatica, perché, che la gestione spetti “esclusivamente” agli amministratori, valeva anche nel contesto normativo precedente alla riforma e l’avverbio “esclusivamente” non ha reso certo impossibile tutte le deleghe che la prassi aveva consolidato, né ha innovato, per esempio, la figura del “direttore generale”. Inoltre, l’affermazione che “gli amministratori compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale” sarebbe stata più realistica se espressa al negativo, per esempio “gli amministratori non possono compiere…”;

b) illogica, perché l’aggettivo “necessarie” è una chiara restrizione. Si potrebbe persino dedurne che quelle “non necessarie o solo opportune” non possono essere compiute e questa constatazione rafforza o almeno conferma la considerazione prima svolta sulla assenza di norme prescrittive di un obbligo di fare;

c) scorretta, perché il legislatore ha identificato l’attività di amministrazione con la gestione, così confondendo genus e species. La gestione è solo una delle tre classi di operazioni in cui si esprime l’amministrazione, le altre due essendo: l’organizzazione e la rilevazione. Infatti, che sarebbe mai l’amministrazione, se si riducesse alla sola gestione? O, in termini più incisivi e convincenti: come si potrebbe amministrare un’impresa, se non anche organizzandola e conoscendola?

Una sintesi del problema è di difficile proposizione, perché la figura dell’amministratore, da identificare per le società con quella dell’imprenditore, è di natura complessa, sviluppando almeno due serie di rapporti: volti all’interno e diretti al mondo esterno e ognuna ne trascina altri di varia natura e genera rapporti giuridici e obbligatori complessi. La diligenza, seppur non più rinviata a quella del mandato ma non per questo escludendola almeno per quanto riguarda il diritto a una remunerazione, genera responsabilità sia all’interno verso la società stessa e i suoi soci sia all’esterno verso creditori sociali e terzi. Ma la diligenza, pur nella nuova definizione e semmai proprio per la sua indeterminatezza, non esaurisce certo il rapporto reso oggi ancor più esplicitamente organico (si veda l’art. 2380-bis cod. civ.) e comunque a contenuto non esclusivamente privatistico. Infatti, l’obbligo della formazione del bilancio annuale nel rispetto dei principi e dei criteri dettati dagli art. 2423 e segg. cod. civ. è posto a tutela di norme di ordine pubblico, che trascendono gli interessi privati, anche collettivamente intesi, dei creditori sociali. Perciò la figura dell’amministratore non sopporta definizioni troppo restrittive, che non rappresenterebbero la natura della funzione in tutte le sue complessità. Forse è anche questa constatazione uno dei motivi che ha suggerito al legislatore una certa ritenzione a interventi regolativi, la cui carenza lascia aperta la flessibilità del giudice soprattutto per la valutazione dei comportamenti di fatto. È qui che il vuoto legislativo può essere opportunamente riempito dalla giurisprudenza di merito. Il socio che lamenti un comportamento lassista o addirittura colpevolmente omissivo potrà trovare dal giudice, pur con la difficoltà della produzione di prove, un’attenzione adeguata.

Invece, per la responsabilità degli atti compiuti il quadro è reso abbastanza completo dalle norme comportamentali degli art. 2380-bis e segg. cod. civ. integrati dall’art. 2621 cod. civ. e dalle norme di diritto fallimentare.

Però, per entrambi i livelli di responsabilità continuerà a valere il principio consolidato che l’opera dell’amministratore di fronte alle scelte tipiche dell’imprenditore, cioè della valutazione dell’opportunità e discrezionalità della valutazione del rischio d’impresa, non può essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica e la posizione di conflittualità di interessi tra l’amministratore e la società può giocare un ruolo di presunzione, ma non essere di per sé un riferimento assoluto.

 

4 – L’amministratore di società appartenente a “gruppo”

 

Ci si chiede se i problemi evidenziati in questa nota trovino soluzioni automaticamente analoghe sul conflitto d’interessi, sia per il “fare” sia per il “non fare” nel caso di “gruppi societari”, solo parzialmente regolati dagli art. da 2497 a 2497-sepities cod. civ.

Si osserva innanzi tutto che la situazione del gruppo non costituisce un’eccezione, ma un completamento, e, diversità di soluzioni a parte, può costituire una prova di resistenza del concetto generale, ma anche una conferma della sua validità. Si è così costretti a interpretare con maggior profondità il concetto di interesse “per conto proprio o di terzi” dell’art. 2391, comma 1, cod. civ.

Ora, escludendo per semplicità l’interesse “per conto proprio”, si deve indagare come l’interesse “per conto di terzi” si concilia, se si concilia, con l’esistenza non di un generico rapporto di controllo ex art. 2359 cod. civ., ma di quello più specifico del vincolo di “direzione e coordinamento di società” legittimato dall’art. 2497 cod. civ. È evidente che non esiste conflittualità tra le due norme pariodinate, perché eventuali posizioni dialettiche di interessi hanno composizione nel più ampio e generale interesse del gruppo, in cui anche l’interesse della controllata riceve un più ampio e assorbente riguardo. La teoria dei “vantaggi compensativi” [1] trova qui una sua peculiare spiegazione. Ma questa composizione trae la sua origine nel campo dell’interesse economico, in cui, in conseguenza di un principio olistico e della realizzazione di sinergie, ognuno consegue alla fine un saldo positivo, non necessariamente in termini di valori contabili o comunque quantificabili, tra ciò che ha eventualmente rinunciato e i benefici diretti e indiretti ricevuti.

Infatti, anche argomentando in termini meramente giuridici si possono trovare convincenti spiegazioni, seppure non facili, data la rinunzia del legislatore del D.Lgs. 6/2003 a dare una definizione di “gruppo”, che, però, si può dedurre dal sistema normativo. Il passo fondamentale è stato il riconoscimento della cittadinanza giuridica del “gruppo”, da cui, per conseguenza, viene un’interpretazione logica dell’art. 2391 cod. civ. Si osserva che questa norma tratta di interesse dell’amministratore “[…] per conto di terzi”, ma non delimita il concetto di terzi. Ora, è agevole dedurre che terzo non può essere una società parte di un gruppo, tanto più se organizzato con direzione unitaria e coordinamento. È proprio l’introduzione nel sistema della figura del gruppo che finisce per creare una specie di “società di società”, in cui gli interessi si potenziano, seppur senza confondersi. Allora, il conflitto di interesse è superato da questa riconduzione all’unità, perché il terzo non è più tale, ma è un tutto rispetto a una parte. Cosicché l’interesse individuale può essere inteso non come una condizione necessaria e specifica, che sarebbe tra l’altro di difficile applicazione, ma come un riferimento per discriminare nella singola fattispecie (la “determinata operazione” dell’art. 2391 cod. civ.) un’eventuale situazione patologica, che, anziché portare a un miglioramento dell’interesse particolare attraverso il potenziamento dell’interesse generale, determinerebbe uno svantaggio finale per la singola società o non troverebbe compensazione o la troverebbe in misura inadeguata. Sembra che il criterio per risolvere in fatto un problema tanto delicato sia il “principio di ragionevolezza”, violando il quale ogni spiegazione diventa impresentabile.

In conclusione, si può ritenere che, pur con le necessarie precisazioni, anche il caso del “gruppo” possa essere ricondotto nell’ambito del tema generale oggetto di questa nota.

 

 

dott. Pietro Bonazza


[1] Si veda di P. Bonazza, Gruppi societari e vantaggi compensativi, in questa rivista, n. 24, 10.1.2005.