Pietro Bonazza

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PRESUNZIONE ed ELUSIONE: analisi di un caso

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(articolo pubblicato in “Rivista dei dottori commercialisti”, 1989, n. 5, pagg. 821 e segg.)

 

AVVERTENZA: Il saggio è apparentemente datato. Successivamente alla sua pubblicazione sono stati emanati l’art. 37-bis del DPR 600/1973e il D.Lgs. 12.12.2003, n. 344, che ha rinumerato l’art. 76 del TUIR 917/1986 con 110, ma lasciandone invariato l’impianto. In questo D.Lgs. sono stati introdotti i regimi di “trasparenza” e del “consolidato”, ma permane il regime “tradizionale”, per il quale le considerazioni di questo saggio sono sicuramente ancora valide, soprattutto se si analizza la sentenza 24 luglio 2002, n. 10802, con cui la Cassazione ha ritenuto di estendere all’interno la presunzione dettata dalla norma solo per le società multinazionali e oggetto dell’ “analisi del caso” del saggio. Si può fondatamente presumere che, se la Cassazione avesse esaminato i lavori parlamentari preparatori dell’art. 76 cit. ed esposti in questo saggio, non avrebbe concluso nei termini di cui alla sentenza n. 10802).

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Premessa.

 

La presente nota ha lo scopo di dimostrare, in contrasto con tesi correnti [1], che nel sistema tributario delle imposte dirette non esiste una norma generale che attribuisca all’Amministrazione finanziaria il potere di integrare con accertamento, per mezzo di presunzioni semplici, che non siano legislativamente previste caso per caso o al di fuori del sistema dettato dall’art. 39 DPR 29.9.1983, n. 600, corrispettivi di singoli atti economici stimabili inferiori a valori normali intercorsi fra imprese non appartenenti alla categoria descritta nell’art. 76, comma 5, T.U. 917/1986.

La dimostrazione non è facile ed implica una preventiva analisi definitoria e metodologica, a meno di voler concludere, con inaccettabile tautologia, che, essendo il diritto tributario delle imposte dirette una casistica, se il caso non stato previsto non esiste nemmeno il problema, o con gioco di parole: « caso non previsto = caso chiuso ».

 

 

1. Introduzione metodologica.

 

Il filosofo T.W. Adorno in una famosa lezione del 15 maggio 1962 [2], dopo aver mostrato quanto siano problematiche le definizioni in filosofia, afferma: « Ho constatato che anche in giurisprudenza c’è un vecchio principio che afferma che ogni definizione nel diritto civile è pericolosa: “omnis definitio periculosa est in iure civili”…. ». Adorno, da filosofo, sa quanto sia improponibile una schematizzazione fissa nel tempo del concetto e della terminologia filosofica e ci mette in guardia da ogni tentativo di ibernazione anche del diritto, che è uno degli aspetti pratici della filosofia, ma, da uomo calato nella realtà civile, ricorda il broccardo, per avvertire chi dei suoi ascoltatori avesse poi svolto attività di giurista, che la definizione porta il rischio di fissità, perciò periculosa, soprattutto per il giurista pigro, che, trovando comodo il ricorso al preconfezionato, rifugge la pena della continua reinterpretazione della realtà. Il richiamo di Adorno è un invito al filosofo e quindi al giurista a una continua rifondazione della verità, che non è reinvenzione, ma capacità di valutare il sempre nuovo con gli strumenti dell’esperienza consolidata.

Eppure, privare il giurista-giudice di definizioni comporta il rischio di far perdere quote di certezza al diritto. Lo stesso Adorno in una pagina precedente [3] aveva rilevato che : «….. i giuristi, si trovano addirittura di fronte al postulato di operare con concetti esattamente definiti, invece la grande filosofia ha sottoposto il procedimento della definizione alla critica più severa… ».

Adorno parlava di giurista del diritto civile, ma il nostro tema è di diritto tributario ed inoltre, fatto curioso che sembra una conferma del memento del filosofo, il T.U. 917/1986 è un diritto che ha escluso le definizioni e, come ha rilevato più volte il giurista E. De Mita [4], l’attuale diritto tributario italiano delle imposte dirette è una “casistica”.

Ma vi è un’ulteriore constatazione preliminare e necessaria: il diritto tributario non ha dato la definizione di presunzione, rinviando al diritto civile, cioè alla definitio periculosa in iure civili.

È così necessario che l’analisi incominci dagli artt. 2727, 2728 e 2729, costituenti il Capo IV del Titolo II del Libro VI del Codice Civile.

L’articolo 2727 definisce le presunzioni come: « … le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. ». L’articolo, che, rispetto agli altri due, dovrebbe assumere la posizione di genere rispetto alle specie, individua due tipi di presunzioni, che la congiunzione disgiuntiva ‘o’ rende alternative: le legali e le processuali, ma in sé presenta due incoerenze:

– una pregiudiziale, relativa al fatto che le presunzioni, comprese nel Titolo II del Libro VI del Codice civile, che ha per rubrica: « Delle prove », costituiscono fenomeni giuridici eterogenei non certo ricondotti ad unità con la classificazione del codificatore. Le legali assolute che escludono la prova sono un mero fatto legislativo: non esiste un fatto noto da cui dedurne uno ignorato, oppure esiste un processo meccanicistico sempre voluto dalla legge, che consente la determinazione del fatto ignoto con semplici constatazioni perché sono noti entrambi voluntas legis. L’interprete, l’operatore del diritto, i destinatari della norma, non hanno più alcun spazio per processi logici di inferenza, deduzione o altro, perché è già tutto dato. La presunzione legale assoluta finisce per interessare lo storico della norma in un lavoro di interpretazione dei motivi che possono aver indotto il legislatore a quella scelta, mentre il giurista applicato trova interesse, in genere, quando può prospettare dubbi di costituzionalità. Per E.T. Liebman: « la presunzione non è mezzo di prova, bensì una operazione di elaborazione delle prove raggiunte con altri mezzi ». Per G.A. Micheli: « le presunzioni semplici attengono alla prova ma non costituiscono propriamente dei mezzi di prova, sibbene mezzi per la valutazione delle prove, con la utilizzazione di regole dell’esperienza » [5],

– una subordinata, relativa alla constatazione che le presunzioni, se si vuole che abbiano valenza in tutti i rami del diritto potrebbero meglio essere definite da una norma di carattere superiore generale e non da una legge ordinaria con effetto su tutte le altre leggi dello stesso rango, per il principio che i caratteri comuni delle specie dovrebbero essere definiti dal genere e non da una di esse con valore per tutte le altre. La scelta del legislatore italiano di lasciare al Codice civile il compito di una definizione delle presunzioni ha creato difficoltà per il diritto tributario, nel quale la legittimazione della presunzione legale è avvenuta con le sentenze 103/67, 109/67, 167/76 e 200/76 della Corte costituzionale, non senza forzature per coordinare l’interesse di un più facile conseguimento del gettito con quello del rispetto della capacità contributiva.

