Articolo pubblicato sulla rivista  “l’Autonomia”, 2009, n. 3.4

editore “La Quadra s.n.c.” – Via Carlo Cattaneo, 70 – Brescia

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Definire significa etimologicamente togliere la finitezza e rendere dogmatico un concetto. Per questo in democrazia si dovrebbe fare parco uso del termine definizione, che è concetto chiuso, mentre tutto dev’essere aperto, fluido ed evolutivo. Ma anche il non definitivo non dev’essere assolutizzato, perché, se non si vuole rendere tutto instabile, bisogna pur avere un ancoraggio, che è il fine di difendere la democrazia da se stessa e impedire di scivolare verso un relativismo assoluto con il rischio di sfociare in anarchia. Il confine è labile e può esistere una zona cuscinetto, una terra di nessuno, che separa la democrazia dall’anarchia da una parte e dalla tirannia dall’altra.

Nella storia della filosofia politica si trovano tante definizioni di democrazia, ma anche le più auliche e celebrate possono risultare oggi insoddisfacenti. Tutte lasciano qualcosa in sospeso, come ogni definizione, se non altro perché il tentativo di generalizzazione finisce per escludere troppe cose. Dire con Churchill che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate finora” (Camera dei Comuni, novembre 1947) significa non definire, perché è semplicemente un concetto residuale e storicizzabile. Nella storia di un popolo ci possono essere epoche in cui la democrazia non è il miglior regime politico. La democrazia dovrebbe essere vista come un punto di arrivo, una specie di maturazione storica dopo esperienze secolari di non-democrazia. Su questa evidenza non ci si deve nascondere dietro il significato etimologicamente permanente, ma in effetti cangiante, del termine, piuttosto è necessario guardare alla realtà. Dire che quella di Pericle è stata una democrazia può essere una nostalgia priva di fondata memoria, perché le etichette non servono; servono i contenuti! Né è vero, comunque non sempre, che il concetto di democrazia abbia come presupposto e come sbocco la libertà; concetto a sua volta metafisico ed equivoco. Se trascuriamo il pulpito da cui veniva la predica, ricordiamo che Mussolini ebbe a dichiarare il 15 luglio 1923 alla Camera dei Deputati “ci sono le libertภla libertà non è mai esistita“, a cui ha fatto eco il suo antagonista Benedetto Croce nella  Storia d’Europa nel secolo decimonono: la libertà al singolare esiste solo nelle libertà al plurale” e non è un caso che la nostra Costituzione non contenga una definizione di libertà, né una sua dichiarazione astratta, ma affermi e regoli libertà singole e ben individuate: la libertà di stampa, di associazione, di opinione, di intrapresa economica, ecc. La libertà serve solo come slogan da mettere su qui panni che chiamiamo bandiere o sulle insegne dei partiti o nei versi dei poeti, per trascinare gente che si pone poche domande e obiettivi incerti e indeterminati. A me la parola “libertà” fa paura, perché mi porta a chiedere “che cosa ci sta dietro”? Dov’è l’inganno? Invece, mi basta aggiungere un complemento di specificazione e tutto diventa chiaro e inequivocabile. È la “liberta di…” che conta. Prendo tre esempi:

  1. Montesquieu nell’Esprit de loi afferma: «la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono». Ma quali leggi? Anche i regimi tirannici hanno leggi e, allora, la libertà può essere solo quella di rispettare la volontà del tiranno che si manifesta nel nomos;
  2. Rousseau, un altro francese magnificato oltre i suoi meriti, afferma nel Contracte social: «l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritta è la libertà», che implica un’analisi preventiva del come e del chi fa in effetti la legge e già qui nascono complicazioni infinite;
  3. Dostoevskij, nelle Memorie di una casa morta, descrive con la sua nota profondità psicologica i detenuti in Siberia, che dopo aver guarito un’aquila ferita la osservano volare dal campo di concentramento verso la libertà che a loro è negata. I tanto celebrati politologi francesi fanno una ben magra figura rispetto allo scrittore russo.

Questa non è la sede per discettare su concetti più o meno filosofici, però, se quelle sopra espresse sono considerazioni fondamentali, bisogna subito aggiungere che non bastano. È più importante richiamare due altri concetti concreti: la “libertà da” e la “libertà per“. La prima è la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del pane che non c’è o è insufficiente. La biologia ci chiarisce che occorrono due mila calorie al giorno per fare una rivoluzione e che anche l’ammalato inchiodato nel letto consuma millecinquecento calorie al giorno. Rendere disponibili i mezzi di sussistenza primari è una prima necessità. La Bibbia, nell’Esodo, ci descrive la manna caduta nel cielo per gli ebrei erranti nel deserto; il Vangelo di Luca, 9,10 ci parla del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. La prima delle libertà (“da”) è il non soccombere alla fame, al resto ci pensiamo dopo, come dice l’aforisma primum vivere deinde philosophari. Solo dopo si può realizzare la “libertà per”, che è quella che consente all’uomo di dedicare tempo ed energie al proprio spirito, ai propri obiettivi individuali e, se si pensa al suo essere cives, alla “solidarietà”.

