Deve essere stata tanta la paura degli abitanti di Montecitorio se il 30 gennaio 2001, dopo il lancio di alcune uova “a tuorlo impoverito” da parte di allevatori imbufaliti (o, meglio, immucchiti) si è levata una voce preoccupata e sdegnata: “siamo stati lasciati indifesi”. Bisogna capirli gli allevatori, imitatori di Keller, l’asso dell’aviazione della prima guerra mondiale che da un aereo lanciò carote sul parlamento. È capitato più volte anche a signore impellicciate bersagliate all’ingresso della Scala, soprattutto negli anni Settanta, quando i figli della borghesia e alcuni delle stesse mamme scintillanti nel foyer, lanciavano insalatone miste; ma nessuno s’è mai azzardato a levare lamenti da assediati abbandonati. Oggi, gran parte di quegli stessi lanciatori siedono nei banchi del Parlamento e tremano di paura. Come si cambia a invecchiare! Così tra un lamento e l’altro ci si dimentica delle vere cause di “mucca pazza”, che sono tante, ma ne bastano due:  l’agricoltura, diversamente dall’industria, è rimasta per sua natura, più rigida. Una manifattura può condurre più cicli produttivi diversi sulla stessa linea. Talvolta basta cambiare stampi e programmi di robot. L’agricoltore, invece, ha tempi più lunghi. Per esempio, per portare una mucca a produzione di latte non basta riattrezzare le macchine, perché la vitella cresce, ma col tempo. Ne consegue che l’agricoltore è molto più dipendente, oltre che dal mercato, da politiche economiche, agricole e alimentari, nazionali e comunitarie. Ma dipendere da politiche, vuol dire fare i conti con Bruxelles e con Roma: una forza d’urto burocratica da stendere un toro manso, perché del toro ha l’intelligenza;  il tenore di vita della popolazione, anche un po’ viziata da un welfare irresponsabile, è salito e la bistecca è diventata un’aspettativa di tutti. Che hanno fatto gli allevatori per far fronte alla domanda e, nel contempo, contenere i prezzi? Hanno cercato di abbreviare i tempi di crescita delle bestie e impiegato mangimi ad alto contenuto proteico. Ma le proteine non si trovano nel fieno, per digerire il quale madre natura ha fornito alla vacca quattro stomaci; invece, si trovano nel risultato della digestione del fieno: la carne della vacca stessa, perché lo stomaco funge da convertitore calorico secondo un percorso da fieno a carne. Proprio per far più presto e aumentare il peso di filetti e magatelli, si è pensato di cambiare il processo: da carne (o meglio da “farina di carne”) a carne. La trovata ha funzionato per un po’ e il consumatore non si è accorto che il prezzo relativo della carne era tutto sommato troppo basso rispetto ai prezzi degli altri beni e quando gli hanno detto che le proteine, contenute nelle farine di carne, immesse nello stomaco delle mucche al posto del fieno, producevano la trasformazione del cervello in una specie di torta spugnosa, allora è scoppiato lo scandalo e si è scatenato, con il panico, il gioco delle colpe e delle responsabilità, secondo la nota commedia delle tre scimmiette: io non sapevo, non c’ero, se c’ero dormivo. Ma, almeno gli addetti ai lavori, dovevano sapere, perché la teoria di Rudolf Steiner, fondatore della biodinamica, è nota da un secolo. Ci sono anche gli aventi diritto a non sapere, come il ministro di settore, che preferisce parlare di pesce inquinato. Come può saperne di carne bovina un ministro che, dimenticando la prima parte per motivi di noblesse, si ritrova con la seconda del cognome che è la declinazione al maschile di un camion svedese? Bene, poiché ne ha diritto, dati i motivi, giustifichiamolo! Ma, a parte: contrabbandieri, importatori illegali, trafficanti e ufficiali compiacenti o ritardatari, mangimisti irresponsabili, che agiscono con dolo, anche alcuni allevatori e molti consumatori non possono dichiararsi del tutto ingenui. I primi, soprattutto quelli che allevano contemporaneamente animali a carni rosse e a carni bianche e alimentano questi a farina di carne, perché consentita, vuoi che non incappino in errori di prelievo dei diversi tipi di mangime dal magazzino? E i consumatori che constatano il prezzo doppio delle carni provenienti da allevamenti “naturali”, non hanno il dubbio di un qualche rischio nella fettina di filetto che costa la metà? Non ha lasciato alcuna traccia nella memoria collettiva lo scandalo del “vino al metanolo” di alcuni anni fa con morti di consumatori che avevano acquistato vino a prezzo vile. Tutto finì con condanne relativamente lievi, il che può trovare una qualche spiegazione nel teorema, allora non ancora di moda, del “non poteva non sapere”. Invece, non bisogna mai dimenticare che in un’economia di mercato il “prezzo relativo” è la sintesi di tutte le informazioni che riguardano produzione e distribuzione. Trascurarlo comporta acquistare e consumare alla cieca. Tutto questo bailamme ci riporta indietro di una ventina d’anni, quando imperversava nei salotti ideologici il catastrofismo del “Club di Roma”, guidato da Aurelio Peccei, una specie di Malthus del ventesimo secolo. Quel clan, seppur con i suoi eccessi, aveva alcune fondate ragioni, che si affidavano soprattutto a un concetto abbastanza intuitivo e banale: se la popolazione continua a crescere in misura esponenziale e tutti aspirano agli stessi consumi e a produrre crescenti quantità giornaliere di rifiuti, qualcosa dovrà pur accadere. Il guaio è che, affinché certe cose non accadano, occorrono misure impopolari e qual è il politico che ha capacità e coraggio di imporle? Anche perché, catastrofismo è un concetto eccessivo nella forma, che induce a pensare a fenomeni apocalittici, a big bang all’incontrario e tutti, davanti al cataclisma, si rassegnano e basta. La realtà è, invece, una catena di fenomeni, singolarmente piccoli, che il politico pensa di poter dominare o scansare. Non è la tigre, ma è l’esercito dei gatti! Nel presente delle mucche, anche singolarmente più pericolose della tigre. Ma c’è un fenomeno collaterale, quasi ignorato e riguarda lo smaltimento di quelle enormi montagne di farine animali, di cui ora le irresponsabili autorità decretano la distruzione. Ci si dimentica che distruggere vuol dire avere a disposizione impianti adeguati, che però in Italia non ci sono o sono pochissimi, anche se tutti danno l’operazione per facile e immediata. Già si ha notizia di accaparratori di farine in regioni dove non c’è ombra di inceneritore. Vedremo come andrà a finire. Intanto, esaminiamo un fenomeno che sta a monte. Un macello dove e come smaltisce i residui della lavorazione delle carni? Ancora: un allevatore che ha in stalla alcune migliaia di maiali, sa che, applicando la legge di natura e quella matematica di probabilità, ogni giorno troverà nell’allevamento animali morti. Ebbene, quella “roba” diventava farina animale, perché quella produzione era anche un processo di smaltimento. Ora che fine farà? Chiediamo a un allevatore come riesce a far sparire animali “non pazzi”, ma comunque malati o azzoppati o in “fine carriera”. Ci risponderà che è diventato un problema insolubile. Lo risolveranno i politici, che oggi occupano la stanza dei bottoni; i più italiani di tutti, perché, con i loro colori di partito, insieme formano il “tricolore”. Manca solo, in mezzo, lo “stemma Savoia”, ma, dopo la morte di una regina primaverile, c’è speranza, anche perché ad interim c’è già la figura di un’automobile piemontese. In attesa e per non impazzire, ridiamoci sopra.