L’articolo 2729 detta due norme, che confermano l’inutilità di definire le presunzioni legali e la natura non di prova, ma di metodo di quelle processuali e sono di particolare interesse per il diritto tributario:

– al primo comma si afferma che: « Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. ». Si può immediatamente rilevare la natura straordinaria dello strumento della presunzione processuale, a cui il giudice può far ricorso, ma con prudenza e constatando l’esistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza;

– al secondo comma si afferma l’esclusione del metodo della presunzione, quando: « …. la legge esclude la prova per testimoni. ».

In diritto civile e nel processuale la dottrina è fondata su opere di giuristi ormai classici, che hanno posto la classificazione in presunzioni: legali assolute, legali relative, semplici e presunzioni di presunzione. Le definizioni per caratteri sono così riassumibili: le legali assolute non ammettono la prova contraria, le relative invertono la prova, le semplici devono avere i caratteri della gravità, precisione e concordanza, le presunzioni di presunzione sono inammissibili, perché il doppio grado di presunzione implica una mancanza dei requisiti dell’art. 2729, comma 1, quanto meno esclude quello della precisione.

Nel diritto tributario, proprio per la sua natura di diritto pubblico, la presunzione è un istituto di più difficile impiego e la sua interpretazione e giustificazione finiscono per segnare l’evoluzione storica del concetto di stato di diritto e della gerarchia fra interesse pubblico e privato, per il coinvolgimento del preconcetto ideologico del giudice, sia esso costituzionale, ordinario o tributario. La giurisprudenza si è consolidata su una applicazione più elastica delle presunzioni semplici, come si nota nel cambiamento introdotto con sentenze del 1982 dalla Cassazione, che ha sostituito il carattere della necessità nella relazione tra fatto noto e fatto ignoto con quello meno rigido della mera probabilità [6].

La dottrina si è occupata del problema in opere monografiche, articoli e, nel febbraio 1985, in un noto Convegno di Rimini dedicato alle “Presunzioni in materia tributaria”, che, però, non è servito a creare una convergenza di opinioni su tutti i temi e, anzi, quello oggetto della presente nota è stato sfiorato solo obiter dicta [7].

Non vi è dubbio che siano ammesse le presunzioni legali, anche perché in mancanza di una definizione costituzionale basta il semplice fatto che una legge ponga la presunzione, perché la stessa sia autolegittimata, ma sorge immediatamente una prima complicazione pregiudiziale, che attiene alla possibilità di far uso della presunzione semplice dell’art. 2729 c.c., poiché nel diritto processuale tributario l’art. 35, comma 5, D.P.R. 26.10.1972, n. 636 non ammette la prova testimoniale. Al citato convegno riminese il relatore Francesco Tesauro si è così è espresso: « A mio avviso, l’art. 2729 non reca un principio di diritto comune, estensibile al processo tributario. Ciò perché non esiste, a mio avviso, un’intrinseca ragione logica, per la quale debba esservi un nesso inscindibile tra ammissibilità della prova testimoniale, e ammissibilità della prova per presunzioni.

Non a caso, il codice di commercio ammetteva le presunzioni semplici anche in casi in cui non consentiva la testimonianza. Non può dunque dirsi, in via generale, sulla base dell’art. 35 D.P.R. n. 636 e dell’art. 2729 cod. civ., che al processo tributario siano estranee le presunzioni semplici. Questo non vuol dire che esse siano ammesse in tutti i casi, per tutte le imposte ».

L’affermazione, volendo essere una interpretazione, è in realtà una tautologia. Ma il Tesauro inserisce comunque una tesi: l’assenza nell’art. 2729 di “un principio di diritto comune”. Su questa affermazione si potrebbe convenire e, anzi, utilizzarla come prova della critica prima enunciata, che una tale norma avrebbe potuto meglio apparire in una legge costituzionale e non in una di rango inferiore. Ci si deve anche chiedere come sia possibile al giurista tributario recepire dell’art. 2729 il solo primo comma, in assenza di una norma costituzionale e di una disposizione data autonomamente dalla legge tributaria. L’art. 2729 istituisce un sistema logico nelle sue due parti. L’esclusione della presunzione semplice in costanza di divieto della prova testimoniale ha una sua motivazione, che può anche non valere in campo tributario. Ma, allora, il legislatore tributario deve creare sue proprie categorie, di cui ha fatto un tentativo nel secondo comma dell’art. 39 DPR 600/1973, autorizzando l’Ufficio ad operare l’accertamento senza obbligo di riferimenti al bilancio ed alle scritture contabili, «…quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma e le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica. ».

Si nota la prudenza del legislatore tributario nell’uso di tre gradi di presunzione, previo verbale di ispezione:

– il primo riguarda la presunzione legale relativa di veridicità di scritture contabili e bilancio a favore del contribuente, con rovesciamento dell’onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria;

– il secondo riguarda una presunzione in conflitto con la precedente, nel senso che l’Amministrazione dispone di presunzioni semplici consentite dal primo comma dell’art. 39, « purché queste siano gravi, precise e concordanti » in riferimento ad attività non dichiarate o passività inesistenti. Ma, si noti, la rettifica che l’Amministrazione può proporre è sempre nel senso di una integrazione di taluni dati di contabilità e bilancio, che, per il resto, sono ancora assistiti da una presunzione di veridicità;

– il terzo grado riguarda, appunto, le ricordate irregolarità gravi, numerose e ripetute, che consentono l’abbandono di ogni riferimento alle scritture contabili e al bilancio, ritenuti inattendibili e quindi non più assistiti dalla presunzione di veridicità. È il caso di una presunzione vinta da un’altra.

Il problema non sta, allora, come ritiene Tesauro, sul piano logico, ma su quello politico e mi sembra più corretto concludere che le presunzioni semplici sono ammesse nel diritto tributario perché lo esigono – e giustamente – la ragion di Stato, l’interesse pubblico, il comportamento sleale del contribuente etc., non la ragione del diritto, quanto meno di un diritto, come quello tributario, al quale: analogia, estensione ed altri canoni dell’esegesi giuridica si applicano con difficoltà, come minimo con ‘prudenza’, quando addirittura non vietati, soprattutto in un diritto ‘casistica’.

