1 – Premessa

 

Scrive nei primi anni del Novecento il filosofo del diritto Georges Ripert: «L’opera del giurista è la sola che rimane, quando si placa il tumulto delle rivoluzioni »[1]. Detta da un francese, che conosce la storia del suo paese, l’affermazione suona ottimistica, anche ad intendere il termine “giurista” nel senso di architettura di un sistema giuridico. Infatti, le rivoluzioni, come le rappresentazioni teatrali, hanno per scena la piazza, ma è solo apparenza; il vero obiettivo è l’imposizione di un “ordine nuovo”, o più concretamente di un “ordinamento giuridico nuovo”. Condivisibile o no, l’affermazione di Ripert e soprattutto la locuzione “opera del giurista”, è da intendere nel senso di architettura od ordinamento sistematico di corpus iuris e questo ci collega a Hans Kelsen, che un pregiudizio politico ha tentato di relegare nel dimenticatoio, senza successo, proprio perché quel filosofo del diritto è stato sostenitore di una visione apolitica del diritto. Ma, architettura del diritto implica una classificazione piramidale delle norme: cuspide la costituzione e a scendere le altre norme. Solo così si può parlare di ordinamento, che implica “ordine”, cioè “sistema” e gerarchia, interconnessione di singole norme, idonea a consentire l’estrazione di “principi generali” e regole interpretative comuni, a loro volta idonee a consentire regole non devianti di estensione e di analogia.

In ogni sistema od ordinamento ogni “cosa” trova il posto opportuno e nel caso dell’ordinamento giuridico, ogni norma assume un suo “rango”, che è poi la sua interconnessione con le altre norme.

 

* * *

 

La premessa stimola la domanda: dove si colloca, con quale rango e come interagisce lo “statuto del contribuente”, inserito nell’ordinamento con la legge 27 luglio 2000, n. 212?

Esiste un precedente, passato nelle temperie normative di oltre sessant’anni e, quindi, di provata vitalità: la legge 7 gennaio 1929, n. 4 e, particolarmente, il secondo comma dell’art. 1, che recitava: « Le disposizioni della presente legge [] non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori concernenti i singoli tributi, se non per dichiarazione espressa del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate o modificate ». La norma si collega con l’art. 15 delle Preleggi, che, però, non ha potuto assorbirla, proprio perché ha un valore giuridico più forte. Pertanto, se il Codice civile e le Preleggi sono da ritenere norme ordinarie, si deve concludere che la legge 4/1929 ha un rango superiore e si colloca tra uno statuto o una carta costituzionale e le leggi ordinarie.

Lo “statuto del contribuente” sembra, sul punto, una derivazione della legge 4/1929. Infatti, all’art. 1, comma 1, dispone:«Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali ».

Si nota, anche a prima lettura, che il comune denominatore tra le due norme seppur appartenenti a due ordinamenti diversi, è il loro rango superiore alle leggi ordinarie. La seconda afferma esplicitamente l’inderogabilità e l’immodificabilità “da leggi speciali”, mentre la prima “da leggi posteriori concernenti i singoli tributi”. Se la ratio è comune si potrebbe dedurre che le leggi concernenti i “singoli tributi” sono leggi “speciali” e si tratterebbe di una constatazione della massima importanza ai fini di stabilire se alle norme concernenti i “singoli tributi” sia o no applicabile l’analogia; ciò che porta a due importanti riflessioni:

a) lo “Statuto del contribuente” non è legge relativa a un “singolo tributo” e, quindi, non esclude l’analogia;

b) la legge relativa a un “singolo tributo” è norma speciale e in quanto tale non lo è solo nel momento istitutivo, ma nella sua intera struttura, quindi anche nell’oggetto e, se la sequenza logica è corretta, non sopporta il processo analogico.

2 – Analogia

 

Con l’applicazione estensiva, di cui si dirà, l’analogia costituisce uno dei problemi cardine del diritto tributario, perché implica l’analisi del collocamento di questo nell’ordinamento. Si parla, talvolta, di ordinamento tributario, ma è definizione non condivisibile, perché l’ordinamento giuridico è uno; diversamente non si potrebbe dedurre con sicurezza alcun principio generale del diritto. Ciò premesso, si devono affrontare i seguenti problemi:

la definizione di logica giuridica;

la definizione di analogia e l’area di applicazione: integrativa o interpretativa.

 

2,i – Definizioni di logica giuridica e di sillogismo

In filosofia del diritto due sono le scuole predominanti, ma entrambe applicano i concetti alla fase interpretativa, cioè all’attività di formazione della sentenza da parte del giudice, discutendo se questa sia o no applicazione del sillogismo [2].

È noto da Aristotele – ed è un suo merito – che il sillogismo è un processo logico in cui, da due premesse, se ne deduce una conclusione. Una scuola di pensiero afferma che la sentenza del giudice, cioè la sua interpretazione operativa, non può essere sillogizzante, la seconda che lo è. Ora, chi nega ha ragione quando sostiene che la premessa maggiore non è la legge, ma la legge interpretata ed elaborata; chi afferma ha ragione quando sostiene che nella forma e nella conclusione, cioè nel dispositivo, si perviene con l’iter logico del sillogismo.

Però si osserva che assumere come premessa maggiore la “legge interpretata ed elaborata” comporta, di fatto, una negazione della prescrizione costituzionale (art. 101) che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, però si finisce per sostituirla con il diverso incostituzionale postulato “i giudici sono soggetti solo alla giurisprudenza”, togliendo così al giudice ogni libertà interpretativa e sclerotizzando la legge in un casellario di casi, un supermercato di prodotti preconfezionati. Questa considerazione non esclude certo che il giudice si avvalga dei precedenti giurisprudenziali e delle costruzioni della dottrina, ma sarà una sua libera scelta. Diversamente si sostituirebbe il nostro sistema giuridico con quello anglosassone [3].

La funzione del sillogismo, che è applicazione della logica, porta a una immediata e inderogabile conclusione: l’opera del giudice, che è evidentemente pratica, è interpretazione della legge. Trasgredire questo principio è negare l’ordine giuridico costituito e sovvertire i principi costituzionali di tutti gli stati a struttura democratica, secondo cui il parlamento è organo legiferante e il giudice applica le norme interpretandole senza alcun potere di integrarle. Nemmeno in presenza di smagliature o carenze della norma, il giudice può sostituirsi al legislatore e, semmai, può dedurre la soluzione dall’ordinamento giuridico, che è pur sempre opera di interpretazione. Per il nostro sistema esiste il canone previsto dall’art. 12 delle Preleggi, la cui premessa è la ricerca della ratio legis, che nel diritto romano era ben riassunta nel brocardo id propter quod lex lata est, et sine quo lata non esset (ciò per cui una legge è posta e senza cui non può essere posta), da cui la conseguente cessante ratione legis, cessat et ipsa lex (venendo meno la ragione della legge, cessa di avere vigore la legge stessa).

