CONNESSIONI TRA REATI DI FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI E BANCAROTTA FRAUDOLENTA*

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Sommario: 1) Premessa.- 2) Art. 2621, n. 1, cod. civ. – 3) Art. 223 L.F.

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1) Premessa
I giuristi, che si occupano degli aspetti teorici dell’interpretazione della legge, allorché classificano le norme per stabilire quali sono suscettibili di interpretazione analogica in relazione all’art. 14 delle Preleggi, portano come esempio di legge ordinaria, quindi non eccezionale, il Codice Civile . Ma l’esempio può essere fuorviante, perché il codice civile, include, nel Titolo XI del Libro Quinto, “Disposizioni penali in materia di società e consorzi”, seguendo la ratio del codice stesso e non quella dell’interesse protetto, tipica invece del Codice Penale. La prima conseguenza è l’incertezza sull’interesse protetto nei confronti del falso in bilancio dell’art. 2621 cod. civ., con riflessi anche sulla l’interpretazione della norma. Il codificatore del 1942 ha ritenuto di dare preminenza all’idea di corpus rispetto alla rubrica legis “penale”, ma la collocazione risponde anche a uno scopo pratico, una specie di memento agli organi societari e consortili, un invito a considerare, senza salti, che la violazione delle norme civilistiche dettate nel Libro, comporta le sanzioni previste di seguito. Perciò, la collocazione di norme penali nel codice civile, corpus di norme “ordinarie”, non è senza effetti per l’interprete. Il ragionamento logico è il seguente: se, ritenuto l’art. 14 delle Preleggi, le leggi penali non si possono applicare “oltre i casi e i tempi in esse considerati”, la loro inclusione in adiecto alle norme ordinarie del “Libro quinto”, comporta la loro applicabilità non “oltre i casi” ordinari del codice stesso. Ergo non sono applicabili in casi previsti da altre leggi, come il caso del fallimento, regolato dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, sulla cui natura eccezionale non dovrebbero esserci dubbi.
La constatazione, per verificarne la fondatezza, esige l’analisi separata dell’art. 2621 cod.civ. e dell’art. 223, comma 2, n. 1), L.F.
2) Art. 2621, n. 1, cod. civ.
In un’economia di mercato, caratterizzata da operatori che agiscono liberamente, una norma repressiva contro comportamenti contrari all’affidamento deve essere ritenuta necessaria, soprattutto nei casi, sempre più diffusi, di azione da parte di organi operanti dietro lo schermo dell’ente con personalità giuridica, vera fictio iuris degli ordinamenti giuridici assestati al seguito della rivoluzione industriale. Con varianti, che dipendono da ragioni storiche, tutti gli ordinamenti dei paesi occidentali hanno incluso una norma del tipo art. 2621 cod. civ.
Da qualche tempo la norma è oggetto di discussioni dai toni forti. Da più parti se ne propongono modificazioni sullo stimolo di applicazioni non prive di connotazioni ideologiche. Ma, in attesa di una modificazione, che allo stato attuale della capacità di legiferazione è più pericolosa della conservazione, va cambiata la sua interpretazione da parte degli organi di giustizia. Semmai, in un’economia sempre più globalizzata, o come anche si dice “mondializzata”, bisognerebbe tendere ad armonizzare le normative dei vari paesi, per non avvantaggiare gli enti, che, per dimensione e organizzazione, sono in grado di scegliere sedi direttive in paesi con norme più blande. Si pensi alla capogruppo di una multinazionale insediata in uno dei paradisi fiscali, che impartisce direttive alle società operative in paesi a legislazione forte. I bilanci delle operative possono essere non “veri”, ma formalmente “veridici”, nonostante norme repressive del transfert pricing.