L’ammissibilità della presunzione semplice è spiegata dalla giurisprudenza ordinaria con la stessa ratio proposta dalla Corte costituzionale per giustificare la liceità della presunzione legale in campo tributario e cioè, come si è prima ricordato, la necessità di disporre di uno strumento di mediazione fra l’interesse erariale di procacciare gettito con semplicità e la irrinunciabile difesa del principio della capacità contributiva, dettato dall’art. 53 della Costituzione, principio sempre più metafisico, anzi mitico, di contro alla crescente concretezza del primo.

In sintesi, il diritto tributario accoglie le stesse categorie di presunzione del diritto civile: legali assolute, legali relative, semplici; nega applicabilità alla presunzione di presunzione ed incerto nell’accogliere le « semplicissime », che sarebbero le semplici prive dei caratteri della gravità, precisione e concordanza e ciò contraddittoriamente, perché, allora, bisognerebbe dare accoglienza anche alle presunzioni di presunzioni, che sono appunto presunzioni semplici prive di precisione [8].

Ma per la nostra analisi servono anche concetti relativi all’accertamento e in particolare a quello induttivo. Sul tema dell’accertamento l’uso della terminologia è incerto e approssimativo, a parte la confusione fra presunzione ed accertamento induttivo e fra questo e quello sintetico.

Trascurando l’accertamento ‘ricognitivo’, e considerando solo quello ‘costitutivo’ [9] l’accertamento può essere definito, almeno ai fini di questa nota, come un atto formale, previsto da ogni singola legge d’imposta, con cui l’Amministrazione finanziaria, dando motivazione dell’iter logico seguito, determina una materia imponibile. In particolare per i tributi diretti delle imprese tassate in base alle scritture contabili la fonte normativa è l’art. 39 del D.P.R. 29.9.1973 n. 600.

È evidente che, se si accetta questa definizione, restano esclusi dal diritto gli accertamenti: privi degli elementi formali previsti dalla legge come condizione di esistenza dell’atto proveniente dalla pubblica amministrazione secondo le norme di diritto amministrativo, gli ‘alogici’ e quelli ‘illogici’, nel senso di errati, fondati su sofisma o paralogismo.

L’accertamento può essere:

 

a) rispetto al metodo logico utilizzato: deduttivo o induttivo.

 

È deduttivo quando esiste una norma che indica una situazione astratta alla quale deve corrispondere una manifestazione di capacità contributiva, o più precisamente un quantum d’imponibile o di imposta, e la Finanza si limita a constatare i casi concreti di identità alla situazione astratta. È qui indispensabile una presunzione legale, che può essere assoluta o relativa, secondo le singole leggi. All’Amministrazione finanziaria si chiede di applicare un ragionamento semplicemente sillogistico del tipo: tutti gli imprenditori che occupano dipendenti debbono avere un reddito di tot per ogni dipendente, Rossi occupa dieci dipendenti, quindi ha un reddito di dieci volte tot. Le leggi che istituiscono i forfait sono esempi ormai tipici di determinazione deduttiva del reddito.

È induttivo quando, esistendo una legge che specificamente lo ammetta, l’Amministrazione finanziaria può risalire a un reddito imponibile che si ritiene pari a quello realmente conseguito, attraverso la valutazione, nella concreta fattispecie, di taluni elementi con caratteri di prova rivelatori della materia imponibile. È evidente che in questo tipo di accertamento viene fatto uso preminente della presunzione semplice, avente tutti i requisiti previsti dall’art. 39 DPR 600/1973, che rinvia a quelli dettati nel primo comma dell’art. 2729 c.c. È anche necessario porre una distinzione tra tipo di presunzione e previsione legislativa della presunzione. La presunzione semplice è un metodo di elaborazione delle prove e resta tale anche quando è prevista dalla legge, cioè non diventa per ciò presunzione legale, quando la legge si è limitata a consentire il metodo e non ha individuato, come nelle presunzioni legali assolute o relative, anche il nesso logico-deduttivo fra il caso astratto e quello reale. Il punto focale è proprio in questa constatazione. L’articolo 2729 c.c, inscindibile sul piano logico nei suoi due commi, è l’affermazione dell’alto grado di rischio insito nelle presunzioni semplici, ancorché caratterizzate da gravità, precisione e concordanza, da cui l’uso prudente. Ma la prudenza a cui pensa il legislatore civile è quella del ‘giudice’, mentre l’accertamento è atto dell’Amministrazione finanziaria, cioè di una delle due parti. Se in un processo storico di evoluzione del concetto di Stato si ritiene che quello di Stato etico sia un rischio troppo grande, bisogna consequenzialmente abbandonare correlativi postulati del tipo: l’Amministrazione persegue innanzi tutto fini di giustizia, il funzionario dello Stato è innanzi tutto un ‘magistrato’ e amenità di un mitico ottocento. L’Amministrazione deve fare gli interessi dello Stato: punto e basta; il funzionario deve procacciare materia imponibile nel rispetto delle leggi d’imposta e nient’altro. Quindi l’Amministrazione è parte, non è il giudice e quindi quando fa uso di presunzione semplice può anche non avere la prudenza di questi, quanto meno non gli è richiesto di averla, anzi gli è vietato di averla, perché giudicare secondo prudenza vuol dire operare sulla base di una scelta discrezionale, che può diventare arbitrio in chi non è chiamato ad amministrare la giustizia, ma ad alimentare l’Erario. La regola dovrebbe essere questa: in presenza di un caso in cui vi sono prove di evasione, l’Amministrazione non può decidere in base a un criterio di prudenza se far uso della presunzione e proporre o no un accertamento induttivo, ma deve procedere ad accertamento, naturalmente rispettando l’esigenza che le prove devono essere gravi, precise e concordanti o gravi, numerose e ripetute; però non ha scelta e quindi non avendo la prudenza come riferimento preliminare per decidere il proprio intervento, deve avere la legge. In tale sistema, che non è amorale, non è contro etica, ma semplicemente moderno e rispettoso dei ruoli diversi che ognuno riveste nello Stato, non può ammettersi per l’Amministrazione un uso della presunzione semplice, se non nei casi previsti dalla legge e quindi l’accertamento induttivo deve essere previsto dalle singole leggi d’imposta. Resta però il problema del giudice tributario al quale sembrerebbe riservata un’area di applicazione della presunzione più ampia di quella degli Uffici accertatori, in quanto il giudice può far ricorso a quella discrezionalità, che deriva dalla scelta in base a prudenza. Il dualismo è solo apparente, perché il giudice tributario non può integrare la materia imponibile, ma solo giudicare un atto di accertamento. Ne deriva che subisce indirettamente i vincoli in cui l’Amministrazione è stata costretta a muoversi e quindi non gli è possibile decidere se applicare o no la presunzione, ma solo controllare che la presunzione, di cui si è fatto uso nell’atto impugnato, sia corretta nell’iter logico di formazione, cioè se le prove sono veramente gravi, precise e concordanti o gravi, numerose e ripetute. Diventa così pienamente accettabile l’affermazione di Francesco Tesauro: « Il processo tributario è segnato da una peculiarità: quella di essere un processo la cui istruttoria di secondo grado, è un’istruttoria secondaria (l’espressione è stata usata per il processo amministrativo da Benvenuti). Esso suppone cioè un’istruttoria primaria, svolta dall’amministrazione nel procedimento, in esito al quale è stato emesso l’atto impugnato. Per modo che il processo controlla i risultati del procedimento » [10];