Come si vedrà in seguito, questa assunzione è negata dal Betti, che propende per la ratio iuris [4].

 

2,ii – Definizioni di analogia giuridica

2,ii,a – Analogia giuridica generale

Si è già affermato nel precedente paragrafo che l’opera del giudice è esclusivamente interpretazione e la stessa integrazione, termine da usare in senso lato, deve svolgersi all’interno dell’interpretazione e rispettandone i limiti. Quindi, l’analogia è ammessa, ma come si vedrà non in tutti casi, come processo non integrativo, ma deduttivo dal sistema e questo spiega perché sia prevista nell’art. 12, comma 2, delle Preleggi, la cui rubrica legis è ”Interpretazione della legge”.

La definizione generale di analogia è “relazione di simiglianza tra cose distinte”, da cui la conclusione che se le cose sono distinte, ma con talune proprietà comuni, sono simili; se con tutte le proprietà sarebbero identiche; se con nessuna: diverse. Applicata al diritto la definizione implica che due termini per sopportare l’analogia devono essere simili e, per definizione, compatibili. Quindi, l’analogia è un processo interpretativo diretto a colmare – io direi “saldare” – lacune del legislatore e questo processo deve trovare i suoi limiti in un’autointegrazione, ma rimanendo nei confini dell’interpretazione, che non può superare la ricerca o, se ancora non proposta nell’opera dei giuristi, una estrazione di principi generali del diritto dall’ordinamento. Oltre questi limiti ci si porrebbe fuori dal sistema esistente e l’opera del giurista da interpretazione diverrebbe legislatrice.

Sulla differenza tra analogia legis e analogia iuris si soffermano Betti e Bobbio. Betti, che rifiuta la derivazione dell’analogia dalla volontà della legge (volontà presunta: no e ragione della legge: sì) [5] afferma che: «Non nella volontà della legge, bensì nella razionalità (intesa come corrispondenza a una esigenza storicamente incondizionata) può consistere il fondamento dell’analogia ». Però, bisogna fare attenzione che il Betti con Bobbio scivolano più o meno consciamente nella interpretazione legata all’evoluzione storica, che, seppur necessaria per adattare la norma alle mutate esigenze, corre il rischio di sconfinare verso l’interpretazione funzionale [6] o verso quella sociologica e socio politica [7], rendendo tutto possibile. Non quindi schiavi della ratio legis, ma nemmeno contra ratio legis. L’art. 12, comma 1 delle Preleggi, che, con la locuzione “intenzione del legislatore”, potrebbe non essere identificabile con la ratio iuris, posto che “intenzione del legislatore” implica una ricerca della volontà e non della razionalità. Soprattutto nelle norme eccezionali e con i rilievi espressi oltre, nelle norme “speciali”, la voluntas ha una necessaria prevalenza sulla ratio. Per questo tipo di norme è nella eccezionalità e nella specialità la loro stessa ratio. Infatti, “intenzione del legislatore” non è una metafisica ratio, perché voluntas è ciò che il legislatore ha letteralmente espresso e non ciò che “intendeva” esprimere e o non si è espresso o si è espresso male. Questa è anche la spiegazione dell’art. 12 delle Preleggi, che non avrebbe motivo di esistere, se la legge fosse sempre chiara. Invece, è il legislatore stesso che ammette, con l’art. 12, di non essere necessariamente e sempre chiaro e detta regole per chiarirlo. Ma, interpretarlo, nel significato della dinamica ermeneutica, non vuol dire integrarlo a proprio piacimento. La necessità della coerenza con l’ordinamento e i suoi principi generali deve fare i conti con la natura delle norme, che non hanno tutte lo stesso rango, poiché, diversamente, si potrebbe sostenere la vietata integrabilità delle norme costituzionali. Bisogna, allora, tener conto della definizione generale di analogia data dal vocabolario [8]. Alla fine si può parlare di “pendolo ermeneutico” che è un continuo oscillare tra diverse esigenze, come se il battaglio colpendo una campana a destra ottenesse un suono diverso da quello di sinistra.

In concreto, per l’art. 12 delle “Preleggi” l’analogia è un criterio interpretativo che propone la soluzione di un problema con riferimento a casi simili già risolti.

 

2,ii,b – Analogia giuridica tributaria

 

C’è chi sostiene che l’analogia non è applicabile alle norme tributarie, perché si tratterebbe di norme eccezionali e, invece, altri [9] affermano che non è vietata l’analogia in sé, ma è semplicemente impossibile. Aggiungo io: all’analogia fanno ricorso tutti, più o meno consciamente, ma non lo dichiarano. L’analogia si fa per confronto tra casi simili e può essere ritenuta una derivazione del sillogismo, con cui si deduce la soluzione di un problema mediante un confronto. L’analogia, così intesa, diventa un’applicazione del metodo deduttivo.

Ora, in diritto tributario, quando è la legge tributaria stessa che ammette l’analogia, non possono sorgere dubbi. Però, si osserva che in questi casi si tratterebbe di un’analogia di criteri; anche quando si dice in tema di accertamenti che si decide il reddito di un ristorante in relazione al numero dei tovaglioli [10] si fa un’analogia di criteri. Quindi, sembrerebbe non trattarsi di analogia “per casi analoghi”, ma l’affermazione di un criterio comune: così, per esempio, nel caso della determinazione del reddito di un’impresa con riferimento a studi di settore. Quando, invece, l’accertatore e il giudice tendono a risolvere un caso con ricorso a casi analoghi, senza esplicitarlo intenzionalmente, si ha la vera analogia tra casi, che è difficile da contestare, proprio perché nascosta tra le pieghe del giudizio e, soprattutto, se in base all’art. 39 DPR 600 ci sono anche altre prove, ancorché in via presuntiva. Anche quando si riscontra che certe decisioni sono ancorate a principi generali dell’ordinamento (principio di affidamento, di legalità, di ragionevolezza ecc.) si finisce per fare un’analogia, però anche qui di criteri e non di casi.

Nell’ambito di questo invalicabile circolo costituito dal mini-sistema degli artt. 12-14 delle Preleggi, si pone la suddivisione tra materie per le quali l’analogia è ammessa e altre che non la consentono. La fonte prescrittiva di questa distinzione sembrerebbe data dall’art. 14 delle Preleggi, che dispone: « Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati ». “Sembrerebbe”, ma non lo è, perché la norma afferma che le leggi “speciali” non si possono applicare oltre il loro ambito, ma non anche che possano ricevere impulsi da altre leggi. Pertanto, la fonte dell’analogia resta ancora il citato art. 14, però in collegamento con l’art. 23 della Costituzione, che categoricamente afferma: « Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge ».