La situazione attuale di applicazione dell’art. 2621 cod.civ. è però atipica per più motivi e non si può dimenticare che l’azione contro le “false comunicazioni sociali” può essere proposta di iniziativa del Pubblico Ministero e, quindi, strumentalizzata per finalità non direttamente connesse al rapporto causa-effetto pensato dal legislatore per l’asse “falsa comunicazione-affidamento degli stakeholder” della società di capitali . Esemplare l’applicazione estensiva nell’ambito del processo “Cusani”, che ha segnato il culmine dell’uso dell’art. 2621 cod. civ. applicato a un soggetto che non era né socio, né amministratore, né sindaco. La Cassazione penale, con la sentenza 31 gennaio 1998, n. 1245, ha cambiato la precedente giurisprudenza, ben chiara nelle due sentenze 30 aprile 1958 e 16 luglio 1976, n. 8083, in cui aveva affermato il principio che le false comunicazioni sociali costituiscono un reato proprio, commettibile solo da coloro che abbiano una determinata qualità, per cui, se l’agente non ha la qualifica sostanziale fissata dalla legge, l’azione non rientra nella sfera del falso commerciale. Invece, con la sentenza n. 1245 – e la si cita come esempio di ondeggiamento giurisprudenziale – si è estesa la punibilità in nome della corresponsabilità oggettiva. La Suprema Corte ha così dichiarato di condividere l’opinione della Corte di appello milanese, che coinvolse il Cusani nel delitto di falso in bilancio per “concorrenza morale”, costruzione che, a prescindere dalla colpevolezza sostanziale del condannato, è significativa di una puntigliosa ricerca della condannabilità comunque motivata.
Si deve precisare che in questa nota è preso in considerazione solo il n. 1) dell’articolo 2621, cod. civ. La problematica, che, con mode alterne, si evolve o si involve intorno alla norma, consentendo pericolose oscillazioni giurisprudenziali, è determinata dall’avverbio “fraudolentemente”.
È bene rilevare che la norma si limita a definire come reato il comportamento che si traduce nella esposizione di fatti (commissione) non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società o nel nascondimento (omissione) di fatti concernenti le condizioni medesime, il tutto “fraudolentemente” e individua: gli agenti (elemento soggettivo), la materialità dell’atto (un falso o una omissione di vero), un modus di compimento (“fraudolentemente”). Non sono enunciati gli interessi protetti, che la giurisprudenza ha individuato talvolta in entità metafisiche: economia pubblica, economia nazionale, economia collettiva, pubblica fede o, tal altra, in categorie soggettive: creditori, soci e terzi; mai l’obbligo della verità del bilancio in sé e per sé, a prescindere dai destinatari, come se sia ritenuto necessario l’ “elemento bersaglio plurimo” (teoria del reato plurioffensivo). Su questo punto non si può dire che sia stato necessario un grande dispendio di energie; invece, il massimo sforzo si è concentrato sull’avverbio, da cui è venuta una costruzione articolata e abbastanza consolidata, talché l’analisi della giurisprudenza più ricorrente consente di derivare i seguenti punti:
a) il falso in bilancio costituisce un falso ideologico in scrittura privata e, come tale, non sarebbe punibile . Ma il legislatore con l’art. 2621 cod. civ. ha inteso creare una eccezione e ha individuato un reato plurioffensivo, sia perché lede interessi tutelati dall’ordinamento (offesa dell’ordine pubblico) e sia perché inganna la fede in documenti da esteriorizzare previsti dalla legge ;
b) diversamente da quello di truffa, si tratta di un reato di pericolo, per cui è sufficiente la mera possibilità che soci, creditori o terzi della società possano essere tratti in inganno dalla falsità ideologica sulla reale situazione patrimoniale della società . Ma, sostenendo implicitamente che l’interesse protetto dalla legge può essere la “verità analitica”, è stato addirittura affermato che è falso anche il bilancio che, pur rappresentando un valore finale corretto del patrimonio netto, non rappresenta correttamente la effettività nelle singole voci ;
c) l’avverbio “fraudolentemente”, che nella codificazione del 1942 ha sostituito “scientemente” usato nella precedente normativa, non implica un “dolo di danno”, ma un “dolo specifico”, che, rendendo insufficiente la coscienza e la volontà dell’immutatio veri, si re
alizza, invece, con la coesistenza dell’intenzione di trarre in inganno soci, creditori o terzi (consilium fraudis) sulla effettiva situazione della società “e” del proposito di procurare a sé o ad “altri” un profitto ingiusto . È esclusa la necessità che un danno si sia concretamente realizzato, poiché, trattandosi di un reato di pericolo, basta la potenzialità e, quindi, la sua probabilità di realizzare l’effetto negativo in un futuro indeterminato;
d) i soggetti beneficiari dell’azione ingannevole sono gli amministratori e gli “altri”. Tra gli altri non è compresa la società stessa, da considerare a parte, poiché la situazione dell’art. 2621, n. 1, cod. civ. può esistere anche nel caso in cui la falsità sia stata realizzata nell’interesse della società . È un punto fondamentale per le osservazioni che saranno svolte in tema di art. 223 L.F.