 

b) rispetto al metodo contabile : analitico o sintetico.

 

Le due specie sono in funzione del comportamento del contribuente. Se si è in presenza di una contabilità analitica e corretta, almeno nelle sue forme apparenti, l’accertamento non può che ripercorrere, in parallelo, componenti della fattispecie. Ma bisogna anche distinguere la presunzione dalla constatazione dei fatti. Vi è constatazione quando si tratta di intervenire su errori o calcoli. Un ammortamento è calcolato in anno non di competenza o con aliquota errata oppure la omissione di un ricavo, sono interventi che non abbisognano di presunzione. Così, reperire una bolla di accompagnamento di una merce venduta e non fatturata consente di porre in atto analiticamente una rettifica per mera constatazione, cioè senza ricorso alla presunzione, se anche del prezzo è stata trovata la prova diretta, mentre con la constatazione potrà aversi anche una presunzione semplice, se il valore del ricavo omesso non risulterà in atti contabili. Si avrebbe, cioè, il caso di constatazione del fatto omissivo e di una presunzione per la determinazione del valore. Affermare che un ricavo di dieci avrebbe potuto essere di dodici, potrebbe essere una presunzione e si tratta di verificare se la singola legge di imposta ammette un tale ricorso.

La differenza fra presunzione semplice e fatto direttamente provato è proprio nelle due diverse definizioni del processo accertativo. Con la presunzione si risale da un fatto noto a uno ignorato, ma è ovvio che il fatto ignorato è diverso da quello noto. Si tratta di due fatti collegati da una relazione logico-consequenziale, talvolta, quando è molto stretta, da un rapporto biunivoco di causa-effetto. Se non si trattasse di due fatti diversi il legislatore dell’art. 2727 c.c. non avrebbe sentito il bisogno di porre le condizioni della gravità, precisione e concordanza o l’art. 39, comma 2, DPR 600/1973 quelle di gravità, numerosità e ripetizione. Il fatto constatato cioè direttamente provato è invece unico; è “il fatto” e non abbisogna di interventi presuntivi. Ritorna a proposito la definizione di presunzione come operazione di elaborazione delle prove, da non confondere con la prova. È importante non confondere i due procedimenti e quindi non intendere per presunzione, con le limitazioni che comporta, ciò che invece è solo un semplice fatto direttamente provato, che invece non ha alcuna limitazione e nemmeno bisogno di supporto legislativo specifico.

Riprendendo l’esempio: quando la Finanza reperisce una bolla di accompagnamento per cessione di merce e non la relativa fattura non passa attraverso la presunzione per determinare l’evasione del ricavo, ma dispone della prova diretta dell’evasione. Quando nella stessa circostanza e in assenza di prova diretta, quale potrebbe essere il reperimento della quietanza di un pagamento maggiore di quello fatturato, trovasse una fattura di un corrispettivo di dieci e ritenesse più congruo il valore di dodici, dovrebbe ricorrere alla presunzione per poterlo affermare, ma potrebbe farlo solo se la legge prevede il singolo caso, qualora non rientri nel procedimento accertativo dell’art. 39 DPR 600/1973.

Sintetico sarebbe invece quell’accertamento che perviene immediatamente alla materia imponibile, saltando gli aspetti contabili della sua composizione ed è evidente che mentre in quello analitico la presunzione non è condizione necessaria, quello sintetico non può farne a meno.

Vi è poi un tipo di accertamento cosiddetto “presuntivo”, ma si tratta di una terminologia inutile, perché tutti gli accertamenti possono essere presuntivi. Infatti, come si è detto prima, la presunzione non è una prova, ma un metodo di interpretazione di certe possibili prove.

Stabilito, quindi, che non sono ammesse confusioni fra presunzione e un particolare tipo di accertamento, resta da esaminare il concetto di elusione, che è categoria non del diritto finanziario, ma della scienza delle finanze, che la definisce come il comportamento del contribuente che scansa il tributo senza violare la legge e, di conseguenza, senza incorrere in sanzioni  [11].

È opportuno affermare in via preliminare che il concetto di elusione è una mera ideologia. Le leggi che non esistono non sono leggi, il ‘non diritto’ può essere una categoria della dialettica, ma in una dialettica seria sarebbe pur sempre una finzione. L’art. 23 della Costituzione è chiaro. Le imposte sono regolate da leggi e in base alle stesse si pagano o si evadono, dire che si eludono rispettando la legge è mera ipocrisia e comunque il biasimo dell’elusione comporta implicitamente l’affermazione che esiste l’obbligo di rispettare il “non diritto”. Affermare legislativamente con norma astratta di carattere generale che delle scelte possibili il contribuente dovrà adottare quella che gli comporta maggiori costi fiscali, così sperando di aver risolto il problema con il procedimento della norma residuale: o è perverso o è ingenuo; ‘perverso’ perché pretende dall’uomo un comportamento contrario alla ricerca delle soluzioni razionali, fra le quali rientra quella meno costosa, ‘ingenuo’ perché sottovaluta la fantasia dell’uomo e la sua capacità di risolvere sempre i problemi. Gli ordinamenti tributari attuali, se sono più avanzati dei precedenti è perché l’Amministrazione finanziaria (il legislatore è solo l’astrazione di un mito) ha continuato a far tesoro, con leggi tecniche e senza proclami ideologici, dei comportamenti elusivi dei contribuenti, soprattutto senza affermare l’obbligo di crearsi una coscienza autolesionistica. Ora è noto che vi sono due diritti: quello positivo e quello naturale. Per molti giuristi il diritto naturale non esiste, nel senso che può essere qualcosa, ma non può essere diritto. L’elusione, demonizzata sul piano ideologico, non ha nulla di scandaloso, ma deve essere uno stimolo a migliorare il diritto positivo. Le biblioteche giuridiche scoppiano di tesi sull’argomento, ma a riempirle sono stati i filosofi non i giuristi. Facciamo l’ipotesi di accogliere la tesi della esistenza del ‘diritto naturale’. Si deve allora dire che l’elusione, posto che non è contraria al diritto positivo, va contro il diritto naturale? Esiste allora un ‘diritto tributario naturale’?