L’analogia è un principio di carattere generale, cioè è un concetto, che supera i limiti temporali della vigenza di una struttura giuridica, specie tributaria; come a dire che, ammesso sia applicabile, non si modifica per il fatto che un DPR 29/01/1958, n. 645 sia sostituito da un DPR 597/1973 e questo da un T.U. 917/1986. Il problema è se l’analogia sia applicabile o no.

Prendo in esame due autori, ormai classici, che hanno scritto nella vigenza di due sistemi diversi, ma collegati con egual rapporto all’analogia.

Scrive il Giannini dopo aver richiamato l’art. 23 della Costituzione e nella vigenza del T.U. 645/1958 [11]: «…le norme che determinano gli oggetti d’imposta (non, quindi, tutte le norme tributarie) sono insuscettibili di interpretazione analogica, pur potendo essere estensivamente interpretate…». Che intende, questo autore, con “oggetto d’imposta”? Una norma istitutiva di un’imposta non può prescindere dalla identificazione del soggetto chiamato alla “prestazione patrimoniale” e un oggetto, che è il riferimento materiale o la circostanza o l’atto o il fatto, su cui si applica il tributo, l’an debeatur, detto in altri termini. Il resto è solo tecnica applicativa per la liquidazione della prestazione patrimoniale, il quantum debeatur. A parte la considerazione preliminare che l’oggetto è la “prestazione” nella sua interezza e che, quindi, per non cadere in contraddizione, è assorbente, quale genus, delle sue componenti, allora, se si ammette che l’analogia si possa applicare alla determinazione del quantum, si sosterrebbe una tesi assai povera di senso logico. Si supponga di dover determinare la base imponibile di una prestazione soggetta a IVA e soggetta anche ad altro tributo. Per esempio, la sostanziale equivalenza tra art. 13, comma 1 della Legge IVA (base imponibile) e art. 85, comma 1, T.U. 917/1986 (ricavi). Il fatto di dover liquidare l’IVA con lo stesso criterio, può significare ricorso all’analogia o non più semplicemente l’applicazione di una “tecnica” comune?

Scrive il Micheli, nella vigenza del D.P.R. 597/1973 [12]: «Non è quindi possibile, rispetto alle leggi tributarie, enucleare in via generale dei principi speciali in tema di interpretazione analogica. La constatazione, spesso ripetuta e teorizzata, dell’impossibilità di sottoporre ad analogia le norme tributarie impositive, tanto che attengano all’identificazione dei soggetti attivi e passivi della prestazione tributari, quanto al contenuto della prestazione, sia nei suoi presupposti sia nei suoi elementi costitutivi oggettivi, non trova alcun valido fondamento se non nella struttura delle norme stesse, congegnata così da escludere l’emersione di un principio, tale da poter trovare, in astratto, applicazione anche rispetto ad un caso non previsto dal legislatore []Del resto, la giurisprudenza estende di frequente il trattamento di esenzione, o di riduzione, del tributo, ricorrendo (dichiaratamente) all’interpretazione estensiva… A un’analisi stringente le motivazioni addotte dal Micheli potrebbero anche non resistere, ma contano le conclusioni: l’analogia non si applica né ai soggetti né agli oggetti, che è tesi a mio avviso condivisibile, perché il carattere di “specialità” [13] di ogni singolo tributo esige che la sua applicazione avvenga nell’ambito del tributo stesso e non per riferimenti esterni. Quindi, un’analogia assai ristretta e condizionata.

Semmai si può proporre di distinguere l’analogia in esterna e interna. La prima sempre vietata, la seconda ammissibile, con la massima attenzione e cautela, purché avvenga esclusivamente tra norme esecutive della norma generale istitutiva del tributo. Forse sarebbe pertinente l’esempio della liquidazione di un tributo diretto a carico del soggetto A in analogia a quanto liquidato a B, che si trovi nelle medesime condizioni oggettive. Ma si tratta ancora di analogia o non, piuttosto, di una tecnica liquidatoria comune, perché basata sugli stessi parametri?

L’analogia non è concetto facile da manovrare, ma, soprattutto, non è assoluto e non bisogna confonderlo con il senso comune. Applicare la logica a un tributo e la stessa logica a un altro non vuol dire fare analogia: vuol dire più semplicemente usare la logica. A parte la considerazione determinante che, se il giudice applica, più o meno consciamente, l’analogia a una fase “oggettiva” di un tributo, ma non esplicita il riferimento analogico, è ben difficile accusarlo di aver applicato la vietata (secondo alcuni) analogia. Nemmeno le leggi penali sono compartimenti stagni e attingono a istituti o disposizioni riguardanti altre materie. Se, per esempio, ci si trova in presenza di un reato di usura, il giudice penale è costretto a far ricorso al diritto civile sulle obbligazioni, poiché il codice penale non ha dato una definizione autonoma di obbligazione pecuniaria. Ciò non significa disapplicare l’art. 14 delle Preleggi. Esaminare un fenomeno patologico non richiede di verificarlo con la legge sua propria, ma giudicare un comportamento anomalo relativamente allo stesso. La legge penale analizza criticamente il comportamento e si pone al di sopra, ma giudicandolo alla luce delle norme violate. Così per le norme eccezionali come per quelle tributarie. Il che porta a considerare la tesi di giuristi insigni, tra cui Giuseppe Capograssi, secondo i quali il “diritto è uno” [14]; affermazione fondata, ma troppo dogmatica, da sostituire opportunamente con “il diritto è un tessuto”, che è anche coerente con l’etimologia della parola “ordinamento”.Ci si deve anche porre una domanda di natura preliminare: perché la norma tributaria dovrebbe essere “eccezionale”, invece di “speciale”? La differenza è notevole e ha una ricaduta sull’applicabilità dell’analogia, anche se in concreto si potrà pervenire, per altra vita, allo stesso risultato del Micheli, che, pur partendo da una qualificazione di “eccezionale”, conclude poi sulla inapplicabilità, affermando: « è dunque la rigidità della norma tributaria che la rende raramente suscettibile di interpretazione analogica e non già l’esistenza di una riserva di legge…» [15]. A mio avviso, la norma tributaria non può rientrare nella categoria di quelle “eccezionali”, condizionata dall’art. 14 delle Preleggi, per il semplice motivo che non fa “eccezione” a una norma generale, anzi è applicazione dell’art. 53 della Costituzione, seppur con la condizione prevista dall’art. 23 [16]. Se manca l’eccezionalità, con la conseguenza dell’ammissibilità dell’analogia, esiste però la specialità, che, seppur in termini del tutto diversi, rende difficile comunque l’analogia in senso generale. Allora, si può forse sostenere che, anziché un divieto assoluto, come quello per le leggi penali e quelle eccezionali, si tratti di un divieto relativo e oggettivo, nel senso che, risultando difficile un ricorso all’analogia in senso generale, si finisca comunque per incontrare limiti. Per esempio, una prestazione patrimoniale tributaria, non può essere analoga a una obbligazione pecuniaria di origine civilistica, ma è possibile un’analogia ristretta all’ambito del singolo tributo. Non si può istituire un tributo nuovo o una fattispecie tributaria nuova – che sarebbe poi la stessa cosa – per analogia con altro invece previsto, perché si porrebbe in contrasto con l’art. 23 della Costituzione. Proprio per il vincolo costituzionale dell’art. 23, ogni legge d’imposta costituisce un fenomeno particolare (“speciale”), per cui i concetti di analogia e di interpretazione estensiva devono essere verificati all’interno della singola legge d’imposta e in particolare in relazione al suo oggetto.