Questa costruzione, non certo priva di fascino giuridico, ha il pregio di offrire, per le condizioni poste a spiegazione del reato, giuste garanzie a chi ha agito in assenza di dolo specifico, ma ha il difetto, particolarmente esasperato in un contesto di grande libertà del potere giudiziario, di prestarsi ad aggiramenti con altre teorie (per esempio: quella del dolo eventuale).
Inoltre la giurisprudenza, applicando la teoria del “reato di pericolo”, ha risolto alcuni problemi, ma ne ha creato altri, che possono essere specifici del fenomeno bilancio. La dottrina penalistica propone il dualismo: reati di danno (o di lesione) e reati di pericolo, avvertendo che la sicurezza delle classificazioni può esistere solo nel caso dei beni materiali . Il Manzini precisa che: « … reati di pericolo sono quelli in cui il fatto costitutivo non produce un’effettiva distruzione o menomazione del bene tutelato, ma determina soltanto un pericolo di pregiudizio per il bene stesso, ovvero, se produce lesione non è tale da modificare il titolo del reato, perché siffatta lesione o è semplice circostanza aggravante o è penalmente indifferente… », inoltre: «…sotto l’aspetto oggettivo, pericolo è la potenzialità attuale del danno, o di maggior danno, inerente a una determinata situazione del mondo esterno. »
L’estensione al bilancio ( o più in genere alle “false comunicazioni sociali”) crea una qualche difficoltà, perché un bilancio non si presta a essere ridotto al dualismo: vero o falso, acceso o spento, sì o no, bianco o nero, tipico della logica formale dei sistemi informatici o dell’algebra booleana. Allora, un bilancio può essere non corretto (manca l’elemento intenzionale della falsità) oppure falso (esiste un consilium fraudis), ma il pericolo verso gli “interessi protetti”, tali ancorché di alterna individuazione, sussiste. Stando alla costruzione derivata dalla giurisprudenza, se gli agenti non hanno operato “fraudolentemente”, si ha un pericolo senza reato. In tal caso, il venir meno del pericolo (per esempio: la società cessa l’attività o viene depositato in sostituzione un bilancio corretto, ecc.) cancella il solo pericolo e non può cancellare un reato, perché reato non c’è stato, mancando il dolo specifico nel momento ontologico. Ma, andando oltre l’autorevole dottrina richiamata, si potrebbe sostenere che, se il bilancio fu composto in modo errato con consilium fraudis, il deposito di un bilancio vero in sostituzione, farebbe venir meno il pericolo, ma resterebbe il fatto compiuto e la spontaneità della correzione influirebbe, semmai, solo sulle attenuanti. Però, il fenomeno non è così semplice e per meglio analizzarlo si può formulare l’ipotesi di un bilancio errato formato con intento di ingannare “e” di procurare un vantaggio, poi sostituito dall’amministratore sua sponte da un bilancio corretto, ma senza che nella correnza del bilancio falso sia stato realizzato alcun vantaggio. È chiaro che il deposito del nuovo bilancio fa cessare il pericolo, ma anche è chiaro che il fatto commissivo, non essendosi tradotto in un vantaggio, non fa emergere nemmeno il reato. Si può così manifestare insoddisfazione per la costruzione sin qui realizzata sul falso in bilancio, perché si constata che il reato è, in molti casi, una questione di ricerca degli aspetti intenzionali o ideologici. Si verifica il caso di un reato che può essere misurato o accertato nella sua esistenza solo dagli effetti che ha prodotto, posto che, giustamente, gli aspetti psicologici non possono essere perseguiti. É l’applicazione del principio di “materialità” del reato, che è tale quando l’intenzione diventa azione e, in taluni casi, effetto. Però, si deve pur prendere atto che la giurisprudenza consolidata, quando definisce il fenomeno un “reato di pericolo”, ha in mente solo il pericolo, non pluralità più o meno congiunte o collegate , perché per il reato di falso in bilancio è dettata un’unica norma, che considera tre elementi:
a) una volontà di inganno, perpetrato con frode, nel senso che il mondo esterno non è in grado di percepirne la natura fraudolenta se non nel momento successivo di emergenza o scoperta della verità;
b) una finalità, consistente in un vantaggio per l’agente o altri e non necessariamente un danno per soci, creditori e terzi;
c) uno strumento: il bilancio o altro tipo di comunicazione.
Questi elementi, nessuno dei quali, preso separatamente, può avere rilevanza nel mondo esterno, nel senso che non è idoneo a determinare un reato, nemmeno il secondo, non essendo vietato conseguire vantaggi, costituiscono insieme la causa unificante di un solo effetto: il pericolo che interessi protetti siano offesi e poiché la giurisprudenza riconosce la non necessità dell’altrui danno, ne deriva che trattasi di interessi immateriali. Ritorna, allora, valido l’avvertimento dell’Antolisei, che è difficile sostenere una distinzione tra una lesione, che tra l’altro nella fattispecie può non esserci, e un pericolo, che comunque permane. È così spiegabile che si parli solo di pericolo, con la conseguenza che, cessato questo, cessa il reato. È ovvio che l’estinzione del reato non comporta automaticamente l’estinzione degli effetti prodotti. Poiché il pericolo, come insegna il Manzini, è sempre un’astrazione , la sua cessazione, nel caso del falso in bilancio, determina anche l’estinzione del reato nel senso della sua imperseguibilità. Se vi sarà stato danno patrimoniale per qualcuno, condizione, si ripete, non richiesta per integrare il falso in bilancio, la protezione di quegli interessi lesi sarà affidata ad altre norme. Si può anche osservare che è la giurisprudenza stessa a iscrivere il reato dell’art. 2621, n. 1, cod. civ. nella categoria del solo “pericolo”, perché, escludendo la necessità dell’animus nocendi e della concreta realizzazione del danno, rende applicabile la definizione del Manzini , che definisce i reati: « di lesione (o di danno in senso lato) quelli che, come elemento costitutivo o come condizione di punibilità, esigono che il fatto produca una modificazione del mondo esteriore direttamente lesiva del bene giuridico protetto dalla legge ». Quindi: una modificazione concreta, non probabile o solo potenziale, che esclude dalla categoria i reati, come il falso in bilancio, privi della condizione essenziale del danno.
Posto in questi termini, il fenomeno pare correttamente interpretato da quella giurisprudenza che ha fissato i principi prima dedotti e che ha posto anche condizioni di giusta garanzia, affinché non diventi reato ciò che non può realizzare gli scopi che la legge ritiene offensivi. Essa induce gli accusatori del falso in bilancio a prove concrete sulle condizioni poste (l’inganno finalizzato al vantaggio, ecc.) e non mancano anche pronunzie recenti, che hanno invitato a prudenza accusatoria, come ha ben fatto la Corte di cassazione in sentenza 1 giugno 1999, n. 6907, che tra l’altro avverte: «L’indagine, comunque, dovrà essere rigorosa e in aderenza con i principi costituzionali di personalità e di “colpevolezza”, evitando
di ricorrere a facili presunzioni. Soprattutto la corretta indagine sull’elemento psicologico è di estrema rilevanza per l’affermazione della responsabilità dell’amministratore omittente.