Ma pur con queste limitazioni si potrebbe ancora accogliere, in astratto o sul piano politico, una categoria che si qualifichi come ‘elusione’, a patto di non confonderla con evasione.

Ci si deve proporre un esempio pratico: quando una holding prestasse danaro a una società del gruppo senza interesse, tale scelta potrebbe rispondere a una ineccepibile e comunque non controvertibile logica economico-finanziaria oppure potrebbe essere finalizzata a travasare utili da una società che paga imposte ad altra che presenta perdite, così riducendo il carico fiscale cumulativo del gruppo. Ammesso di prendere in considerazione solo quest’ultimo comportamento, si dovrebbe concludere che non di elusione si tratterebbe, ma di evasione, perché tale comportamento non certo diverso da una qualsiasi sottofatturazione, sulla cui natura di evasione nessuno dubita. Non si comprende, allora, perché il Ministro delle finanze, scrivendo il D.L. 2 marzo 1989 n. 69, sostitutivo del decaduto 550/1988, abbia combattuto tale possibile evasione in un provvedimento titolato come “antielusione”.

Il fatto non solleva una mera questione di terminologia, usata o non a proposito, ma implica il più vasto problema dell’uso della presunzione, nel senso che se si tratta di evasione, già esistono nel diritto vigente gli strumenti per colpirla ed è incoerente tentare di qualificare una evasione, tacciandola di elusione per vanificarla con una presunzione legale nel citato D.L. 69/1989.

Ma qui non interessano: né le distinzioni terminologiche fra elusione o evasione, né le indagini psicologiche sui motivi dei comportamenti dei contribuenti, ma solo la verificazione dell’esistenza nel sistema, ante e post DD.LL. 550/1988 e 69/1989, di un potere generalizzato di far uso della presunzione semplice.

Da qui la prima conclusione: se il Ministro – tanto per evitare il mitico legislatore – scrive il Titolo III del D.L. 69/1989 “…per contenere le elusioni” e dota l’Amministrazione finanziaria di una presunzione specifica sugli interessi, vuol dire, evasione o elusione che sia l’ipotesi combattuta, che non esiste nel sistema tributario delle imposte dirette applicate a redditi determinati in base alle scritture contabili una norma che, al di fuori dell’art. 39 DPR 600 e alle precise condizioni ivi previste, riconosca un potere generalizzato della Finanza di far ricorso a presunzioni semplici anche in casi non espressamente previsti, per ricostruire corrispettivi diversi da quelli giudicabili ‘normali’.

Quindi ha ragione Francesco Tesauro quando scrive nella citata relazione del convegno riminese che: «…. se ne possa desumere che si è in presenza d’un sistema chiuso, nel quale le presunzioni semplici sono ammesse, e sono ammesse nei soli casi in cui la legge lo ammette » [12], mentre, a mio avviso, è inaccoglibile la tesi di P. Filippi che in una relazione esposta allo stesso Convegno, afferma: «  Nella stessa normativa tributaria si rinvengono espresse disposizioni che consentono all’amministrazione di utilizzare la presunzione; ma ciò non deve essere interpretato come un divieto quanto meno implicito di utilizzare questo strumento nei casi non consentiti dalla legge, bensì come una riconferma espressa del principio generale che ne consente l’applicabilità.» [13].

A parte la tautologia, vi è nell’assunto un evidente errore: « …. i casi non consentiti dalla legge… » sono contra legem, e, a meno di voler legittimare una Finanza che agisce contro la legge, bisogna concludere che l’autrice ha offerto un caso di contrasto fra pensiero e parole.

 

2. Analisi di un caso.

 

Con la precedente analisi delle categorie si sono poste le condizioni per una ipotesi di interpretazione della attuale situazione legislativa in tema di libertà dell’impresa, i cui redditi siano determinati in base alle scritture contabili, di praticare cessioni di beni e prestazioni di servizi a valori anche diversi di quelli normali.

Si ritiene di far riferimento a tre fonti legislative:

– l’art. 76, comma 5, T.U. 917/1986, come modificato dall’art. 1, Capo I, del D.P.R. n. 42 del 4 febbraio 1988, che recita: « …I componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che controllano direttamente o indirettamente l’impresa o che sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli stati esteri a seguito delle speciali procedure amichevoli previste dalle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti »;

– gli art. 39 e 40 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600

– gli articoli del D.L. 2 marzo 1989 n. 69 e particolarmente: 26, comma 8 e 11; 32, comma 3 del Titolo III finalizzato a contenere le elusioni; 12, comma 5 prima e dopo l’emendamento proposto in sede di conversione di legge.

La lettura coordinata delle tre fonti legislative citate consente la affermazione della seguente tesi:

– i responsabili della politica tributaria hanno constatato che un ordinamento incentrato su concetti destinati a rivelarsi metafisici sul piano della pratica applicazione, quali ad esempio: l’animus speculandi, la definizione di reddito che può consentire categorie residuali, la praesumptio juris tantum e ancor più la praesumptio facti, sono solo causa di pericolosi atti discrezionali della Amministrazione finanziaria (nella discrezionalità è compresa anche la discrezionalità di non averne o di averne fino al limite di non ritenere sussistenti le fattispecie!) e quand’anche l’attività di questa si svolga in piena correttezza, ingenera defatiganti contenziosi e valutazioni di prove di fatto con esiti incerti. Il senso di realismo, che poi l’atteggiamento logicamente consequenziale all’abbandono dei miti, ha imposto al legislatore del Testo Unico scelte orientate al pragmatismo. Lo scopo dell’Amministrazione pubblica, per non usare riferimenti a uno Stato inteso in senso di vuoto idealismo, non può essere quello di realizzare una eguaglianza o una redistribuzione di ricchezza fra gli amministrati. Se così fosse non servirebbe una costosa e macchinosa Amministrazione finanziaria. Non può nemmeno essere un puro scopo economico di gestione di servizi finanziati da entrate procurate con la logica del ‘ricavo’ o con prelievi lontani da ogni senso di giustizia o proporzionalità (categoria nella quale dovrebbe rientrare la progressività). Si tratta di trovare una via di mezzo per l’ottenimento di un gettito in condizioni di ragionevole rapidità e di compatibile equità. Piaccia o no, tale obiettivo si raggiunge con un diritto tributario fatto a “casistica” più che articolato su astratte definizioni. Ed è stata la scelta del codificatore del Testo Unico.