Ma, a questo punto, diventa interessante richiamare un fatto curioso. Il Giannini, che pure è ritenuto, a condivisibile ragione, un classico del diritto tributario richiama alcune sentenze risalenti della Corte di cassazione, a cui attribuisce il merito di aver trattato con chiarezza il problema dell’analogia nel diritto tributario. Non condivido tale giudizio. In particolare:

a) 16 gennaio 1935 [17], in tema di iscrizioni reclamistiche dei distributori di benzina, la Cassazione afferma che: «Non si tratta in tal caso di estendere per analogia la norma di una legge speciale, come quella tributaria ad un caso da essa non contemplato, il che non potrebbe essere giuridicamente possibile, ma di parificare al congegno del n. 2 altri congegni analoghi, e parimenti atti a rendere nell’oscurità visibile un annunzio ». Si nota che, dopo aver definito la norma tributaria “speciale”, il giudice cassazionista la tratta come “eccezionale”, escludendo il ricorso all’analogia. L’introduzione del termine “speciale” come sostanziale fenomeno eccezionale non giova a fare chiarezza, proprio perché tra i due termini non c’è sinonimia. Criticare di trasandatezza i giudici di oggi rispetto a quelli di quasi un secolo fa, quando la Corte di cassazione non era inflazionata da migliaia di ricorsi, non è fondato.

b) 4 giugno 1936 [18], in tema di imposta sui materiali da costruzione per autostrade, la Corte di cassazione afferma che: «…quantunque l’enumerazione fatta in questo art. 59 non sia tassativa, si deve però tener presente che, trattandosi di stabilire esenzioni, ossia eccezioni a disposizioni generali di legge, l’interpretazione, se pur può essere estensiva nel senso di ritenere implicitamente compresi nella enumerazione fatta dalla legge, opifici non espressamente indicati dalla legge medesima, tuttavia non è ammissibile l’interpretazione analogica[] Ond’è che determinando la legge, con criterio rigorosamente tassativo, quali strade godano dell’esenzione del dazio, non è lecito all’interprete concedere altre esenzioni non concesse dalla legge ». Anche in questa sentenza si afferma il principio di eccezionalità e non di specialità, per cui la conclusione diventa ancor più rigorosa.

c) 28 giugno 1937 [19], in materia di esenzioni dalla legge del bollo e di registro, la Cassazione afferma che «…la pretesa restrittività delle esenzioni fiscali non impedisce, nei casi concreti, di identificare, con interpretazione razionale, la effettiva portata della norma, giacché solo l’analogia è vietata in tema di eccezioni alle leggi generali, non già la indagine sul pensiero legislativo, onde dedurne, poi, la estensività, o meno della espressione letterale. [] Non si tratta qui, infatti, di stabilire la identità ontologica fiscale tra il deposito e le tasse di registro e bollo; sebbene di dedurre, dalle varie disposizioni, la portata estensiva della esenzione; cioè, che la lettera della legge fu più ristretta di quanto effettivamente si volle disporre». La Cassazione ritorna al concetto di “eccezionalità” della norma tributaria e afferma che l’interpretazione estensiva si avvale della ricerca del “pensiero legislativo”. Quindi una pari ratio legis. Non si comprende il richiamo del Giannini, che scrive nel 1960, alla citata giurisprudenza, non certo perché questa sia anteriore al codice civile del 1942 e, quindi, al mini-sistema rappresentato dagli attuali artt. 12 e 14 delle Preleggi, preesistendo le due norme persino con eguale tenore letterale nel precedente codice civile del 1865 [20], ma perché nelle sentenze richiamate non si nota alcuna chiarezza nella distinzione tra legge eccezionale e legge speciale, che è il focus del tema esaminato in questa nota. La non del tutto digerita categoria della norma speciale, espressa obiter dictum e probabilmente ritenendo la specialità come sinonimo di eccezionalità, nella sentenza 16.1.1935 [21], finisce per lasciare senza soluzione il problema fondamentale dell’analogia e dell’interpretazione estensiva, smentendo così il Micheli [22].

Un richiamo merita la giurisprudenza della Corte di cassazione posteriore più recente. Tra le molte sentenze, si citano:

a) 18 febbraio 2000, n. 1844, in tema di esenzione decennale dall’Invim. La Corte ritiene che non sia possibile «…superare il riferimento testuale della norma sull’esenzione alla sola imposta decennale, disciplinata da norma distinta da quella che prevede l’imposta a seguito del trasferimento». Quindi, la Cassazione rifiuta persino l’interpretazione estensiva;

b) 23 febbraio 2000, n. 2077. La Cassazione accoglie la tesi dell’Amministrazione finanziaria ricorrente, secondo cui: «Le norme di esenzione dall’imposta, essendo eccezionali e comunque derogatorie della disciplina generale, sono poi di stretta interpretazione, con esclusione del ricorso all’analogia ».

c) 23 gennaio 2001, n. 916, in tema di conferimenti di aziende. La Corte, negando l’estensione dell’esenzione prevista dall’INVIM decennale, afferma che: «…l’argomento testuale sia assolutamente insuperabile, e che quindi [] non sia consentita un’applicazione per analogia dell’esenzione prevista per l’INVIM decennale all’INVIM sui trasferimenti ».

d) 5 maggio 2003, n. 6789. La Corte osserva che in tema di imposte sui redditi per le imprese in contabilità semplificata la legge: «…ha introdotto una disciplina di favore, come tale di natura eccezionale e, quindi, insuscettibile di interpretazione per analogia ».

e) 29 luglio 2004, n. 14502, in tema di esenzione dall’IVA sui servizi di vigilanza. La Corte accoglie la tesi dell’Amministrazione finanziaria, secondo la quale l’esenzione sarebbe stata dettata dal legislatore: « per le singole guardie giurate e la cui applicazione analogica agli istituti di vigilanza [] sarebbe illegittima, perché le norme di esenzione sarebbero tassative e non sarebbero applicabili per analogia ad oggetti diversi da quello espressamente previsto ».