La storia umana passa attraverso questi due canali, sui quali si gioca anche la partita, spesso tutt’altro che “sportiva”, della evoluzione dell’uomo e che può riservare una qualche ragione ai catastrofisti, che vedono nella continua crescita della popolazione mondiale il permanere di una invincibile “libertà da”. Non è questione di togliere ai ricchi per darne ai poveri, perché di Robin Hood sono pieni i libri di fiabe e di storia e non hanno mai portato a nulla. Ben vengano i San Francesco a ricordarci il significato vero di “carità”, ma non dimentichiamo che le società attuali, ma anche la società mondiale connotata da una esasperata globalizzazione, si reggono sull’economia, che, purtroppo, è disciplina non solo “triste”, ma anche pericolosa, come dimostra la crisi di questi mesi. L’etica dell’economia, tanto invocata a sproposito e per zittire cattive coscienze, è solo ingannevole. Occorrono leggi severe, soprattutto chiare e precise, contro i malfattori, che usano il sudore degli altri per arricchire se stessi.

Si constata, però, che, nonostante tante manifestazioni di solidarietà che denotano l’esistenza di valori spirituali, l’egoismo dilagante porta in primo piano la libertà economica. Peraltro, non è prerogativa di quest’epoca. Allora, se è vero che gli aspetti economici diventano prevalenti e lo diventeranno sempre più in parallelo con la crescita della popolazione, la libertà economica, cioè la libertà di mercato, diventa, purtroppo, la prima delle libertà, perché orientata alla produzione di quella ricchezza che consente a più persone il conseguimento della “libertà da” e pone il collegamento del termine libertà con “liberazione”.

Il libero mercato diventa, allora, una macchina delicatissima per produrre ricchezza, ma anche per distribuirla secondo regole economiche (si sarebbe tentati di dire “eque”, ma è termine metafisico).

Libertà di mercato non è termine che conduce direttamente a “capitalismo”, anche se la mancanza di capitale non ci porta molto lontano. Notiamo in questi giorni di restrizione del credito bancario alle piccole imprese quanto sia importante il flusso dei capitali, senza i quali riempiamo le piazze di disoccupati, terrorizzati di cadere in una insperata “libertà da”. Al di là di tante belle parole, ricordiamoci che per donare bisogna prima avere e questo avere ce lo consente il libero mercato.

Abbiamo le biblioteche piene di libri su Marx, ma pochi, dei pochissimi che ancora lo leggono, si chiedono se nel lungo periodo, il tempo del maestro di storia Fernand Braudel, il mondo sarebbe poi stato molto diverso in assenza di Marx. Sono dell’avviso che sarebbe cambiato ben poco, perché il cammino dell’uomo si sviluppa nel binomio produzione-distribuzione. Il marxismo allunga solo il tempo, il libero mercato lo accorcia, ma alla fine il conto torna senza bisogno di rivoluzionari. Giambattista Vico con la sua “critica della ragion storica” ce lo insegna da secoli.

A questo punto si impone una definizione di libero mercato, che vedo nel diritto-dovere di azionare un flusso di beni e di servizi nel rispetto di norme. Ritorna il problema già posto, crocevia tra democrazia e libertà: chi le dà le norme? Il concetto di democrazia non serve: le norme le deve dare chi conosce virtù e vizi del mercato, che diventa libero se si controllano questi ultimi. La democrazia e i parlamenti non sono adatti a questo tipo di normativa, che si diluirebbe in un vuoto di discussioni alimentate dalle lobby. Ricordiamoci degli ateniesi che chiamarono Solone a dettare leggi giuste e appropriate. I due corni del problema sono lo “stato minimo” di Nozick e il non-mercato della pianificazione centralizzata. Il mercato lasciato a se stesso è la negazione della libertà, perché si instaura l’anarchia di mercato. Si vedano l’esempio di Madoff e le speculazioni finanziarie e bancarie, che hanno generato la crisi in atto e che presto ne creeranno altre, vista la esistente e crescente massa di prodotti derivati ad alta tossicità, che una finanza incontrollata ha iniettato nel sistema circolatorio dell’intera economia. Solo se ci sono regole possiamo parlare di market abuse e agire di conseguenza contro i colpevoli.

Penso che, dopo l’ubriacatura di definizioni, giudizi, aforismi, sia urgente rivedere autocriticamente i concetti di democrazia, libertà e libero mercato, se vogliamo garantire uno svolgimento ordinato dell’azione umana e dirigerla verso la produzione di beni e servizi a vantaggio della collettività o, se vogliamo richiamare un termine abusato, a “beneficio del popolo”, che non si alimenta dei gossip dei giornali, un tempo seri, ma di “pane quotidiano”.

In questo contesto ricordiamo anche che ogni sperpero di danaro pubblico determina riduzione di libertà dei cittadini e mette in dubbio l’adeguatezza del concetto di democrazia.

Pietro Bonazza