Questa constatazione già di per sé sufficiente per affermare che l’art. 76, comma 5, T.U. 917/86 identifica “un caso” in quanto non esiste una norma generale che prescriva la coerenza fra valori effettivi e valori ‘normali’. Ogni fattispecie, cioè ogni “caso”, dovrà essere formalmente enunciato in singole norme, non potendosi far ricorso, soprattutto in un ordinamento improntato alla “casistica”, all’analogia o all’interpretazione estensiva. Ma scorrendo il Testo Unico si constata che il riferimento a un valore normale nella determinazione del reddito d’impresa è solo quello del citato comma 5 dell’art. 76 DPR 517/1986.

Il Testo Unico definisce i comportamenti del contribuente nel momento dell’auto-definizione della materia imponibile, non anche quelli della Finanza, per i quali, in attesa di un altro apposito ritardatario testo unico, provvede il D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, con tutte le difficoltà di collegamento al nuovo e innovativo D.P.R. 917/1986. Tuttavia, leggendo gli articoli 39 e 40 del DPR 600/1973, non si trovano norme che diano alla Finanza poteri di accertamento in casi in cui la libertà contrattuale si sia manifestata con valori divergenti da quelli normali. Vale anche qui la precedente constatazione che non vi sarebbe stata necessità di scrivere l’art. 76, comma 5, nel T.U. 917/1986, se già il D.P.R. 600 avesse regolato il problema in generale.

I DD.LL. 550/1988 e 69/1989 sono stati preceduti dal disegno di legge n. 1301 della X Legislatura, proposto con evidente contraddizione alla ratio del Testo Unico 917/86, che, si ripete, è un diritto di “casi” non di “definizioni”. La proposta legislativa, oltre a elencare “casi”, recava all’art. 31, comma 1, una norma generale, che il Senato si affrettò a bocciare impietosamente e, stando alle dichiarazioni, senza appello, fra l’altro per previsioni di incostituzionalità. Ma nelle motivazioni della censura non compare quella che a mio avviso è determinante: l’incoerenza con il nuovo sistema. Non si può concepire un ordinamento fatto sui “casi” e poi inserire una norma di “definizioni” come l’abortito art. 31, comma 1, peraltro contraddetto del comma 2, che, quasi per un immediato pentimento di aver osato una definizione, reinseriva la “casistica”. Non è questione di visione ideologica del problema, ma semplicemente di coerenza o, meno ancora, di mera tecnica legislativa. Sicché i DD.LL. 550 e 69, non riproducendo l’art. 31 del disegno di legge n. 1301, sono stati proposti con rientro nella coerenza alla sola “casistica”.

Gli articoli del Titolo III del D.L. 69 e particolarmente: 26, commi 8, 11 e 32, comma 3 delle norme antielusione, espongono “casi”, che si aggiungono a quelli del T.U. 917, nel quale permane, e deve permanere a meno di cambiarne la ratio, la mancanza di una norma generale o definitoria in tema di coerenza fra valore effettivo e “normale”.

Ulteriore conferma si ha nell’art. 12, comma 5 del D.L. 69/1989, che ha costituito una novità rispetto al decaduto 550.

Proprio ai fini di una corretta interpretazione dell’istituto della presunzione semplice ‘fiscale’ è interessante verificare tale comma 5 nelle due formulazioni prima e dopo l’emendamento di conversione.

La versione originaria prevedeva che: « …I coefficienti di cui all’art. 11 possono, in quanto applicabili, essere utilizzati ai fini delle presunzioni di cui all’art. 39, primo comma lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e 54, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 633. ». A mio avviso, tale norma, sicuramente di portata generale, non avrebbe avuto però l’effetto di scardinare: « …. totalmente i principi che erano a base della riforma tributaria…», come hanno sostenuto: stampa specializzata e relatori di convegni [14].

Quindi l’art. 12, comma 5, D.L. 69/1989 non introduceva una norma generale, prima mancante, che dotasse l’Amministrazione di un nuovo potere di intervento su base presuntiva. Anzi, poteva essere inteso come strumento posto, forse involontariamente, a difesa equitativa del contribuente, che, essendo ‘colpevole’ di omissione di attività o falsa dichiarazione di passività, avrebbe subito la reazione accertativa dell’Amministrazione, la quale, però – e a mio avviso sarebbe stato determinante – non avrebbe avuto il potere di effettuare ricostruzioni fantasiose di fatti ignoti sulla base di fatti noti, ma si sarebbe dovuta attenere ai coefficienti dell’art. 11, i quali, essendo delle medie, possono anche determinare dei risultati inferiori a quelli reali. Dandosi tale interpretazione, autorizzata anche dall’uso del verbo ‘utilizzare’, a me pare che il legislatore intendesse solo integrare una presunzione già dettata all’art. 39, comma 1, lettera d), parte seconda del DPR 600/1973 con elementi tecnici di redditività. Ma la norma proposta, nella sua ambiguità e contraddizione, avrebbe potuto essere interpretata in senso più forte, anziché come supporto tecnico di presunzioni semplici già consolidate, come un ulteriore elemento di presunzione. Non bisogna però dimenticare il non trascurabile particolare che la lettera d) dell’art. 39, comma 1, richiamata dal citato comma 5 dell’art. 12, si riferisce solo ai soggetti tassabili in base alle scritture contabili, che abbiano omesso attività o esposto passività inesistenti e non a tutti. La nuova norma confermava un’altra volta la presunzione di veridicità del bilancio e delle scritture contabili, presunzione che non sarebbe stata vinta dallo scostamento dei risultati dai coefficienti dell’art. 11 D.L. 69, ma dai fatti da constatare già previsti sin dal 1973 nello stesso art. 39, che dal comma 5 dell’art. 12 riceveva solo un riferimento parametrico nel momento di determinazione dei valori, non più stabiliti con arbitrio, ma con riferimento a valori standard. I commentatori attribuivano, invece, alla nuova norma la funzione di parametro generale, anzi catastale, della redditività d’impresa con forza di presunzione legale, talché risultasse falso il diverso. La tesi era, a mio avviso, insostenibile almeno per due motivi:

a) non avrebbero più avuto alcun senso tutte le altre norme del Titolo III del D.L. 69 e lo stesso art. 39 DPR 600/1973, che risultavano pleonastiche;