f) 8 settembre 2004, n. 18085, in tema di abitazione principale a fini ICI. La Corte osserva che la relativa disposizione: «…ha natura di norma speciale, ostativa alla sua applicazione per analogia, né appare appagante la “ratio” di favorire la coltivazione, agevolando determinate categorie ». Ricompare la categoria della “specialità”, ma intesta come sinonimo di “eccezionalità”.

g) 6 dicembre 2004, n. 22863. In tema di imputazione diretta dei dati contabili ai fini Irpef e Iva pur in mancanza di accertamento, la Corte osserva che: «…si deve considerare regola comune del genere del tributo, perché l’ufficio che eserciti il potere di liquidazione tributaria senza previo accertamento, la cui adozione resta riservata, si limita a modificare la quantità del contenuto dell’imposta solo in base a quelle variazioni che hanno natura di correzione della dichiarazione del contribuente e che il contribuente stesso apporterebbe in quanto vi sia costretto dalla natura delle cose e dalla logica che la governa; tale regola, costituendo un caso di norma che ha la natura sia di principio sia di regola speciale, può applicarsi sia per analogia legis sia per analogia iuris ai tributi per i quali l’imputazione degli effetti della liquidazione dell’ufficio tributario non sia espressamente regolato, come si verifica per l’ICIAP, che è in questa sede oggetto di controversia ». Questa sentenza sembra ammettere l’analogia, così distaccandosi dal filone consolidato delle altre sentenze della Corte di cassazione. Ma, così non è! Il giudice ha usato, in questo caso, non tanto l’analogia, ma una uniformità di criterio. Infatti, si tratta di considerare che la soluzione del problema è nel comportamento del contribuente stesso. Quindi, non è nemmeno pertinente il richiamo di analogia legis e di analogia iuris, ma di applicazione del principio di correttezza del contribuente, che non può rimanere inerte in presenza di suoi errori od omissioni.

Peraltro, si deve ricordare che per il diritto tributario per l’analogia e la interpretazione estensiva, l’interprete deve preliminarmente superare lo scoglio dell’ubi noluit, tacuit.

3 – Applicazione estensiva

Non minori difficoltà riserva il problema dell’estensione dell’interpretazione e dell’applicazione della norma tributaria, che spesso si confonde, si accompagna o si sovrappone all’analogia e con cui condivide, come si è detto, il problema del superamento dello scoglio rappresentato dal brocardo lux ubi tacuit, noluit.

Si sostiene che l’art. 14 delle Preleggi si riferisce all’interpretazione analogica e non all’estensiva, da cui l’ammissibilità di questa alle norme tributarie. Ma sembra una constatazione un po’ povera di contenuti! Soprattutto scansa il significato di estensione, che, a mio avviso, è ancora più pericoloso dell’analogia, soprattutto se non si chiarisce a chi e a che cosa si opera l’estensione. Innanzi tutto non si può sostenere che l’estensione si applichi ai soggetti. Restano gli oggetti. Ma quali? L’art. 23 della Costituzione è una salvaguardia imperforabile, se non si vuole ridurre il ministero dell’entrata a sceriffo di Nottingham.

Posta la definizione di specialità del diritto tributario o, più precisamente della legge istitutiva di un tributo, non restano spazi per l’estensione, nemmeno negli oggetti [23].

Nel brano prima riportato il Giannini afferma che le norme tributarie possono: «…essere estensivamente interpretate ». Gli fa eco il Micheli, che prosegue nel brano sopra riportato e in riferimento alle esenzioni: «…Del resto, la giurisprudenza estende di frequente il trattamento di esenzione, o di riduzione, del tributo, ricorrendo (dichiaratamente) all’interpretazione estensiva…». Questa tesi che, dopo aver negato l’analogia, consente l’interpretazione estensiva, così come è espressa in termini dogmatici, non mi sembra del tutto condivisibile.

Sono dell’avviso che come si estende un’esenzione (imposta no) si può arrivare a estendere un tributo (imposta si) e che questo porti a valicare facilmente i limiti previsti dall’art. 23 della Costituzione. L’interpretazione estensiva, così concepita, porta a pretendere quia sum leo o a esonerare “perché il re è buono”, che detto con le parole di Giolitti suona: “le leggi si interpretano per gli amici e si applicano per i nemici”.

Invece, se si vuol riconoscere legittimità all’interpretazione estensiva in campo tributario, è più corretto sostenere che semmai essa è possibile, nell’ambito dello stesso tributo, a oggetti, i quali, seppur non enunciati vi sono attratti per eadem ratio; ma non è comunque possibile in quei tributi retti da un sistema “a casistica” e senza norme residuali, per cui l’ubi noluit, tacuit diventa un ostacolo invalicabile, perché gli oggetti possono essere solo quelli tassativamente elencati. Si potrebbe persino sostenere che, a prescindere dalla struttura “a casistica”, la mancanza di una “norma residuale” rende di per sé impossibile una interpretazione estensiva.

Il richiamo di autori, per esempio il Micheli, pur di indubbio valore, al sistema delle esenzioni, a cui certa giurisprudenza si richiama per estendere agevolazioni, è meno certa di quanto essi vorrebbero far credere. Basta citare le sentenze sopra riportate (Cassazione: 18.2.2000, n. 1844; 23.2.2000, n. 2077; 23.1.2001, n. 916; 5.5.2003, n. 6789; 29.7.2004, n. 18085), in cui le agevolazioni tributarie sono trattate come norme eccezionali nell’ambito della specialità, nel senso che l’oggetto del tributo è la sua corresponsione (norma generale e nel contempo speciale), mentre l’agevolazione è l’eccezione (norma eccezionale-speciale). Ci si deve porre la domanda: “come può un interprete (normalmente il giudice) ampliare con interpretazione estensiva un’area di esenzione sulla base di un’ipotesi del tipo: si deve ritenere che il legislatore…”?

4 – Analogia e principi generali del diritto

Sulla concettualizzazione e definizione di “principi generali dell’ordinamento” si sono espressi con sfumature diverse i filosofi del diritto. C’è però convergenza sull’operazione ostetrica di estrazione. Deve cioè trattarsi di una operazione di “derivazione” dall’ordinamento, in cui i principi sono insiti, cioè intrinsecamente già presenti e, quindi, estraibili, derivabili, ma da ritenere non definitivi, perché l’ordinamento non è un quadro dipinto “una volta per tutte”, ma una realtà dinamica, in continuo movimento, talché ogni nuova norma, che vi è immessa, determina nuovi impulsi, con ricaduta indiretta sui principi derivabili. Si ricorda che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 6 del 1956, ha definito: «…come principi dell’ordinamento giuridico quegli orientamenti e quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dalla intima razionalità delle norme che concorrono a formare in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento giuridico vigente e…[che derivano] da questa coerente e vivente unità logica e sostanziale del diritto positivo ». [24]

Il rapporto tra interpretazione della norma tributaria e art. 12 delle Preleggi, già problematico per altre ragioni qui descritte, diventa difficile quando si deve affrontare il passaggio attraverso l’analogia e l’interpretazione estensiva.