» Ma altra giurisprudenza ha ritenuto di introdurre il concetto del “dolo eventuale” o ha condotto l’analisi per sole presunzioni o, peggio, saltandole persino con il ricorso all’affermazione in re ipsa
Merita attenta riflessione la sentenza della Suprema Corte 14 luglio 1998, n. 8327 , sui punti in cui:
 ha confermato il principio che l’art. 2621 cod. civ. non richiede il dolo di danno, ma soltanto l’utilizzazione della frode, identificata nell’inganno associato all’intento di conseguire un qualsiasi vantaggio: l’animus fruendi, come l’animus decipiendi non comprendono necessariamente l’animus nocendi, per la semplice ragione che il profitto non presuppone sempre e necessariamente l’altrui danno. Ma, la conferma è solo apparente, perché: a) l’offensività del comportamento delittuoso è riferita dalla Corte a “pregiudizi all’economia collettiva”, così riecheggiando, con più chiaro intento ideologico, il termine “economia pubblica” della sentenza Tribunale di Milano 16 aprile 1966, che rimanda a concetti tipici di una statolatria da duri derivati dell’idealismo hegeliano; b) dalla consolidata motivazione dell’ ingiusto profitto è saltato l’aggettivo “ingiusto” e la categoria è stata sostituita da “qualsiasi vantaggio”. Si può convenire che l’aggettivo ingiusto sia di difficile applicazione, perché implica giudizi di valore, per i quali occorrerebbe una filosofia tomista; però, da qui alla soppressione anche del motivo di “un qualsiasi vantaggio”, il passo non sarà poi molto lungo;
 ha confermato la lettura dell’avverbio “fraudolentemente” con la figura del “dolo eventuale”, forse in un rigurgito di cultura freudiana, peraltro entrata da tempo, persino presso i filosofi, in totale fallimento. Ora, è stato perspicuamente osservato che il “dolo eventuale”, per superarne l’impossibilità a concretizzarlo, è stato trasformato prima in dolus in re ipsa e poi in machiavello processuale atto a evitare l’onere probatorio. Si può includere tale perverso meccanismo nella categoria, aperta e sempre più popolabile a discrezione di giudici e loro periti, di reati dimostrabili con il teorema diventato molto di moda “l’incolpato non poteva non sapere”. Scivolare nell’arbitrio, non è probabile, ma certo; tra l’altro con l’aggravante del sofisma nascosto dietro un sillogismo apodittico come: è opinione diffusa che un certo fenomeno economico-contabile sia da interpretare in un certo modo, quindi anche l’amministratore Tizio doveva interpretarlo in modo analogo. La perdita di positività nel diritto non necessariamente fa scivolare nel diritto naturale. Anzi, generalmente attiva l’arbitrio. Sul punto la sentenza è particolarmente pericolosa. Infatti, si analizzi il punto in cui ha stabilito che: «…comune al dolo eventuale ed alla colpa con previsione dell’evento, è proprio la previsione degli effetti della condotta che sono e restano diversi da quelli voluti; ma ciò che diverge il dolo dalla colpa è l’accettazione del rischio, accettazione che deve essere presente nel dolo ed assente, invece, nella colpa. » Si potrà anche apprezzare la raffinatezza delle argomentazioni astratte, ma, considerando che non si è in teatro o nella fiction e, invece, sono in questione libertà e condanne di individui, c’è da chiedersi come si possano tradurre, con certezza di giustizia, principi quali “previsione dell’evento”, “previsione degli effetti della condotta” e “accettazione del rischio”. L’unica certezza è che quegli attrezzi applicati alla sfera del probabile e della percezione psicologica degli inquisiti si traducano in grimaldelli di arbitraria condanna. La stessa Corte sembra rendersene conto, ma il rimedio è solo aggiramento dell’ostacolo. Infatti, prosegue la sentenza: « Vero è, invece, che la prova del dolo eventuale può essere tratta soltanto da elementi sintomatici che debbono essere precisi e significativi, giacché tutti gli atteggiamenti psicologici non possono che essere ricostruiti affidandosi alla sintomaticità delle modalità