Sul Sessantotto sono già state scritte analisi di ogni genere e persino gli storici, nonostante siano passati pochi anni dall’evento, hanno già incominciato a dire la loro, a costo di parlarsi addosso, perché molti di loro furono attivi in quel tempo. Lo ricordo per due caratteristiche:

– la maggioranza dei barricadieri erano “figli di papà”: piccoli borghesi; industriali molto fieri di aver generato rivoluzionari e non senza calcolo di essersi garantita, in caso di avvento di una nuova rivoluzione proletaria, una quinta colonna; arrivisti, che poi avrebbero fatto carriera, emulando molti partigiani scopertisi tali la mattina del 25 aprile 1945;

– il motto (loro dicevano slogan all’amerikana, ma con una “k” rigorosamente sovietica), che riassumeva il movimento: “vietato vietare”.

Erede prediletta di quel “divieto” è stata la magistratura penale, specie quella inquirente, che ha agito off-limits, anzi over-limits, al di sopra di ogni controllo, di ogni potere e delle stesse leggi, forzando non solo il codice di procedura penale, ma lo stesso codice penale con invenzione di reati non previsti, poiché si è ritenuto che sia valido “vietato vietare”, ovviamente solo per sé. Ben peggio del Sessantotto, che nelle sue proiezioni anarcoidi, almeno il divieto di vietare lo riservava a tutti.

Dopo quarant’anni la pretesa di non subire alcun divieto e, quindi, di avere ogni diritto di sovrapposizione a tutto, permane. Persino la politica deve subordinarsi al giudizio del magistrato magister, per diretta conseguenza che se la magistratura è politicizzata non c’è alcun bisogno della “politica”, che è già stata assorbita nella stessa funzione magistrale. In  termini molto concreti: noi magistrati siamo l’inquisizione, l’accusa, la difesa, la giustizia, la politica, la morale e anche la religione; in sintesi: siamo l’Essere.

Questa posizione è stata fedelmente interpretata dal dott. Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 a Milano. Il ministro dell’interno Scaiola si è sentito offeso dalle esternazioni del PM milanese e ha sporto denuncia alla Procura di Roma, che ha iscritto il giudice milanese nel registro delle notizie di reato. Saputo dell’evento giudiziario il Borrelli, magistrato di grande dirittura e in dirittura di pensionamento, avrebbe dichiarato: “il mio animo non è turbato”. Come sia andata a finire non è interessante e nemmeno la scommessa se si sia poi verificata la previsione evangelica che chi “di spada ferisce di spada perisce”. In Italia ognuno si gratta le sue croste o per dirla con frase di moda: “sono cavoli acidi suoi”. Però un’ideuzza viene spontanea: supponiamo che i giudici che hanno giudicato il giudice giudichino che questi avesse ragione e fosse nel suo diritto giudicare quel che ha giudicato. Il Borrelli, affermando che il suo animo non è stato turbato, avrebbe perso un’occasione per chiedere la condanna dei suoi denuncianti, ma per quale reato? “Turbativa d’animo”, che, nel suo caso, non avrebbe avuto effetto. Nel nostro codice penale c’è spazio per tutto. Di “turbativa d’asta” non si parla più e allora avremmo perso un’occasione per ringiovanire certi istituti.

Quanto a quel giudice, ricordiamo l’incipit del cap. VIII dei  Promessi sposi di Manzoni: «Carneade! Chi era costui?».