Se il diritto è logica – e la sua natura prevalentemente deduttiva ne è conferma – l’art. 12 delle Preleggi deve essere esaminato nella struttura, che si compenetra con la ratio legis. L’articolo elenca una sequenza molto stringente di canoni interpretativi posti in ordine decrescente, che i matematici definirebbero una serie (o successione) di elementi ordinata e limitata. In termini poco eleganti si potrebbe esprimere la sequenza in questi termini: l’interprete affronti la norma prima con il criterio 1 (interpretazione logico-grammaticale), poi, se non ottiene la soluzione, con il 2° (ricerca della ratio legis), poi con il 3° (analogia) e solo dopo non essere riuscito a risolvere il problema con alcuno dei tre precedenti, ripieghi sul 4° (principi generali dell’ordinamento giuridico).

È stata proposta, da parte della cosiddetta Scuola di Pavia un criterio particolare di interpretazione delle norme tributarie, detta “funzionale”. È opportuno ricordare l’avvertimento del Micheli [25]: «Non si può dire così che. Rispetto alle norme tributarie, si debba ricorrere comunque a una interpretazione funzionale delle norme che sarebbe rivolta a una concreta valutazione degli interessi, in relazione alla funzione delle disposizioni legislative. Si tratta in realtà del normale metodo tecnico interpretativo, nel quale confluisce la ricerca della ratio della disposizione, intesa non solo nel suo significato grammaticale e nei suoi nessi sintattici, ma altresì nella sua connessione con altre disposizioni, appartenenti alla stessa legge o ad altre leggi ».

Detto senza giri di parole: poiché gli interessi della norma tributaria sono quelli del Fisco, l’interpretazione funzionale è “pro Fisco”. Fortunatamente questo criterio interpretativo non è risultato vincente.

La struttura, enunciata così chiaramente da non richiedere a sua volta una preliminare interpretazione, implica che, se l’interprete esaurisce le possibilità di soluzione per inutilizzabilità dei primi due criteri e il 3° non è risulta applicabile, perché ritiene che l’analogia non sia applicabile al diritto tributario, non per questo gli è vietato ricorrere al 4° e riferirsi ai “principi generali dell’ordinamento”. Si ricorda che secondo la più accreditata dottrina [26], al diritto tributario non si applicano criteri interpretativi speciali e diversi da quelli dettati per la legge in generale, quindi è operante l’art. 12 delle Preleggi in tutta la struttura prima descritta. Come a dire che, ricorrendo ai principi generali del diritto, una soluzione si trova sempre, perché sembra che il fallimento di un tentativo di interpretazione attraverso una metodologia non escluda il passaggio alla successiva; cioè nessun metodo fa blocco per il successivo.

Ma questa sequenza, se vale per le norme in genere, non può funzionare allo stesso modo per la norma tributaria, perché non si possono aggirare gli ostacoli dell’analogia, vietata o ristretta all’interno della norma secondo la teoria che si intende seguire, e dell’interpretazione estensiva. Sarebbe facile, ricorrendo ai principi generali dell’ordinamento, scavalcare i divieti tipici della specialità della norma tributaria e ridurre, così, la norma tributaria a norma ordinaria.

Per questa, diversamente che per le norme ordinarie, vale una interpretazione dell’art. 12 delle Preleggi a blocchi di metodi, nel senso che quello della mancata analogia non consente il passaggio al metodo successivo. È questione di logica giuridica, che però porta alla domanda: ma i principi generali dell’ordinamento restano esclusi dalle norme tributarie?

L’interpretazione con ricorso ai “principi generali dell’ordinamento giuridico” è impiegata dalla Corte di cassazione in più sentenze, soprattutto per casi relativi alla “capacità contributiva” e alla “ragionevolezza” [27].

Questo è l’arduo problema posto dalla norma tributaria! E la risposta può essere la seguente. In relazione alla norma tributaria non si può certo affermare che i principi generali dell’ordinamento siano da ritenere inesistenti. Invece, si impone una selezione molto attenta, proprio per evitare che vengano richiamati per aggirare gli ostacoli dell’analogia e della interpretazione estensiva. Innanzi tutto si deve considerare la norma tributaria in senso stretto, cioè nella sua specifica finalità e nel suo oggetto. Ne resta escluso, per esempio, il diritto processuale tributario, che attiene alla procedura, al rito della fase patologica del rapporto tra contribuente e l’Amministrazione finanziaria. La norma tributaria trova già nella Costituzione i suoi riferimenti e i suoi limiti. I due cardini sono gli art. 53 e 23 della Costituzione. Non altri, che potrebbero essere conflittuali. Per esempio, applicare all’oggetto del rapporto giuridico d’imposta principi generali desumibili dagli artt. 41 a 44 della Costituzione, potrebbe creare conflitti tra principi. Questi, in relazione all’oggetto della norma tributaria possono, invece, costituire un riferimento di verificazione per appurare se l’interpretazione non costituisca una soluzione configgente, per esempio, con un principio di equità. Ma, si noti, l’analogia e l’interpretazione estensiva, restano estranee a questa verifica, perché, se l’interpretazione desse un risultato iniquo, il giudice dovrebbe sollevare eccezioni di costituzionalità della norma, sospendere il giudizio e non aggirare i vincoli dell’analogia e dell’interpretazione estensiva.

 

5 – Lo statuto del contribuente

 

Si deve ora tornare alla domanda della premessa: come si inserisce in questo quadro lo “Statuto del contribuente”?

Evidentemente si tratta di una norma speciale posta a salvaguardia di diritti fondamentali del contribuente, che, seppur con ragionamento esasperato, potrebbero trovare già tutela nell’ordinamento. Il fatto che si tratti di diritti riconosciuti e ben specificati, non vale certo a dichiarare lo “Statuto” una norma inutiliter data, se non altro perché proprio il ricordato art. 1 dichiara espressamente il suo rango superiore alla norma ordinaria e anche alla speciale, nella cui categoria si è qui iscritta la norma tributaria. Però, lo “Statuto” non è una norma tributaria per l’oggetto, poiché non istituisce tributi, ma regola e limita comportamenti e poteri discrezionali. Quindi, vi si applica l’art. 14 delle Preleggi e non si può escludere che per la sua interpretazione e applicazione si possano attingere legittimamente apporti di analogia “esterna”, di interpretazione estensiva e di principi generali dell’ordinamento anche oltre le due norme fondamentali costituite dagli artt. 53 e 23 della Costituzione.