intrinseche od estrinseche della condotta. » Non si può evitare la domanda di come si possa apprezzare, sul piano delle prove concrete, che debbono costituire il cardine di ogni processo, l’atteggiamento psicologico posto in relazione con la sintomaticità della condotta. Vengono alla mente certe raffinatezze inquisitorie preilluministiche radicate nel sofisma. È evidente che precisione e significatività costituiscono una contraddizione quando si pretende di applicarle alla sfera psicologica. Quindi, la Corte non smentisce l’ingresso del dolo eventuale nel processo del falso in bilancio, anzi lo sposta su un terreno dove, non solo l’accusa può evitare, in pratica, di fornire le prove, ma sfida l’imputato alla prova diabolica.
L’attuale fase storica porta all’economicismo di troppi aspetti della vita individuale e sociale. Ciò apre spazi infiniti all’economia e anche, da parte dei malintenzionati, alla proliferazione di forme delittuose radicate nel fatto economico. Però, il fenomeno non si combatte con perdita di certezza del diritto o pericolose enfatizzazioni di concetti, soprattutto nelle materie contabili, dove gli aspetti tecnici e formali danno apparenze di certezza a fenomeni, che, proprio l’economicismo dilagante rende ancor più imprevedibili.
Il continuo richiamo della giurisprudenza alle componenti psicologiche è la prova più evidente che il reato del falso in bilancio ha tali peculiarità da renderlo difficilmente paragonabile ad altri reati. Non si può tacere che il ragionamento per esempi, abbastanza istintivo nel tentativo di semplificare i concetti col ridurli a identità, è molto pericoloso nel diritto penale, che ha per cardine il rifiuto dell’analogia. Vincere l’istintivo richiamo della mente all’esempio è un obbligo irrinunciabile per il giurista penale.
Il legislatore dovrebbe prendere atto che gli atteggiamenti della giurisprudenza hanno assunto conclusioni pericolose, se non altro perché l’area della discrezionalità è tale, da consentire interpretazioni regionali con perdita di certezza del diritto. Si dovrebbe avere il coraggio di sopprimere l’avverbio “fraudolentemente”, ben sapendo che ogni compilatore di bilancio finirebbe sempre incriminato, così uccidendo l’economia, oppure di stabilire per legge alcuni contenuti vincolanti, che impediscono al giudice di svuotare la norma o di riempirla di significati troppo elastici.
Quando una consolidazione della giurisprudenza su posizioni di esclusivo diritto diventa scarsamente probabile, non resta che la soluzione legislativa, nella cui attesa bisogna, da un lato, evitare ogni ipostatizzazione del “falso in bilancio” e impedire che una violazione anche solo formale degli articoli da 2423 e segg. cod. civ. dia diritto a impugnative da parte di soci di minoranza con prospettive di prosecuzione nell’art. 2621 cod. civ., che sono solo strumentali per un miglioramento del corrispettivo per la cessione di loro pacchetti azionari. Non si è mai potuto rilevare che chi fa impugnative di bilancio sia sorretto solo dal desiderio di veder affermata la “verità” nell’interesse della fede pubblica. C’è sempre, come è naturale, uno scopo diretto e immediato di carattere solo personale. Il che dimostra la saggezza del codificatore del 1942 nel porre le norme penali in materia di società e consorzi in coda al Libro quinto del codice civile. In effetti le impugnative di bilancio non fanno scattare automaticamente l’azione penale e, in genere, si concludono con una sentenza di riapprovazione di un bilancio diverso ritenuto più corretto o con una transazione tra le parti, ciò che riduce il giudice civile a mero istruttore, quando non solo notaio, di un processo poi abba
ndonato . La mancanza di collegamento dipende anche dal fatto che l’impugnativa del bilancio è rivolta verso la società e riguarda la delibera di approvazione (artt. 2377 e segg. cod. civ.), mentre l’art. 2621 cod. civ., in quanto norma penale, si rivolge alle persone dell’organo amministrativo.
