L’orologio è una delle più contraddittorie scoperte. Inventato per misurare il tempo, ha bloccato il concetto che l’uomo ne aveva a un percorso di lancette su un quadrante. Eppure, nulla è più relativo del tempo, al punto che per capirlo bisognerebbe distruggere tutti gli orologi. Non è detto che l’uomo sarebbe più felice, dal momento che non lo era nemmeno prima dell’invenzione, ma, certamente il tempo sarebbe liberato dalla schiavitù delle lancette ed elevato alla sua dimensione più umana, quella delle azioni della vita, che comprendono il sentire e il sapere, il gioire e il soffrire, l’oziare e l’agire, il nascere e il morire. Ma, a ben vedere, non c’è nemmeno bisogno di annullare tutti gli orologi del mondo, perché è solo questione di saggia lettura. Pensiamo a un raduno di centinaia di migliaia di reduci davanti a una necropoli di guerra e a un cappellano che invita a raccogliersi in un minuto di silenzio. Un minuto, sessanta secondi che non passano mai, perché in essi si riassumono preghiere, memorie, caduti che escono dal sacrario per sostare un attimo, quali angeli custodi accanto a ogni vivente, storia che rivive, commozione che travolge come se l’anima si sciogliesse e poi, ancora altri secondi vuoti in attesa che scocchi l’ultimo. Un minuto e ne avanza per avvertire, dopo il pensiero, la dimensione materica del silenzio e poi lo scoccare dell’ultimo attimo come una liberazione finale, perché nessuno spirito può resistere a lungo a un tormento così intenso. C’entra qualcosa l’orologio in tutto questo? Il tempo non esiste senza il silenzio. Non esiste perché non siamo in grado di percepirlo. Solo quella stupida patacca che i gioiellieri si ostinano a riempire d’oro e costellare di brillanti continua imperterrita nel suo vuoto numerare. Un numerare senza anima. Per favore: un minuto di silenzio, per sentire il fruscio delle stelle che scivolano nel firmamento.