La natura di legge superiore all’ordinaria e posta a tutela del contribuente si desume anche dall’art. 2 “Chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie”. Quindi, lo Statuto ha il fine di tutelare il contribuente non solo contro l’Amministrazione finanziaria, ma anche nei confronti del legislatore oscuro. Purtroppo, spesso tutto resta nel mondo delle buone intenzioni e lo sport della violazione di principi fondamentali è molto praticato. È interessante notare che la Corte di cassazione nella pregevole sentenza 14 aprile 2004, n.7080, afferma: «In questo modo la legge 212/2000 [Statuto del contribuente] ha inteso attribuire alle proprie disposizioni il valore di “principi generali dell’ordinamento tributario”», ove l’aggettivo “tributario”, è, però, di troppo, perché, come si è osservato al paragrafo 2, l’ordinamento è “uno”.

6 – Conclusioni

Per le sue difficoltà intrinseche, l’analisi sviluppata in questa nota può rivelarsi dispersiva e può risultare utile esporre una conclusione di sintesi per punti sequenziali.

1. La norma tributaria non è classificabile fra le “eccezionali”, ma nelle “speciali e le norme degli artt. 12-14 delle Preleggi costituiscono un mini-sistema, che deve essere applicato alle norme tributarie con particolari attenzione e prudenza;

2. in quanto norme “speciali” e superato lo scoglio preliminare dell’ubi noluit, tacuit, vi si può applicare l’analogia e l’interpretazione estensiva;

3. esistono difficoltà, talvolta insuperabili ad applicare in pratica l’analogia, come ben ha rilevato il Micheli, che, però, ha assolutizzato tale difficoltà;

4. la caratteristica della “specialità”, data la condizione dell’art. 23 della Costituzione, consente, in pratica, un’analogia ristretta all’ambito del singolo tributo, a meno che non si tratti di analogia di criteri, il che fa sorgere il dubbio che si tratti ancora di analogia e non piuttosto di uniformità metodologiche;

5. l’interpretazione estensiva segue le sorti dell’analogia, perché non può porsi come aggiramento surrettizio della stessa;

6. il ricorso ai principi generali dell’ordinamento, nonostante non sia vietato, può rivelarsi equivoco per le norme tributarie definite “speciali”, perché non può consentire il superamento dei limiti dell’analogia e della interpretazione estensiva. Oltretutto, i “principi generali dell’ordinamento” soffrono di limiti di indeterminatezza notevoli, a fortiori per le norme tributarie, sulla cui natura la Corte di cassazione, dopo almeno settant’anni, dimostra incertezze terminologiche e logiche;

7. lo “statuto del contribuente” si colloca dopo le norme costituzionali e prima di quelle ordinarie, ma non è norma tributaria, bensì di generale tutela del contribuente nei confronti dell’Amministrazione finanziaria; quindi non eccezionale e non speciale. Come tale, si possono applicare le regole generali sull’analogia, l’interpretazione estensiva e il riferimento ai principi generali dell’ordinamento.

 

 

(Pietro Bonazza)


[1] G. Ripert, Aspects juridiques du capitalisme moderne.

[2] A. Trabucchi, in Istituzioni di diritto civile, Padova, 1976, scrive a pag. 58: « Il diritto è vita. Di qui l’importanza di imparare a considerare ogni regola in un sistema razionale, aderente alla vita. Il giurista deve acquisire una speciale forma mentis. La sua logica non si ferma a un raziocinio formale, ma è, come si dice, una ‘logica giuridica’, perché tiene conto soprattutto dei rapporti da regolare e degli scopi da raggiungere ». Personalmente non condivido questa specialità della logica giuridica, talché il giurista debba crearsi una forma mentis particolare. La logica è sempre sostanziale, se no sarebbe solo apparente e avremmo tante logiche diverse secondo le diverse discipline. Per Trabucchi si dovrebbe distinguere tra logica formale e logica sostanziale. Quest’ultima sarebbe quella che deve caratterizzare il pensiero del giurista, ma, se si considera che la ‘logica formale’ è quella caratterizzate dalle forme dell’inferenza, intesa come insieme di regole che in un sistema deduttivo, qual è quello del diritto, consente di dedurre proposizioni dai postulati, si può constatare che la distinzione del Trabucchi è criticabile, perché anche la logica formale è vita.

[3] Per una descrizione sintetica del sistema giuridico della common low si veda la voce in Novissimo Digesto Italiano scritta da J.D. Davies.

[4] Emilio Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, pag. 169. Scrive l’autore: « È necessario risalire alla “ragion sufficiente” o “ragion d’essere” delle norme che si presentano “analoghe”. Questa ragione come ratio iuris di una norma, assume un duplice atteggiamento e significato, secondo il duplice profilo accennato, sotto il quale la norma può essere considerata ». Scrive, invece, il Bobbio, cit.,  « Ma se la ratio legis è la ragion sufficiente della norma giuridica, si dovrà dire, in base al principio di validità del ragionamento per analogia, che l’estensione dal caso regolato al caso non regolato è legittima quando il secondo ha in comune col primo la ratio legis, o per dirla con le parole usate tradizionalmente dai giuristi, quando la somiglianza dei due casi consiste nell’avere entrambe l’eadem ratio. Di qua la massima: “ubi eadem ratio, ibi eadem iuris dispositivo” ».

[5] Betti, cit., pagg. 167 e segg.

[6] L’interpretazione funzionale, per fortuna ormai abbandonata almeno come riferimento formale, ha trovato i suoi propugnatori in Griziotti, Vanoni e altri della cosiddetta Scuola di Pavia.

[7] L’interpretazione, inquinata da riferimenti ideologici è stata contrastata da Hans Kelsen. Si veda Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 1970. Afferma lo stesso Kelsen nella prefazione del 1934:  « Sono trascorsi pia di due decenni da quando ho intra­preso a svolgere una dottrina pura del diritto, cioè una dottrina depurata da ogni ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico, una dottrina giuridica cosciente del suo carattere particolare dovuto alla autonomia del suo oggetto. Anzitutto, il mio scopo è stato quello di elevare la giurisprudenza, che palesemente od occulta­mente si dissolveva quasi del tutto nel ragionamento politico-giuridico, all’altezza di una scienza autentica, di una scienza dello spirito. Si trattava di sviluppare le sue tendenze dirette non alla creazione, ma esclusivamente alla conoscenza del diritto, e di avvicinare il più possibile i suoi risultati all’ideale della scienza: oggettività ed esattezza ».