D’altro lato bisognerebbe considerare diversamente l’elemento soggettivo di “tutti” gli agenti economici. La normativa, anche quella prodotta recentemente, continua a considerare solo l’autore: l’imprenditore, l’amministratore, il fallito ecc. Mai gli “altri”, tuttora riguardati come soggetti che l’ordinamento deve proteggere dagli assalti di furbi e profittatori. Molte volte è così, non “sempre”. Prendiamo come esempio gli “altri”, i protetti dall’art. 2621, n. 1, cod. civ. e ricordiamo che, tolti i lavoratori coperti da norme ad hoc, sono imprenditori e banchieri utilizzatori delle stesse norme. Se si applicasse a loro il teorema che “essi non possono non sapere”, se non altro per la loro qualità professionale, si potrebbe mandare in pensione tutto l’art. 2621 cod. civ., che, invece, va solo difeso e usato con coerenza. Si tenga conto che in un mondo perfetto, quindi ipotizzabile solo in astratto, popolato da stakeholder dell’impresa conoscitori del divenire economico , questi non potrebbero mai essere ingannati dal consilium fraudis del compilatore di un bilancio falso, perché mancherebbe la potenzialità e la probabilità che l’inganno possa mai giungere a effetto, trovando sempre destinatari conoscitori della realtà diveniente. Il mondo reale non è così, ma, in un clima di acculturamento generale del fenomeno economico, si tenga conto anche della più matura conoscenza degli “altri”, quanto meno rispetto all’anno 1942.
La tesi, che l’art. 2621 cod. civ. si colloca nel dispiegarsi dei rapporti regolati dal codice civile, trova un altro argomento a favore nella considerazione che la norma implica l’esistenza “normale” della società o del consorzio e si collega alla correlata tesi che il falso in bilancio costituisce solo un “reato di pericolo”. Costituire un pericolo e mantenerlo con continuità, postula l’operatività dell’impresa nel contesto dei rapporti economici del mercato. Visto in questa ottica, l’art. 2621 cod. civ. ha una funzione indubbiamente sociale: impedire che comportamenti illeciti continuino a manifestare rischio di effetti negativi verso vecchi e nuovi stakeholder, posto che l’impresa continua nella sua attività, tanto più se si avvicina ai margini (ma bisognerebbe dire “argini”) degli art. 2446 e 2447 cod. civ. o, peggio ancora, se continua a operare dopo averli superati.
La conclusione è questa: quando l’impresa, per un qualsiasi motivo, cessa l’attività (non l’esistenza, perché la società, come ente dotato di personalità giuridica, sopravvive anche al fallimento), allora e solo allora l’art. 2621 cod. civ. cessa di essere operativo, poiché vengono meno i rischi di una continuità degli effetti negativi prodotti o producibili dal reato di falso.
3) Art. 223 L.F.