b) il legislatore del D.L. 69 sarebbe caduto in una violazione del ‘principio di non contraddizione’. Infatti il comma 5 dell’art. 12, prevedendo che i coefficienti dell’art. 11 potessero essere utilizzati ai fini delle presunzioni dell’art. 39, primo comma, lettera d), DPR 600/1973, confermava espressamente il mantenimento in vigore di queste, che, come si visto, possono essere solo quelle semplici della parte seconda, aventi per i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Ma non avrebbe anche potuto imporre, con insanabile contraddizione, la loro sostituzione con le presunzioni legali di redditività dei coefficienti dell’art. 11, situazione in cui si sarebbe inevitabilmente caduti qualora si fosse ritenuto che il comma 5 dell’art. 12 D.L. 69/1989 avesse inteso vanificare l’intero sistema dell’art. 39, lettera d), DPR 600/1973. Poiché le presunzioni o sono legali o sono semplici, si può solo ritenere in via logica che il legislatore intendesse consentire all’Amministrazione di utilizzare i coefficienti dell’art. 11 D.L. 69/1989 per sviluppare le presunzioni semplici dell’art. 39 lettera d), DPR 600/1973, ma nell’ambito dei soli due casi di omissione di attività o dichiarazione di passività inesistenti e con il concorso della gravità, precisione e concordanza. Poiché i coefficienti dell’art. 11 non possono assorbire in sé questi requisiti, perché se così fosse avremmo appunto la contraddittoria sostituzione della presunzione legale a quella semplice, poteva darsi un’unica conclusione logica e cioè che tali coefficienti sarebbero stati solo alcuni fra gli elementi volti a costituire, con altri, il sistema dei requisiti della presunzione semplice e anzi del solo requisito della concordanza, perché coefficienti medi non possono avere, per definizione, quelli della precisione e della gravità. Ma concordanza implica coesistenza coerente con qualcos’altro, quindi parte di una pluralità, che non può esaurirsi nell’unicità di un singolo coefficiente di redditività settoriale. L’Amministrazione non avrebbe potuto disporre, per effetto di quel comma 5, di alcuno strumento automatico, ma solo di un riferimento in più, da aggiungere a quelli che già doveva e dovrà continuare a utilizzare per proporre presunzioni fondate, a parte il senso metagiuridico della locuzione in quanto applicabili, il cui giudizio non si sa a chi sarebbe stato affidato.

In sede di conversione il citato comma 5 è stato integralmente rifatto e sostituito dal seguente:« I coefficienti di cui all’art. 11 possono altresì essere utilizzati ai fini della programmazione dell’attività di controllo di cui al comma 1, anche nei confronti dei soggetti che hanno optato per il regime ordinario di contabilità. ». Si nota immediatamente che la portata della norma è ora ricondotta ai soli contribuenti, con volume di affari non superiore a 360 milioni annui, gli unici che possono avere una opzione da esercitare, ancorché la loro scelta cada su un regime ordinario di contabilità.

La nuova versione del comma 5 non ha però reso accademica l’interpretazione degli effetti di quella originaria, perché l’analisi di questa e il raffronto con la definitiva consente di trarre almeno le seguenti considerazioni:

a) il Ministro forse non intendeva scardinare il principio di eccezionalità dell’accertamento basato su presunzioni semplici e il principio di presunzione di veridicità di bilancio e scritture contabili non sarebbe stato annullato;

b) in Parlamento, a prescindere dalle possibilità interpretative di cui al punto precedente, esistono resistenze, finora invincibili, a estendere la presunzione legale (si noti: ferma quella semplice) oltre le categorie cosiddette a ‘rischio’. L’organo legislativo per evitare incrinature sui principi fondamentali della riforma tributaria ha riscritto il comma 5 in termini tali da togliere ogni dubbio;

c) le due posizioni, la ministeriale e la parlamentare, sembrano quindi convergenti nella sostanza e insieme confermano che non esiste nell’ordinamento la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di ricorso generalizzato alla presunzione semplice come strumento di correzione dei valori apparenti di fatti amministrativi correttamente contabilizzati dai soggetti previsti dall’art. 39 D.P.R. 600/1973. Esiste comunque una espressa volontà contraria del Parlamento a ogni cambiamento del sistema vigente.

Ma per dimostrare l’assunto di questa nota, oltre che alle tre citate fonti legislative si può fare riferimento ai precedenti storici e particolarmente ai lavori preparatori.

Seguendo questo criterio, si trovano convincenti conferme delle tesi sopra esposte, confrontando il testo approvato con le proposte iniziali.

È interessante rilevare che nella bozza di Testo Unico l’art. 76 – di cui è opportuno ricordare la rubrica legis: “Norme generali sulle valutazioni” – prevedeva, diversamente dall’ultimo comma dell’art. 75 DPR 597/1973, che tutti: «…i componenti del reddito derivanti da operazioni con soggetti che per i loro rapporti diretti o indiretti con l’impresa ne subiscono l’influenza dominante o dispongono di influenza dominante su di essa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati o dei beni o servizi ricevuti, determinato a norma del secondo comma.La disposizione si applica anche per le operazioni tra imprese sottoposte all’influenza dominante di uno stesso soggetto. Per le operazioni con soggetti non residenti le disposizioni di questo comma si applicano soltanto se ne deriva aumento del reddito. ». Erano evidenti due principi:

– la generalità dei destinatari, residenti o non, ma per gli ultimi solo in caso di incremento di materia imponibile;

– la restrizione, nell’ambito della generalità, ai soggetti in rapporto di controllo.

Su tale proposta il relatore della ” Commissione parlamentare” si è così espresso:

«  Al quinto comma, viene introdotta una rilevante innovazione al vigente ordinamento. La valutazione di congruità, rispetto al valore normale, delle operazioni effettuate tra soggetti residenti che siano in rapporto di influenza dominante degli uni sugli altri. La disposizione, attualmente in vigore soltanto per le operazioni tra soggetto residente e soggetto non residente, viene estesa anche alle operazioni tra soggetti residenti. La cennata estensione sembra del tutto inopportuna e penalizza fortemente i gruppi di imprese, nel cui ambito possono verificarsi realmente operazioni, sia di scambio di beni che di prestazioni di servizi, il cui corrispettivo sia fissato in misura non corrispondente al valore normale, in virtù della peculiarità di collegamenti economici di aziende che fanno parte di uno stesso gruppo che possono portare a privilegiare, in concreto, il valore aggiunto di una fase rispetto a quella che si consegue in un’altra fase. Presumere da ciò maggiori ricavi o maggiori costi in relazione alla differenza dei corrispettivi pattuiti rispetto al valore normale delle operazioni, di cui resta comunque la difficoltà e la discrezionalità di determinazione, porterebbe in tali casi a far emergere a tassazione redditi inesistenti.

