Io-Tu è spesso inteso come una coppia di due termini alternativi, persino contrapposti. Non tutti i filologi sono concordi che doppio abbia la stessa radice di dubbio e, quindi di due, però mi pare che, a prescindere da opinioni filologiche, il Tu passi attraverso l’Io. L’Io è soprattutto coraggio e responsabilità. Il coraggio di dire Io porta necessariamente alla responsabilità di me-Io. Ma l’Io non esiste senza il Tu. Nessun uomo è un’isola, dice John Donne. L’Io è importante perché è l’inizio. Se trascuriamo le esagerazioni degli idealisti, da Fiche in poi, ci accorgiamo che non possiamo dire Tu senza aver detto prima Io.

Il Tu è il tuo prossimo e il Vangelo (Matteo – cap. 20) afferma: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Cioè l’Io è misura ed è misurato dal Tu.

Ma il Tu è come un punto sull’asse delle ascisse: ha direzione a sinistra e un’altra a destra. In altri termini: il due può rivolgersi verso l’uno in cui si fa assorbire, perché prossimo vuol dire amore e quindi ricostituzione di un’unità, una solidarietà interna; ma se è rivolto nell’altra direzione si realizza la solidarietà esterna, che è ancora un processo di assorbimento, perché solidarietà viene da solidus, cioè intero, completo.

Il due è l’avvio della solidarietà. Esso è solo un transito, destinato a essere assorbito nell’Uno, nell’Io o ad allargarsi al Noi, che realizza la solidarietà politica. Nel primo caso nasce la famiglia, nel secondo la società politica o, per dirla con Hegel, la società civile. Lo sforzo dell’uomo è nel far sparire il due e spesso il tentativo fallisce: la famiglia non sorge o si sfalda; la società politica o civile, come qualcuno la chiama, si dissolve, lasciando residui incombusti: gli odi sociali. Sono i motori, l’amore per la famiglia e la nazione per la società civile, che smettono di girare. Se girano, quando girano, si ha l’armonia. Ma l’armonia è un traguardo, che non si ottiene senza sacrifici o tributi da pagare. L’armonia, a sua volta è un traguardo ideale, che spesso deve fare i conti con la compassione e la compromissione, su cui è costruita e giustificata la continuità della famiglia e la convivenza tra i cittadini e tra le nazioni.

In questo quadro sintetico si spiega il cammino della filosofia da Cartesio in poi. Cartesio fa nascere l’Io, Lévinas restituisce il due all’uno, Gentile si fa sacerdote del noi per una mistica tutta personale. Sono tutti mistici, perché sognatori e senza sogno l’uomo non riesce nemmeno a pensare. La “vita è sogno”, dice Calderon de la Barca, ma il sogno non esiste, se il pensiero non lo rielabora e la realtà del pensiero si inaridisce senza il sogno. È significativo che la filosofia moderna sia nata dal sogno di Cartesio. Cartesio non ci ha insegnato solo a dubitare, ma anche a sognare. Tutti i grandi hanno vissuto l’idea rivoluzionaria nel sogno, anche se poi hanno affermato che quella pensata è la sola realtà. Il più grandioso sogno della storia non è forse quello che Dante espresse nella Divina Commedia? Sogno, visione reale, profezia, che differenza fa? Il biblico Daniele profetava mediante il sogno. E che cosa fu l’intuizione di Galileo, se non un sogno? Il binomio sogno-pensiero è la madre della intuizioni e delle illusioni, di cui vive l’uomo e che alimenta la fede, la speranza e la carità. E la mistica di Gentile non fu forse un sogno o un’illusione? E l’empatia di Lévinas non fu ancora un sogno-illusione? E gli idealisti e i romantici dell’Ottocento non furono forse dei sognatori? E la grande mistica di Schopenhauer non fu solo un grande e doloroso sogno? I grandi sognano e si illudono anche per noi e qui sta il loro dramma personale. Certo, il sogno, come la realtà non è sempre rosa, perché la realtà non lo è. Spesso si inserisce l’incubo, che è la rivisitazione delle nostre paure. Il sogno non è abbandono, è la vitalità, che si esprime anche nella quiete muscolare e proprio qui sta il suo dramma. Chi vive un incubo è spesso incapace di svegliarsi senza l’aiuto di una persona sveglia che lo riporti alla veglia. Così è il pendolo del creatore o intuitore di idee, che i più chiamano filosofo, ma è un profeta, un Mosè che scaglia le tavole contro il popolo idolatra. Ma Mosè senza popolo non ha senso. Dio non gli diede le leggi per sé, ma per il popolo. Le leggi morali sono un dono. Le intuizioni dei pensatori pure. Ma in mezzo al popolo ci sono anche i farisei e i filistei, cioè i critici, che spaccano il capello altrui in quattro, loro che sarebbero incapaci di partorire un pensierino originale e non sanno altro che vivere, come parassiti, sulle aporie dei pensatori, facendoci perdere di vista i veri messaggi dei loro sogni.

Senza Cartesio non sarebbe stato avviato quel processo di conoscenza del soggetto, che ha portato a una miglior conoscenza dell’uomo e ad approfondire le “scienze dello spirito” non solo in chiave meramente antropologica. Se rifuggiamo dalle esagerazioni date alla soggettività dagli idealisti, possiamo apprezzare che il soggetto nelle sue varie espressioni e applicazioni meritava più attenzione di quanta ne riservò la filosofia dalla nascita a prima di Cartesio. Si pensi, per fare solo un esempio, alla psicologia, alla psichiatria, alla filosofia della mente. Sarebbero mai nate senza il sogno del melone di Cartesio?

Ma una riflessione sul “dopo” Cartesio porta inevitabilmente a trattare dei cartesiani. Sul punto è più semplice e sintetico lasciare la parola a Shopenhauer, che nel florilegio L’arte di insultare, sotto il titolo I cartesiani, che negano la coscienza agli animali, scrive:  “Se un cartesiano si trovasse tra gli artigli di una tigre, capirebbe nel modo più chiaro quale precisa differenza essa sappia fare tra il suo io e il suo non-io”.