Si deve innanzi tutto osservare che la rubrica legis è “Fatti di bancarotta fraudolenta”. Il secondo comma prevede per gli organi societari l’applicazione della pena prevista dall’art. 216 L.F.: «…se hanno commesso alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 2621… ». A prima lettura sembra un caso di “rinvio formale”, ma non è così semplice, perché, direbbe un grammatico, l’art. 2621 cod. civ. implica una coniugazione del tempo futuro, mentre l’art. 223 L.F. del tempo passato. Prova ne sia che la Suprema Corte, in sentenza 17 marzo 1970, ha affermato che, ove intervenga il fallimento della società, il delitto di false comunicazioni sociali cessa di essere reato societario e diviene fatto di bancarotta fraudolenta. Significativa per la esatta comprensione del fenomeno di non sopravvivenza dell’art. 2621 cod. civ. in quanto tale, quando interviene la procedura fallimentare, è la sentenza 30 settembre 1982, n. 577, in cui la Suprema Corte ha affermato che il processo penale deve essere obbligatoriamente sospeso, in costanza di opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento innanzi al giudice civile. Perché sospendere il procedimento penale a causa dell’opposizione, se l’art. 2621 cod. civ. conservasse la sua autonomia? Avrebbe senso, se l’opposizione fosse contro l’imputazione di false comunicazioni sociali, non contro la sentenza dichiarativa di fallimento; segno che per la Corte, dopo l’apertura del processo fallimentare, l’art. 2621 cod. civ. non ha più validità propria.
Si osserva che:
1. come già rilevato, l’art. 2621 cod. civ. opera nelle condizioni “ordinarie” e di “continuità” dell’attività d’impresa societaria analizzate nel precedente capitolo, mentre l’art. 223 L.F. implica la sopravvenuta cessazione, almeno in costanza della procedura, dell’attività del soggetto fallito. Sono due situazioni diverse, per di più l’art. 223 L.F., diversamente dall’art. 2621 cod. civ., è incorporato in una legge eccezionale. Sostenere che il richiamo dell’art. 2621 cod. civ. nell’art. 223 L.F. è sufficiente per trasferire sic et simpliciter la prima norma nella seconda, è argomentazione poco convincente, data la diversità degli ambiti delle due norme. Quid iuris se l’art. 223 L.F. non avesse richiamato l’art. 2621 cod. civ.? A meno di sostenere l’impossibile tesi che si tratta di norma inutiliter data, la risposta non può che essere la seguente: in caso di sopravvenuto fallimento gli organi societari non sarebbero più perseguibili per fatti previsti dall’art. 2621 cod. civ., proprio perché manca il tempo futuro, nel quale il danno può essere reiterato. Invece, la norma non è inutile e il suo rinvio formale, da ritenere necessario per la sopravvivenza del reato, conferma la interpretazione del capitolo precedente, di una validità non assoluta e generale dell’art. 2621 cod. civ., ma ristretta a un ambito “ordinario”. Infatti, perché richiamare l’art. 2621 cod. civ. se valesse per tutti i casi, compresa la consecuzione fallimentare, e se il P.M. ha già un potere di azione penale autonoma a prescindere dalla situazione patologica dell’impresa?
2. il falso in bilancio, trasferito per richiamo formale nell’art. 223 L.F., è un fenomeno diverso da quello “ordinario”. Innanzi tutto l’avverbio “fraudolentemente” non pone più alcun problema interpretativo, poiché è sostituito da una più specifica formula giuridica “la bancarotta fraudolenta”. Però, ciò implica un rapporto causa-effetto tra la falsità del bilancio e il reato specifico del diritto fallimentare. Senza fallimento non si ha bancarotta, cioè non si ha constatazione della “rottura del banco” , perché la bancarotta non è in connessione diretta con l’insolvenza in generale, ma esclusivamente con l’istituto del fallimento. Questa constatazione riguarda la premessa formale, che, però, non basta, non essendo sufficiente la constatazione della causa. Quindi, deve essere provato che il falso in bilancio ha generato un danno a carico della massa dei creditori, nel cui interesse è instaurata l’esecuzione collettiva. Si noti che l’ambito dell’art. 223 L.F. è più ristretto di quello dell’art. 2621 cod. civ., nel quale non c’è bisogno di constatare alcun effetto computistico, proprio perché, in costanza di attività economica, il r