Tale inconveniente si verificava già in precedenza e continua a verificarsi anche nei rapporti tra soggetti residenti e non residenti. In questo caso tuttavia date le difficoltà dell’accertamento può accettarsi l’impiego di presunzioni.

Sarebbe comunque auspicabile il ricorso a presunzioni juris tantum e non di carattere assoluto…. Conclusivamente l’uso indiscriminato del valore normale in luogo di prezzi reali finisce con l’attribuzione agli uffici di un potere anomalo: gli uffici infatti, non essendo in grado di valutare tutte le operazioni finirebbero per puntare la loro attenzione solo sulle situazioni da cui consegue la presunzione di maggiori ricavi e, quindi, redditi imponibili, rispetto a quelle per le quali la presunzione comporterebbe la rilevazione di maggiori costi. E ciò fa aumentare i rischi di distorsione del sistema determinando situazioni di doppia tassazione. Tale norma è in contrasto con il principio di competenza economica fissato nella delega. Sembra quindi opportuno sopprimerla.».

Coerentemente con il relatore e in riferimento alla norma allora vigente dettata dall’ultimo comma dell’art. 75 DPR 597/1973, la “Commissione parlamentare” ha espresso la proposta: « di mantenere la norma del testo vigente per evitare l’introduzione nel sistema di incontrollabili poteri discrezionali prevedendo, altresì la possibilità di ricorrere a presunzioni juris tantum e introducendo la facoltà per l’Amministrazione finanziaria di ricorrere al valore normale anche nei casi di diminuzione del reddito imponibile quando si renda necessario per concludere procedure amichevoli in sede di trattative internazionali contro le doppie imposizioni. »

Se si esamina ora il testo definitivo dell’art. 76, comma 5, T.U. 917/1986 si constata che la proposta della “Commissione parlamentare” è stata accolta nella parte relativa al mantenimento della normativa ristretta alle imprese multinazionali, tra l’altro per il solo caso della dominante estera, ma dal codificatore non è stato raccolto l’invito a dettare presunzioni juris tantum per gli altri casi, non per dimenticanza, ma per coerenza con un sistema incentrato sui “casi”, con il quale le presunzioni hanno evidenti difficoltà di conciliarsi.

Si deve quindi concludere che, almeno ai fini delle imposte dirette, esiste libertà di contrattazione fra imprese nazionali senza problemi di confronto con i valori normali.

Ma a fini di chiarezza vi è l’ulteriore necessità di un richiamo della diversa opinione espressa sul tema nel commentario “Le imposte sui redditi nel testo unico” di Leo-Monacchi-Schiavo [15], che, anche per le funzioni ministeriali dei coautori, è ripetutamente citato, talvolta con la scoperta speranza di leggervi anticipazioni di future circolari ministeriali.

Dopo aver riportato testualmente la sopracitata proposta della relazione della “Commissione parlamentare” sul comma 5 dell’art. 76, gli autori a pag. 692 affermano che: « La definitiva soluzione adottata di non estendere il criterio di valutazione ai rapporti tra residenti è coerente con l’orientamento seguito dall’Amministrazione finanziaria nella risoluzione n. 9/198 del 10 marzo 1982, nella quale è stato affermato che la valutazione al valore normale dei componenti di reddito relativi ai rapporti tra imprese nazionali può essere effettuata juris tantum, atteso che la presunzione assoluta riguardava esclusivamente la previsione normativa di cui all’ultimo comma dell’art. 75 del D.P.R. n. 597…».

Mi pare chiaro che affermare la coerenza tra una nuova norma di legge e una precedente pronunzia incentrata sulla praesumptio juris tantum equivale a sostenere che tale presunzione è stata recepita nello jus superveniens, cioè il contrario delle mie conclusioni.

Ma la tesi dei citati autori non è condivisibile almeno per due ragioni:

– la risoluzione n. 9/198 stata emanata, con evidente interpretazione pro fisco, vigente il sistema del D.P.R. 597/1973, che, diversamente dal T.U. 917/1986, era incentrato su “definizioni” e prevedeva anche norme residuali. Sarebbe una ben strana coerenza quella che riesce a collegare due ordinamenti a diversa struttura. A parte questa determinante considerazione, si potrebbe dimostrare che nemmeno nella vigenza del D.P.R. 597/1973 era consentito alla Amministrazione finanziaria di operare recuperi di differenze fra valore effettivo e quello “normale” per mezzo di presunzioni juris tantum;

– l’art. 76, comma 5, T.U. 917/1986 non ha affatto recepito l’orientamento della risoluzione n. 9/198, per il semplice motivo che il codificatore non ha raccolto l’invito della “Commissione parlamentare” di «  mantenere la norma nel testo vigente » e altresì di prevedere (tale è l’unico significato logico-grammaticale del gerundio “prevedendo”) « la possibilità di ricorrere a presunzioni juris tantum ».

 

Pietro Bonazza


[1] Leo-Monacchi-Schiavo “Le imposte sui redditi nel testo unico”, Milano 1988, pag. 692.

[2] Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, Torino, 1975, vol. I, pag.29.

[3] T.W. Adorno, ivi, pag. 14.

[4] E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1987, pagg. X e segg.

[5] Novissimo digesto italiano, Torino 1980, vol. XIII, voce “presunzioni” di V. Andrioli, pag. 770, nota 4.

[6] Per un richiamo della giurisprudenza vedi Cassazione 10 giugno 1987 n. 5952 in Bollettino Tributario, 17/1987, pag. 1324. Il principio della sufficienza della relazione di probabilità e non di necessità tra fatto noto e fatto ignorato è fermo, nella giurisprudenza civile, da data più lontana. Si vedano, ad esempio, le sentenze di Cassazione: 19 gennaio 1967, n. 175; 11 dicembre 1968, n. 3952; 7 luglio 1976, n. 2525; 27 aprile 1978, n. 1978.

[7] Le presunzioni in materia tributaria, a cura di A.E. Granelli, Rimini, 1987.

[8] F. Tesauro, in Atti del convegno, cit., pag. 54.

[9] G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino 1984, pag. 200.

[10] cit., pag. 40.

[11] C. Cosciani, Scienza delle finanze, Torino, 1977, pag. 107.

[12] cit., pag. 53.

[13] cit., pag. 78.

[14] “Il Sole-24 ORE”, 4.3.1989.

[15] Milano, 1988