Parlare non vuol dire chiacchierare. La chiacchiera, anche quando è sommessa, è sempre rumorosa. Invece, parlare può comprendere il tacere, perché la parola è anche ascolto, ma soprattutto riguarda ciò che è importante, ciò che conta; quindi parlare può significare anche provocare.

Questa riflessione mi richiama il giudizio di Wittgenstein che bisogna dire solo ciò che può essere detto chiaramente e tacere di quello che non può essere detto chiaramente, ma rievoca anche il controgiudizio di Adorno che, volendo affermare che la filosofia ha il compito di dire proprio ciò che non può essere detto, bollò l’affermazione di Wittgenstein come una “indicibile volgarità intellettuale”. Che i geni, e quei due lo erano, non si sopportino, è fenomeno ricorrente.  Si tratta di due giganti del pensiero filosofico del Novecento, incapaci di intendersi, perché l’austriaco, diversamente dal tedesco, era estraneo a svolgimenti dialettici di derivazione hegeliana. Peraltro, il primo di ineccepibile onestà intellettuale, mentre il secondo, almeno stando al giudizio di Hannah Arend, piuttosto equivoco. Queste diatribe tra filosofi non ci interessano, ma hanno il pregio di richiamare la nostra attenzione sulla funzione e sulla struttura del “dialogo fatto di schizzi di opinione”. Rispetta il giudizio di Wittgenstein o quello del suo antagonista? Non sta a me giudicare, ma a mia giustificazione affermo che l’intento è di dire la verità, o una mia interpretazione di essa. La verità, fatta eccezione per quella di divina rivelazione, è sempre molto incerta, anche quando ha la pretesa e l’apparenza dell’oggettività. Spesso è anche scomoda. Sempre, anche se illusoria, aiuta a vivere.