[8] Si veda Betti, cit., pag. 163

[9] Gian Antonio Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, scrive a pag. 83, op. cit., : « Non è dunque possibile, rispetto alle leggi tributarie, enucleare in via generale dei princìpi speciali in tema di interpretazione analogica. La constatazione, spesso ripetuta e teorizzata, dell’impossibilità di sotto­porre ad analogia le norme tributarie impositive, tanto che attengano all’identificazione dei soggetti attivi e passivi della prestazione tributaria, quanto al contenuto della prestazione, sia nei suoi presupposti sia nei suoi elementi costitutivi oggettivi, non trova alcun valido fondamento se non nella struttura delle norme stesse, congegnata così da escludere l’emersione di un principio, tale da poter trovare, in astratto, applicazione anche rispetto ad un caso non previsto dal legislatore. Solamente riguardo alle norme tributarie eccezionali, rispetto ad un complesso di regole impo­sitive, si potrà ipotizzare un divieto di analogia secondo l’art. 14 disp. Prel. Cod. Civ. Ma non sembra che si possano considerare tali tutte le norme che prevedono un’esenzione da un dato trattamento fiscale od una, agevolazione. Sempre che le norme relative siano costituzionalmente legit­time, non si possono senz’altro qualificare come eccezionali, poiché po­trebbe darsi che esista un complesso di esenzioni fiscali rispetto ad uno o più tributi, tali da costituire delle norme generali in proposito. Del resto, la giurisprudenza estende di frequente il trattamento di esenzione, o di riduzione, del tributo, ricorrendo (dichiaratamente) all’interpretazione estensiva, facendo dire alla formula impiegata dal legislatore assai più di quanto questa comporti, ma in sostanza applicando analogicamente la norma di esenzione, considerata come espressione di un principio più generale e quindi, come tale, applicabile anche a casi non previsti dalla norma positiva, ma più prossimi alla fattispecie da quest’ultima regolata.» Dello stesso avviso è A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1960, pag. 26. L’autore afferma: «…nulla autorizza a ritenere che per le disposizioni di diritto tributario si debbano seguire criteri interpretativi diversi di quelli che presiedono all’interpretazione di qualsiasi altra legge ». Si può senz’altro condividere il principio, ma, in pratica, sono necessari adattamenti, spesso numerosi.

[10] Corte cassazione: 29.7.2005, n. 16048; 8.7.2002, n. 9884; 7.1.1999, n. 51.

[11] A.D. Giannini, cit.

[12] Gian Antonio Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, pag. 83.

[13] La categoria “diritto speciale” non è una mia novità. Si legga di A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., la pag. 35. L’autore afferma: «Quando c’è un diritto speciale, le sue norme prevalgono su quelle di diritto comune, secondo una regola che ha valore generale per tutto il diritto: in toto iure generi per speciem derogatur ». Purtroppo, il Trabucchi lascia la categoria nel generico e, non essendo un tributarista, non va oltre l’astrazione del nomen, che, così, risulta di scarsa utilità per il problema della corretta classificazione della norma tributaria. Anzi, crea confusione tra le categorie “speciale” ed “eccezionale”, quando qualifica lo stato di guerra nella prima, mentre si tratta di norma eccezionale. Si veda anche la pag. 46, in cui, forse con intento di chiarire la precedente 35, afferma: «L’analogia è invece ammessa per le norme di diritto speciale».

[14] Giuseppe Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, Introduzione, pag. 11: «Il concetto giuridico per essere sé stesso deve esprimere e captare tutto quanto il diritto, deve essere comune a tutto l’ordine giuridico. Si tratta per ora di trovare i concetti comuni di dimostrare traverso questa costruzione dei concetti comuni l’artificialità e la relatività della distinzione tra ramo e ramo del diritto, ma l’esigenza del nuovo metodo c’è, e cioè essendo il diritto un tutto, i concetti per essere adeguati debbono essere concetti relativi a questo tutto. Solo i concetti che contengono questo tutto, che sono validi per esso, sono concetti. È un lavoro ancora incerto in certo modo arti­ficiale tanto che non ancora si rende perfettamente consapevole della sua vera portata, ma lavoro fecondo, perché parte dalla più profonda intuizione a cui sia arrivata la scienza contem­poranea e cioè che il diritto è un. mondo unitario e che per cons­eguenza il lavoro scientifici deve essere adeguato a questa profonda e organica unità.

Ora tutto questo dimostra che la scienza la quale sembrava «ancilla» della esperienza, domina, invece, l’esperienza. Ha unificato quello che era diviso, ha risolto i dati in problemi, ha colto l’interdipendenza di tutti gli elementi che sembravano per sé stanti, ha cercato di arrivare all’unità, ed è perfino arrivata, ha tentato perfino di arrivare sino al cuore di tutta l’esperienza sino al principio di vita che regge e genera tutta l’esperienza nel suo specifico valore giuridico.»

[15] Micheli, cit., pag. 80.

[16] Betti, cit., pag. 188 afferma: «Carattere eccezionale […] può alla norma derivare talora dalla natura contingente della valutazione di pubblico interesse che l’ha determinata e dall’indole anormale e temporanea delle situazioni che la impongono: ad es. guerra, stato d’assedio, terremoto, epidemia, in genere stati di emergenza, ai quali non si adatta la disciplina normale

[17] In Giur. it., 1935. I, 1, 276.

[18] In Giur. it., 1936. I, 1, 1027.

[19] In Foro it., 1937, I, 1057.

[20] L’art. 32, 2, disp. prel. c.c. 1865 recitava: «Qualora una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del diritto »

[21] Si legge nella sentenza: «Non si tratta in tal caso di estendere per analogia la norma di una legge speciale, come quella tributaria ad un caso da essa non contemplato, il che non potrebbe essere giuridicamente possibile…». Si vedano anche sentenze più recenti della stessa Corte.

[22] Si veda il passo «…Del resto, la giurisprudenza estende di frequente il trattamento di esenzione, o di riduzione, del tributo, ricorrendo (dichiaratamente) all’interpretazione estensiva…».

[23] Non è senza significato che il Bobbio, cit., pur riconoscendo che l’interpretazione analogica per le leggi penali e le eccezionali è operazione proibita mentre l’interpretazione estensiva è un’operazione lecita, ci ricordi che: « la distinzione tra interpretazione estensiva e analogia propriamente detta è stata variamente giustificata e anche messa in dubbio ».

[24] Si veda: P. Bonazza, Principio di ragionevolezza, in Boll. Trib., 2006, n. 2, pagg. 103 e segg.

[25] G. Micheli, cit., pag. 75.

[26] Per esempio: Gian Antonio Micheli, op. cit., pag. 73.

[27] P. Bonazza, Principio di ragionevolezza, cit.