Il 9 giugno 2006 sono in visita alla tomba di Dante in Ravenna. Non è la prima, spero non l’ultima per me che ho una venerazione foscoliana dei sepolcri, che custodiscono l’urne de’ forti. È difficile pregare sull’urna di Dante, perché subito il pensiero da liturgico si fa religioso percorso mentale: è un modo come un altro di pregare. Ho deciso di riprodurre i pensieri suscitati da quella visita in un esperimento insolito, che io sappia, e poiché la scelta deve necessariamente cadere sul sonetto, tanto caro a Dante, ho optato per il shakespeariano e l’ho incrociato in verticale con un secondo per formare sette quartine con rime ABAB-CDCD-EFEF-GG  GG-FEFE-DCDC-BABA, che, nelle mie intenzioni, dovrebbero dare il senso di un circolo, come è nell’architettura della Divina Commedia e specialmente del Paradiso: un bisonetto o un sonetto duplicato e ritornato.

 
 
6 febbraio 2013
 

Nel mausoleo di Dante

 

Dentro il sacello che in memoria
eresse la pietà dei ravennati
sosto ad evocare tribolata storia
del tuo vagabondar fuor dai malnati
 
fiorentin d’animo e di vessillo color nero [i],
tu vittima del bresciano Gherardino [ii]
violento e cinico d’ogni mal foriero
contro la spada impugnata a Campaldino [iii].
 
Invoco il tuo spirto o padre del mio dire [iv],
che al mondo insegni l’onesta dignità [v]
e ‘l giusto orgoglio[vi] dell’uman sentire,
al prezzo di cristiana carità [vii],
 
che ti fu guida ai regni della morte [viii],
fino all’Empireo, premio di ogni sorte [ix]
 
 
e indichi il cammin verso le Porte [x]
ove angeli e santi cantano lodi in corte [xi].
 
L’amore rispettoso è tutti gli altri in unità [xii],
parola è logos d’ogni profferire [xiii]
passion di patria frange l’altrui viltà [xiv];      
Commedia è aleph d’inizio e del finire [xv].
 
Dio diede a te una stella per destino
e tu facesti un firmamento intero
a illuminare il mondo senza confino
per guida sul cammin del ripido sentiero [xvi].
 
Poeti d’ogni tempo e luogo fur da te guidati [xvii]
e sul latino il nobile volgar cantò vittoria [xviii]        
e i miti antichi per Cristo abbandonati [xix].
A te fattor della nazione, eterna gloria
 

Pietro Bonazza

 


[i]   I nemici più acerrimi e irriducibili furono i guelfi fiorentini di parte nera.
[ii] Gherardino da Gambara, succeduto a Cante de’ Gabrielli, podestà di Firenze all’epoca del primo processo a Dante, fu uno dei persecutori del poeta.
[iii] Dante combatté a Campaldino.
[iv] Perché inventore della lingua italiana.
[v] La dignità di Dante non era nella sua enunciata pretesa nobiltà, ma nell’ integerrima onestà.
[vi] L’orgoglio in sé può essere peccato, ma, se è giusto, diventa un atto di giustizia verso se stessi.

[vii] Per Dante, costretto a vivere di ospitalità, si è sempre trattato di una sofferenza, perché considerava «…come sa di sale/ lo pane altrui e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Paradiso, XVII, 58-60).

[viii] Inferno, Purgatorio.
[ix] L’Empireo: il Paradiso.
[x] Le porte del Paradiso dove accedono i beati.
[xi] Alla corte di Cristo Re.
[xii] L’amore vero che contiene tutti gli amori.
[xiii] La parola, anche inespressa, che contiene tutti i logos.

[xiv] La passione di Dante per la sua amata patria Firenze è come un atto di carità generosa, ma dolorosa, perché ripagata con l’odio, che anima la viltà dei concittadini in vista solo dei propri interessi e ambizioni di potere e che farà dire di se stesso d’essere florentinus natione, non moribus (esergo della Divina  Commedia).

[xv] La Divina Commedia è un aleph di Borges, è insieme inizio e fine, una parola che contiene  tutte le parole, un pensiero che contiene tutti i pensieri, una provocazione della mente umana, un’idea di numero transfinito.

[xvi] Dante ha indicato la via verso la salvezza, disegnando l’itinerario di un sentiero erto, difficile e faticoso, che non può essere scansato se l’uomo vuol vedere la luce della divinità.

[xvii] Basti pensare tra i moderni a: Mandel’štam, Borges, Pound, Eliot.

[xviii] Dante ebbe la geniale e profetica intuizione che il latino, che pur manovrava con grande perizia prosometrica, non poteva essere la lingua dell’avvenire degli italiani, ma il volgare e resistette a tante sollecitazioni che suggerivano il contrario. Fu spinto alla scelta anche dal desiderio di parlare al popolo e non al ristretto circolo di iniziati, che conoscevano la lingua di Virgilio e qui sta la sua felice contraddizione: farsi apparentemente guidare dal poeta latino per parlare in italiano, così dimostrando la successione temporale, ma anche stilistica oltreché storica, tra la lingua madre e la figlia, che diventerà, per le sue mani, maggiore della madre. Si veda in proposito lo scambio epistolare con l’amico retore Giovanni del Virgilio, in M. Santagata, L’Io e il mondo, Bologna, 2011, pag. 57. Per vero, Dante è pienamente convinto di essere un innovatore: già lo fu deliberatamente nella poesia amorosa e lo conferma il titolo stesso della raccolta “Vita nova“, nuova non solo nello stile, nella lingua e nell’interpretazione dell’amore, che lo portò in insanabile contrasto con l’amico Guido Cavalcanti. Così, dati i precedenti, la Commedia non poteva che essere una novità in ogni senso e nella scelta del volgare invece del latino. Soprattutto, Dante si sentì uomo di popolo e non di accademia dove dominavano spocchiosi letterati, soprattutto dello studio universitario di Bologna, legati alla lingua latina, che solo loro conoscevano e ormai diventata esoterica. Dante, invece, vuol farsi capire dagli uomini illustri del suo tempo, che non conoscevano il latino e parlavano dialetti diversi tra loro  seppur tutti derivati dal latino come le altre lingue romanze europee.

[xix] Dante con la sua fede nella teologia del cristianesimo medievale, dimostrò che il «tempo de lidèifalsi e bugiardi» (‘Inferno, Canto I) era ormai passato, e ciò che più è significativo, per ammissione di Virgilio, autore della famosa profetica Quarta Egloga. Non si legge nel Poema alcuna considerazione nemmeno di dubbio, da parte del massimo poeta della latinità, sulla scelta del volgare anziché del latino. Già nel Convivio (Cap. XI), Dante aveva lanciato una requisitoria violenta, come tante sue famose invettive nella Commedia: «A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni». Più espliciti non si potrebbe essere, degna di una ciceroniana catilinaria, ma è del tutto evidente l’intento di Dante di creare una nazione non per Firenze, ma per l’intera Italia (uomini d’Italia). La grandezza dell’intuizione è nell’aver compreso che una nazione si forma, innanzi tutto, con la comunanza del linguaggio,  che diventa koinè stabile.